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 2014  luglio 07 Lunedì calendario

Storia

la Repubblica, 1° maggio 2007
La notizia viene diramata dal Popolo d´Italia. È la tarda primavera del 1937. «Roma, 26 maggio, notte. Dal 1. giugno il Ministero della Stampa e Propaganda assumerà il nome di Ministero della Cultura Popolare». Segue un commento, centrato sulla necessità di rendere più attivo «il contatto fra la cultura e le masse». Si promette che il Ministero attuerà «anche in questo campo della vita e dell´attività nazionale il grande monito mussoliniano: "Andare verso il popolo"».
È l´atto di nascita di quell´istituzione che verrà subito ribattezzata con il nome di «Minculpop». Che si tratti di un settore di vitale importanza per il regime è documentato dalle vicende che esso ha attraversato. Diretto in origine da Cesare Rossi - poi rimosso perché implicato nell´assassinio di Matteotti - l´ufficio stampa del capo del governo venne affidato in successione al conte Giovanni Capasso Torre, a Lando Ferretti e a partire dal 1931 al gerarca Gaetano Polverelli, che impresse all´ufficio, come fu scritto, «un senso di severità e poche ma inflessibili idee». Sul tutto vigilava Mussolini in persona, ricevendo ogni mattina il capo del settore. L´arrivo al suo vertice, nel ´33, di Galeazzo Ciano, futuro genero del Duce, ne segna una nuova tappa in ascesa. Proprio nella primavera di quell´anno, la visita a Roma di Joseph Goebbels, ministro tedesco della Cultura Popolare, ha somministrato nuovi input tecnici in materia di dominio sull´informazione. Così, sul modello nazista, l´ufficio stampa diventa presto Sottosegretario per la Stampa e Propaganda e nel ´35 Ministero, con la stessa denominazione.
Da un´ennesima metamorfosi nascerà, come si diceva, il Minculpop. Per Ciano, suo titolare, sarà un´anticamera decisiva in vista di più alti destini. Gli impiegati del Ministero, 183 nel 1936, diventeranno ottocento: una falange. Né si attenuerà la vigilanza esercitata, in materia, dal duce: sembra il caso di allargare all´intero settore della comunicazione ciò che di lui si diceva a proposito della guerra d´Abissinia: «Mussolini non dirige le operazioni. Le impagina». Alla Direzione della stampa italiana, che del Minculpop è l´organo fondamentale, si adatta perfettamente la definizione che ne dà un giornalista che vi lavora: «Divisione elogi e cicchetti».
Gli ordini alla stampa, detti anche "veline", "disposizioni", o "note di servizio" si moltiplicano fino a venir emanati anche sette volte al giorno e rappresentano - come documenta Bruno Maida in un capitolo del volume di Nicola Tranfaglia La stampa del regime (Bompiani, 2005) - «una minuziosa ricostruzione dell´Italia come il regime avrebbe voluto che fosse e che apparisse». Di un simile materiale cartaceo sono apparse nel tempo varie antologie, a cominciare da quella, edita nel 1945 e firmata da un celebre letterato antifascista, Francesco Flora. A molte di queste veline Flora faceva seguire chiose ilari. Ma il suo era, in fondo, il sorriso amaro di chi si obbedisce a un «obbligo sociale»: divulgare «un documento primario della natura fascista». Ogni istruzione è un luogo comune inoltrato dal centro dello Stato in decine di redazioni. Queste pillole di indottrinamento littorio si prestano ad essere catalogate sotto varie etichette.
È proprio lei, la cronaca, il principale nemico da battere. Soprattutto quella nera, che può sfatare l´ottimismo ufficiale. Una direttiva generale prescrive, infatti: «La cronaca nera va pubblicata sui giornali locali. Non più di un quinto di colonna per notizia e nel complesso non più di una colonna». Ed ecco qualche esempio concreto: «Non dare notizia del ritorno in Italia delle salme degli operai italiani vittime di una sciagura del lavoro in Germania». O, addirittura, «diminuire le notizie sul cattivo tempo». E poi silenzio assoluto sugli incidenti. «Un giornale pubblica: "Una bombola di metano scoppia su un autocarro, mandando in aria i vetri delle case vicine". La notizia è evidentemente inopportuna». «I giornali riportano che un´intera famiglia sarebbe stata colpita da alienazione mentale. Pubblicazioni del genere sono da evitare».
Come reagirà il lettore? Si dà per certo, compilando queste veline, che gli italiani sono ipercritici, maligni e motteggiatori. «I giornali», si avverte, «non devono riprodurre le foto relative alla tosatura delle pecore». E altrove: «Una réclame dice: "La lana di coniglio è la lana degli italiani". Superfluo rilevare il sarcasmo che tale infelice dizione ha sollevato». E ancora: «Molto inopportunamente un giornale ha pubblicato una statistica di quanto gli italiani sono dimagriti». Variante dietetica: «Gli articoli sulla bontà di un´alimentazione sobria e leggera non vanno mai posti in correlazione con ragioni di autarchia o di economia dei consumi». E avanti: «Non toccare l´argomento delle cosiddette code davanti ai negozi», oppure (siamo nell´aprile del ´43): «Il tema della dieta parca come disciplina di guerra non va trattato». Drastico invito: «Ignorare la relazione dell´Accademia di Medicina di Parigi sulla bontà della carne dei topi». Infine, a riparo di una vistosa gaffe linguistica: «Nella cronaca della visita del Duce a Bologna, Forlì, ecc., togliere la frase "con ripetute rotture di cordoni" e l´altra: "La folla è tanta che in certi punti il servizio d´ordine è fatto unicamente dai fragili cordoni dei balilla festanti"».
Le vestali del regime. «Non pubblicare fotografie di donne nude perché costituiscono un argomento antidemografico». «Non riprodurre più fotografie di donne in costume da bagno» o «foto e disegni di donne con la cosiddetta "vita di vespa"». «Dare moltissimo spazio all´adunata delle donne fasciste, visione di bellezza e di potenza della razza italiana». «Nei figurini di moda femminile le gonne vanno allungate oltre il ginocchio». Rimprovero quasi surreale, stile "vade retro": «Il Messaggero è stato sequestrato per aver pubblicato: "Una donna torna ancora fiammeggiante dall´inferno per terrorizzare l´amante"».
Occhio al malocchio. «Non si dica che la disgrazia al figlio di Agnelli (Edoardo, figlio Giovanni Agnelli e padre di Gianni, morì per un incidente aereo nel luglio del ´35, n.d.r.) avvenne allo scalo Mussolini; ma si dica che avvenne nel mare di Genova». «Non collegare in alcun modo la notizia della morte di Pio XI con il decennale della Conciliazione». «La frase "Vinceremo, e molto più presto di quanto si creda", pubblicata ieri, non è mai stata pronunziata dal Duce». 13 marzo ´41: «Hitler ha annunziato che l´ora della vittoria definitiva sta per scoccare. Per non suscitare impazienza sarà opportuno usare misura nei titoli». Settembre 1942: «Stalingrado. Contenere le titolazioni fino alla totale caduta della città».
Mussolini non ha età. «Il Duce non gradisce che la stampa si occupi del suo compleanno». «Notare come egli non fosse affatto stanco dopo quattro ore di trebbiatura». E per maggior cautela: «Il discorso del Duce può essere commentato. Il commento ve lo mandiamo noi».
Mai in ginocchio. «Non pubblicare foto di militari in ginocchio durante la messa». «Niente notizie di pretesi miracoli, ad eccezione del tradizionale episodio di San Gennaro». «Mentre L´Osservatore Romano pubblica articoli politici, alcuni giornali fascisti dedicano lunghi articoli ai santi. Sarebbe preferibile che avvenisse viceversa». «Non riprodurre la "preghiera del Duce" recitata dai bambini che ricevono la refezione».
Il tessuto delle note del Minculpop è solido, compatto. Non a caso resisterà alla lacerazione del 25 luglio 1943. Suona così la prima velina emanata dal governo Badoglio in data 26: «Ognuno al suo posto. Il lavoro continua. Viva l´Italia!». Poi, il 27: «È vietato qualsiasi cenno critico o ostile agli alleati dell´Italia. Eventuali trasgressioni daranno luogo a immediato sequestro». E un mese più tardi: «L´affare Petacci deve ritenersi completamente esaurito».
Ancora nel 1952 Gaetano Salvemini sosterrà sulla rivista Il Ponte che «il Minculpop fascista si è perpetuato con lo stesso personale di una volta nell´ufficio stampa della vice presidenza del Consiglio». E citerà, a riprova, taluni atti giudiziari di cui sui giornali «si danno notizie scheletriche o non si dà notizia affatto: per esempio il processo contro coloro che fecero assassinare Carlo e Nello Rosselli, o bastonarono Giovanni Amendola». Insomma, ciò da cui «risulterebbero i delitti commessi dai fascisti».
Pur accogliendo con cautela l´appassionata denuncia dello storico antifascista, è giusto riconoscere che in Italia certe istituzioni, specie se impresentabili, restano a lungo operose.    
Nello Ajello