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 2014  luglio 11 Venerdì calendario

Come conobbi Gabo e come comprai i diritti di "Cent’anni di solitudine" prima che fosse scritto

Inedito, scritto nel 1999 quando si sparse la voce che Gabo fosse morto. Per gentile concessione di Clotilde Arcelli
 
Donde nos conocimos? Dove ci siamo conosciuti? Così comincia uno dei più bei ritratti, dal vivo, di Gabriel García Márquez, scritto da un suo grande amico, e mio grande amico: lo scrittore colombiano Plinio Apuleyo Mendoza. Con il cuore in angoscia, tiro giù il libro dagli scaffali della biblioteca, e la domanda che in questo triste momento viene spontanea anche a me è la stessa: dove ci siamo conosciuti? So bene dove ci siamo conosciuti, e come e quando; e per quanto tempo è durata la nostra amicizia, e poi si è rotta e perché.
Ma si può parlare di García Márquez, senza parlare di amicizie che si rompono? Anche quella che racconta Plinio è la storia di un’amicizia: un’amicizia che a un certo punto si incrina,  e starebbe per rompersi irreparabilmente, se l’uno e l’altro non facessero di tutto per scongiurare quel che pareva inevitabile. Anche Mario Vargas Llosa era suo amico, e poi l’amicizia si è mutata in inimicizia; Cabrera Infante era suo amico, ed è finita in disprezzo; idem per Reynaldo Arenas, idem per Heberto Padilla, per Carlos Franqui, eccetera eccetera. La lista degli amici di Gabo che poi non lo sono stati più è lunga. Da un certo momento in poi, gli amici di Gabo sono stati i nostri nemici. Plino Mendoza, da amico deluso ma che non si arrende, ha cercato disperatamente una motivazione: cosa mise tra noi e lui, si è  andato chiedendo in questi anni, tutto questo imbarazzo, questo gelo? E ha azzardato delle ipotesi. Ipotesi generose: la “celebrità repentina”, “il denaro che per la prima volta fluisce  abbondante”, gli “hotel da cinque stelle”, gli “amici ricchi”… Poi fa un passo più in là: che il vero motivo, si chiede, sia la “coscienza colpevole”, quel “senso di colpa di sinistra” che tutti quanti noi, che come lui in questi giorni avremmo compiuto settant’anni, volenti o nolenti ci portiamo dentro? Il manicheismo politico? Quella forma di alienazione morale a cui non riuscirono a sottrarsi del resto neppure molti dei migliori intellettuali degli anni Trenta e del primo dopoguerra?… Ma perché, si chiede Plinio, noi a un certo momento ce ne siamo liberati, e lui no? E alla fine trova una giustificazione, da vero amico: perché lui in fondo era sempre rimasto un ragazzo, e non ha mai saputo sottrarsi alla tentazione di tornare  indietro, “alla fede alienata dei nostri anni di adolescenti…” Ma non è così, io e Plinio lo sappiamo bene. Il colpevole di tutte queste amicizie spezzate c’è. Io lo conosco. Lasciatemi raccontare.

Ricordo benissimo come l’ho conosciuto, io, García Márquez. E come tutto è cominciato, e poi è finito. Era il dicembre del 1963. Ero a Città del Messico. Arrivavo con la testa piena di libri di scrittori latinoamericani fino a quel momento sconosciuti ai miei coetanei. L’editore Joaquin Mortiz, che mi faceva da guida in una metropoli pullulante all’epoca oltre che di abitanti, di geni letterari in fieri, mi presentò a Carlos Fuentes, che ancora era più noto come l’invidiato marito della più bella donna della città che come lo scrittore di successo che sarebbe poi diventato; Carlos Fuentes mi invitò a una festa a casa sua, una festa, una casa come al solito piena di gente; e lì mi mostrò a dito uno ad uno tutti quelli che sarebbero poi diventati gli scrittori del “boom”, gli araldi di un’età  entusiasmante della letteratura ancora tutta da cominciare. A un certo punto della festa, mi condusse da una coppia che se ne stava un po’ in disparte: lui con dei bei baffi, una testa ricciuta, due occhi scintillanti, lei silenziosa, riservata, con dei bellissimi capelli neri e un viso da bambina: Gabriel García Márquez e sua moglie Mercedes.
Sembrava avessero una gran fretta di andar via. Ci salutammo appena. Ma Fuentes mi disse: “Attento! Di tutti quel che son qui, lui è l’unico grande, l’unico che veramente conterà domani…” Ma cosa ha scritto? “Non ha scritto, sta scrivendo un capolavoro…” E lì sui due piedi, non so neanch’io perchè, mi innamorai di García Márquez.  Un amore totale, assoluto, un amore di gioventù. Di colpo decisi di rischiare tutta la mia carriera di editor su quel capolavoro non ancora scritto. Tornai in albergo e quella stessa sera scrissi a Feltrinelli: “Siamo a posto. Dopo lo Zivago, dopo il Gattopardo, ora abbiamo il nostro terzo”. Chiamai a Barcellona Carmen Balcells, l’agente letteraria di cui ero platonicamente innamorato, e le dissi: “Carmen, voglio un’opzione, un contratto, subito”. “Ma Valerio, quel libro che tu vuoi non esiste ancora!” “Ma tu prometti?” “Prometto”.

         Era vero. In quel momento, Cent’anni di solitudine non era ancora neanche nella testa di Gabo. Neppure aveva cominciato a scriverlo. Era solo arrivato faticosissimamente alla terza versione di un manoscritto che anni dopo sarebbe stato L’autunno del patriarca. E non sapeva come andare avanti. I soldi che aveva guadagnato con il premio Esso per il racconto El coronel no tiene quien le escriba li aveva spesi tutti e viveva sui debiti. Eppure intorno a lui tutti, e non solo io, erano strasicuri che di lì a poco avrebbe tirato fuori da quella testa ricciuta il capolavoro, il capolavoro di una generazione. A cominciare da sua moglie, la silenziosa Mercedes. Solo due anni dopo, guidando la macchina da Acapulco a Messico, Gabo ebbe l’illuminazione. Tornò a casa e disse a sua moglie: “Il libro, l’ho già tutto nella testa. Come se l’avessi già scritto, parola per parola”. Due giorni dopo, Carmen Balcells mi telegrafò: “L’opzione è valida. Se lo vuoi, il libro è venduto”. Andai da Feltrinelli, e Giangiacomo, con uno di quegli slanci subitanei che aveva lui, disse: “Compralo”.   

         Passarono altri due anni. Alla fine del 1967 ebbi finalmente tra le mani il manoscritto del libro per cui avevo smaniato. Ma le cose si erano complicate. Tra me e Feltrinelli l’incantesimo s’era rotto. Lui arzigogolava di guerriglie, io a metà gennaio del ’68 me ne tornai da Cuba pieno d’ira e di repulsione. Per colmo di sventura, mi ritrovai sul tavolo una traduzione di Cent’anni di solitudine che non mi soddisfaceva. Ci mettemmo io e Marcelo Ravoni a rivederla parola per parola. Ci passavamo le nottate. Giangiacomo, in piena paranoia “rivoluzionaria”, sospettava che tramassimo contro di lui. A maggio, il libro uscì. Avevamo battuto tutti in rapidità. Era la prima traduzione in una lingua straniera. Un mese dopo fui costretto a scegliere. Scelsi di dare le dimissioni. Al momento del commiato, Giangiacomo mi chiamò nel suo studio e mi disse: “Se un giorno saprai che sono morto, sarà uno di quelli che adesso mi girano intorno che mi avrà ammazzato”. Non l’ho mai dimenticato.

         Negli anni che seguirono continuammo spesso a vederci, io e Gabo. Quando i sovietici invasero la Cecoslovacchia e Fidel Castro, dopo qualche esitazione, approvò l’invasione, tutti i miei amici scrittori latinoamericani ruppero con Cuba. Tranne Gabo. La cosa mi sorprese dolorosamente, ma continuai a essergli amico. Poi venne il Nobel, e ne fui felice. Un giorno mi chiamò da Città del Messico per dirmi se potevo arrangiargli un colloquio privato, urgente, con il Papa. Io lavoravo all’Espresso. Mi consigliai con Livio Zanetti. Zanetti  mi mandò a parlare con un monsignore polacco. Il monsignore ottenne il colloquio. Gabo arrivò a Roma un pomeriggio, scese all’hotel Jolly. Il giorno dopo fu ricevuto dal Papa. Tornò deluso: lui portava un messaggio di Fidel Castro, Woytila aveva fatto orecchie da  mercante. Cercai di spiegargli che la cosa aveva una logica. Se ne andò rimuginando. Qualche tempo più tardi mi mandò una delle prime copie dell’ Autunno del patriarca. Lo lessi con lo stesso entusiasmo con cui anni prima avevo letto Cent’anni di solitudine. Lo chiamai al telefono e  gli gridai: “Finalmente! Ti ringrazio! Solo tu potevi avere il coraggio di descrivere  a questo modo Fidel Castro!” Sentii dall’altra parte un gelo improvviso. Ci fu un lungo silenzio. Poi lui disse: “Per favore, non scriverlo.” Io rimasi di stucco. Lui riattaccò. Finì così la nostra amicizia.

Ma tutto questo, adesso, che cosa conta?  Gabo se n’è andato, disgraziatamente,  prima di Fidel Castro. Quell’uomo, che a Cuba ha separato i padri dai figli, gli amici dagli amici, che si è intrufolato in tutte le nostre vite, che a me ha rubato Feltrinelli, ci ha rubato anche Gabo. Gabo, che ormai non potrà più sapere che quel che vent’anni fa descrisse tanto bene nella pagina iniziale dell’ Autunno del patriarca – gli avvoltoi che si introducono attraverso i balconi della casa presidenziale, che fiaccano  a beccate le maglie di ferro delle finestre, che smuovono con le ali il tempo stagnato nell’interno, “e all’alba del lunedi la città si svegliò dal suo letargo di secoli con una tiepida brezza di morto grande e di putrefatta grandezza” – deve pur stare in un modo o nell’altro finalmente per avverarsi anche a Cuba,  grazie a Dio.

Valerio Riva