Corriere della Sera,20 luglio 2011, 13 luglio 2014
Tags : Il suicidio di Salvador Allende
Un articolo di Michele Farina
Corriere della Sera,20 luglio 2011
Aveva ragione il suo medico, e torto sua moglie. Dopo 38 anni, un’autopsia molto postuma ha confermato che Salvador Allende si tolse la vita sparandosi alla testa nel pomeriggio dell’11 settembre 1973, sul sofà rosso mattone dove il dottor Patricio Guijon lo vide premere il grilletto del mitra dono di Fidel Castro, nel palazzo presidenziale bombardato dai caccia di Pinochet. Il generale golpista su questo diceva la verità: don Salvador, «il rivoluzionario legalista» come lo definì Le Monde il giorno dopo il colpo di Stato, non morì combattendo (come sostenne per anni anche la sinistra internazionale), assassinato nell’attacco alla Moneda da cui parlò ai cileni nell’ultimo messaggio a Radio Magallanes: «Pagherò con la mia vita la difesa dei principi che sono cari alla mia patria» . Sono passati quasi 40 anni. Da 20 il Cile è democratico. Pinochet è morto nel 2006. Appassite le contrapposizioni ideologiche, «Venceremos» e il «Pueblo Unido» non sono nella hit-parade di iTunes. Da tempo anche la famiglia Allende aveva finito per riconoscere la versione ufficiale che all’inizio pareva inaccettabile come tutto il resto, compresa la sepoltura: Hortensia, la vedova, fu fatta salire su un aereo accanto alla bara del marito fino a una fossa anonima nel cimitero di Viña del Mar: «Mi hanno impedito di vederlo, di toccarlo, disse lei. Tolsero per un attimo il coperchio e vidi solo un lenzuolo bianco, senza riuscire a capire dov’era la testa e dov’erano i piedi». Ancora nel 1988, la stampa internazionale scriveva che la fine di Allende («figlio di puttana», secondo il presidente Usa Richard Nixon) restava misteriosa. Due anni dopo, gli furono resi gli onori di un funerale: quando la salma fu traslata a Santiago, il corteo sostò per qualche istante sotto la sua finestra al palazzo della Moneda. Ma anche dopo la caduta di Pinochet, su quell’11 settembre sudamericano il dubbio è rimasto. Morì suicida o ammazzato? Nel gennaio 2011 la magistratura ha disposto una nuova autopsia. Ieri i risultati: il responsabile del Servizio medico legale di Santiago, Patricio Bustos, ha consegnato il referto alla famiglia. Il commento sobrio di Isabel Allende, parlamentare e figlia di Salvador (la sorella Beatriz si suicidò in esilio a Cuba nel ’77 con un colpo di pistola): «Il presidente Allende prese la decisione di porre fine alla propria vita piuttosto che essere umiliato», ha detto Isabel commossa. Nessuna novità, ha precisato Bustos: «La causa della morte è una ferita provocata da un colpo d’arma da fuoco. Il modo in cui è deceduto conferma che si è trattato di suicidio». Un’autopsia cambia la storia? Il giudizio ora sarebbe diverso se Allende fosse stato ammazzato come ha sostenuto in passato la sinistra cilena e internazionale? «Ucciso perché aveva nazionalizzato il rame», disse il poeta Pablo Neruda. «Assassinato da militari che volevano garantirsi l’instaurazione di un regime di tipo fascista», scriveva Enrico Berlinguer dieci anni dopo, spiegando come i fatti del ’73 (e l’«estremismo settario» di una parte del governo di Unidad Popular) portarono il Pci a concepire «il compromesso storico» con la Dc. Il suicidio di Salvador Allende quel giorno a Santiago del Cile, con l’elmetto militare reso ancora più assurdo dal golfino a losanghe sotto la giacca, sembra l’antitesi di ogni compromesso, personale o storico. Anacronistico rispetto alle fughe di leader più o meno recenti (dal cubano Batista al tunisino Ben Ali). E se da un lato inorgoglisce la famiglia, dall’altro incattivisce i nostalgici della dittatura, quelli che al funerale di Pinochet nel 2006 scandivano slogan sprezzanti: «Pinochet non si è suicidato, se l’è portato via Dio». Per don Salvador, «rivoluzionario legalista», forse valgono entrambe le cose, malgrado gli errori e i massimalismi della sua esperienza di governo. Il dottor Patricio Guijon fu l’ultimo a vederlo vivo. Già nel ’74, ricordando quelle ultime ore, raccontava di aver sentito un rumore dietro una porta mentre tornava a prendere la maschera antigas, nel Palazzo della Moneda deserto e in fiamme. Allende aveva detto alla trentina di persone rimaste con lui: «Arrendetevi, io uscirò per ultimo». Il dottore entrò e in quel «salottino di rappresentanza» trovò Allende seduto su un sofà rosso mattone, «nell’istante in cui premeva il grilletto del kalashnikov puntato sotto il mento» .
Aveva ragione il suo medico, e torto sua moglie. Dopo 38 anni, un’autopsia molto postuma ha confermato che Salvador Allende si tolse la vita sparandosi alla testa nel pomeriggio dell’11 settembre 1973, sul sofà rosso mattone dove il dottor Patricio Guijon lo vide premere il grilletto del mitra dono di Fidel Castro, nel palazzo presidenziale bombardato dai caccia di Pinochet. Il generale golpista su questo diceva la verità: don Salvador, «il rivoluzionario legalista» come lo definì Le Monde il giorno dopo il colpo di Stato, non morì combattendo (come sostenne per anni anche la sinistra internazionale), assassinato nell’attacco alla Moneda da cui parlò ai cileni nell’ultimo messaggio a Radio Magallanes: «Pagherò con la mia vita la difesa dei principi che sono cari alla mia patria» . Sono passati quasi 40 anni. Da 20 il Cile è democratico. Pinochet è morto nel 2006. Appassite le contrapposizioni ideologiche, «Venceremos» e il «Pueblo Unido» non sono nella hit-parade di iTunes. Da tempo anche la famiglia Allende aveva finito per riconoscere la versione ufficiale che all’inizio pareva inaccettabile come tutto il resto, compresa la sepoltura: Hortensia, la vedova, fu fatta salire su un aereo accanto alla bara del marito fino a una fossa anonima nel cimitero di Viña del Mar: «Mi hanno impedito di vederlo, di toccarlo, disse lei. Tolsero per un attimo il coperchio e vidi solo un lenzuolo bianco, senza riuscire a capire dov’era la testa e dov’erano i piedi». Ancora nel 1988, la stampa internazionale scriveva che la fine di Allende («figlio di puttana», secondo il presidente Usa Richard Nixon) restava misteriosa. Due anni dopo, gli furono resi gli onori di un funerale: quando la salma fu traslata a Santiago, il corteo sostò per qualche istante sotto la sua finestra al palazzo della Moneda. Ma anche dopo la caduta di Pinochet, su quell’11 settembre sudamericano il dubbio è rimasto. Morì suicida o ammazzato? Nel gennaio 2011 la magistratura ha disposto una nuova autopsia. Ieri i risultati: il responsabile del Servizio medico legale di Santiago, Patricio Bustos, ha consegnato il referto alla famiglia. Il commento sobrio di Isabel Allende, parlamentare e figlia di Salvador (la sorella Beatriz si suicidò in esilio a Cuba nel ’77 con un colpo di pistola): «Il presidente Allende prese la decisione di porre fine alla propria vita piuttosto che essere umiliato», ha detto Isabel commossa. Nessuna novità, ha precisato Bustos: «La causa della morte è una ferita provocata da un colpo d’arma da fuoco. Il modo in cui è deceduto conferma che si è trattato di suicidio». Un’autopsia cambia la storia? Il giudizio ora sarebbe diverso se Allende fosse stato ammazzato come ha sostenuto in passato la sinistra cilena e internazionale? «Ucciso perché aveva nazionalizzato il rame», disse il poeta Pablo Neruda. «Assassinato da militari che volevano garantirsi l’instaurazione di un regime di tipo fascista», scriveva Enrico Berlinguer dieci anni dopo, spiegando come i fatti del ’73 (e l’«estremismo settario» di una parte del governo di Unidad Popular) portarono il Pci a concepire «il compromesso storico» con la Dc. Il suicidio di Salvador Allende quel giorno a Santiago del Cile, con l’elmetto militare reso ancora più assurdo dal golfino a losanghe sotto la giacca, sembra l’antitesi di ogni compromesso, personale o storico. Anacronistico rispetto alle fughe di leader più o meno recenti (dal cubano Batista al tunisino Ben Ali). E se da un lato inorgoglisce la famiglia, dall’altro incattivisce i nostalgici della dittatura, quelli che al funerale di Pinochet nel 2006 scandivano slogan sprezzanti: «Pinochet non si è suicidato, se l’è portato via Dio». Per don Salvador, «rivoluzionario legalista», forse valgono entrambe le cose, malgrado gli errori e i massimalismi della sua esperienza di governo. Il dottor Patricio Guijon fu l’ultimo a vederlo vivo. Già nel ’74, ricordando quelle ultime ore, raccontava di aver sentito un rumore dietro una porta mentre tornava a prendere la maschera antigas, nel Palazzo della Moneda deserto e in fiamme. Allende aveva detto alla trentina di persone rimaste con lui: «Arrendetevi, io uscirò per ultimo». Il dottore entrò e in quel «salottino di rappresentanza» trovò Allende seduto su un sofà rosso mattone, «nell’istante in cui premeva il grilletto del kalashnikov puntato sotto il mento» .
Michele Farina