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 2014  luglio 06 Domenica calendario

La sua autobiografia

Corriere della Sera - La Lettura, 29 giugno 2014
«I miei ricordi più belli io devo ancora viverli, il mio passato è ancora molto giovane — nove anni esatti — e vivissimo. Ciò che del mio passato mi interessa di più, lo confesso, è ciò che esso sarà domani». Quando scriveva queste parole era il 1956 e Christian Dior non sapeva che il suo domani sarebbe stato molto breve. Sarebbe infatti morto l’anno successivo, cinquantaduenne. Ma quei nove anni di attività (aveva aperto il suo atelier, in avenue Montaigne, nel 1947, dopo aver lavorato prima con Robert Piquet e poi con Lucien Lelong), gli sarebbero bastati per rivoluzionare completamente la moda. «Peccherei di presunzione se volessi parlare d’altro, se mi sentissi in diritto, avendo avuto successo come stilista, di far conoscere al mondo la mia opinione sull’arte astratta o sulla riforma della Costituzione», scrive in Christian Dior & moi, la sua autobiografia, uscita in Francia nel 1956 e ora pubblicata per la prima volta in Italia da Donzelli nella traduzione di Maria Vidale. Nove anni di maison sono bastati per fare dello stilista un mito, come dimostra anche la mostra al Musée Christian Dior di Granville, sua città natale in Normandia, che espone gli scatti dei grandi fotografi, da Avedon a Horst, da Irving Penn a Cecil Beaton, da Helmut Newton a Bruce Weber.
Il libro mette insieme le due anime di Dior, quella privata e quella pubblica, con una grande consapevolezza di sé, del proprio valore e della propria grandezza, nonostante scriva di volere «essere inserito nella categoria dei buoni artigiani». Ma dipinge, allo stesso tempo, i contorni della Parigi della cultura e del costume tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni Cinquanta.
La storia comincia con la previsione che un veggente fece a Christian, nel 1919, quand’era ancora un ragazzino: «Ti troverai senza denaro, ma le donne ti aiuteranno e determineranno il tuo successo. Dalle donne trarrai grandi profitti e dovrai fare numerose traversate oceaniche». E così sarà per questo normanno, figlio di un industriale e di una casalinga, che confessava di amare le serate intime con gli amici più cari, di detestare il chiasso e il trambusto della mondanità e i cambiamenti troppo bruschi. La sua avventura parte alla fine del 1945, quando i disastri della guerra sono ancora sotto gli occhi di tutti: restrizioni, mercato nero e una moda detestabile, sintetizza lo stilista. «Cappelli troppo voluminosi, gonne troppo corte, giacche troppo lunghe, suole troppo spesse». Insomma lo stile zazou , «nato per sfidare la boria degli invasori e l’austerità imposta dal regime di Vichy». Lui risponderà con la sua prima collezione: novanta abiti, lunghi, plissettati, che richiedevano metri e metri di stoffe per una «donna-fiore»: spalle, busto florido, vita sottile «come una liana», gonna larga come una corolla. La prima collezione è un successo, lui con malcelata civetteria commenta: «L’indomani venni a sapere dalla stampa, e dall’ufficio vendite, nonché dalle voci che circolavano, che io, involontariamente, avevo creato lo stile Dior». Uno stile che anche personaggi apparentemente lontani, come Juliette Gréco, la musa degli esistenzialisti e di un’intera generazione in maglione e calzamaglia neri, seppero sposare e fare proprio.
Il racconto è sempre vivace, punteggiato di ironia e di leggerezza, come quando Dior ricorda che, agli inizi, mise un annuncio sui giornali per trovare le mannequin e, essendo appena state abolite le case chiuse, si presentarono parecchie signorine (peraltro molto educate) rimaste disoccupate. O come quando crea un abitino di lana rosa, chiamato Bonbon, che va subito a ruba, ma per un errore di calcolo il suo prezzo di vendita è di gran lunga inferiore al costo di produzione: «Le donne, imbattibili nel fiutare un buon affare, ne fecero incetta, e così ci trovammo con un buco che poteva portare al fallimento».
Dior non parla soltanto di abiti e alta moda (anche se, scrive, «nella mia vita tutto quello che so, che vedo o sento si trasforma in abiti») pur spiegando passo passo come nasce una collezione: dai primi disegni, spesso buttati giù a letto o nella vasca da bagno, alla sfilata, ai prezzi (decisi da Monsieur Dior in persona sulla base di ore di lavoro, costo della manodopera e delle materie prime, spese generali, tasse e contributi), alla vendita, al problema dei plagi. Ripercorrendo i suoi esordi il designer non si risparmia osservazioni sociologiche e storiche sull’evoluzione del costume e riflessioni filosofiche sulla moda. Il racconto del suo primo viaggio in America, con la Queen Elizabeth, è quasi un reportage da cui trapela anche lo sgomento di vedere nel museo di Chicago la più ricca collezione al mondo di opere impressioniste.
Un capitolo gustoso è dedicato alle clienti, comprese quelle che pretendono di entrare in un abito di due taglie più piccolo e quelle infedeli. Monsieur Dior ne ricorda una in particolare, dalla doppia vita sentimentale e sartoriale. La signora aveva due amanti: da uno si faceva pagare gli abiti di Fath, dall’altro quelli di Dior. Naturalmente sarti e stilisti erano all’oscuro gli uni degli altri. Un giorno la cliente entra in avenue Montaigne con un tailleur di Fath, al braccio di un uomo diverso dal solito e soltanto nel bel mezzo della prova si accorge di aver fatto confusione con l’agenda.
Alla nascita del Dior pubblico sembra di assistere quasi in diretta: è il momento in cui lo schivo stilista si rende conto che dare vita al personaggio mitologico diventa improrogabile. «Avevo la sensazione che la mia immagine di signore grassottello, vestito sempre di colori neutri, insomma il tipico parigino di Passy, somigliasse ben poco agli efebi fascinosi e agli elegantoni decadenti che corrispondono allo stereotipo del sarto famoso». Così, vincendo la timidezza, osa infilare un fiore all’occhiello della giacca, ordina qualche completo in più, si affida alle mani dei massaggiatori. Ma rinuncia quasi subito: «Fra l’immagine che avrei dovuto dare e quello che ero realmente c’era una distanza incolmabile. Con mio grande sollievo, mi rassegnai a essere soltanto quello che sono».
Cristina Taglietti