27 giugno 2014
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Biografia di Mario Francese
(Siracusa, 6 febbraio 1925 – Palermo, 26 gennaio 1979). Giornalista.
• Mario Francese, cronista di punta del quotidiano palermitano Giornale di Sicilia, ucciso il 26 gennaio 1979, più di tutto per avere pubblicato un’inchiesta sulla diga Garcia (per costruirla Regione e Cassa per il Mezzogiorno avevano stanziato più di 350 miliardi di lire, bastati appena per espropriare le terre ai proprietari, tra cui Nino e Ignazio Salvo e Totò Riina, che a loro volta li avevano acquistati a prezzo di pascolo, quaranta volte di meno). Lasciava un figlio di tredici anni, Giuseppe, che, diventato grande, raccolse indizi della colpevolezza dei mafiosi e riuscì a convincere la Procura a riaprire le indagini. Quando i giudici inflissero dodici ergastoli agli assassini, lui annotò sul diario: «Adesso il mio lavoro è finito», e si uccise (primavera del 2002) [Claudio Fava, I disarmati. Storia dell’antimafia: i reduci & i complici, Sperling & Kupfer]
• Terzo di quattro figli, irrequieto per natura, ultimato il ginnasio nella sua città, decide di comune accordo con la famiglia di trasferirsi a Palermo, da una zia, sorella della madre, per completare gli studi liceali e poi iscriversi all’università. A 15 anni dimostra già grande personalità facendo la sua prima grande scelta, segue l’istinto. Conseguita la maturità classica si iscrive alla facoltà di ingegneria, ma lontano da casa, sente il bisogno di rendersi economicamente indipendente. Negli anni Cinquanta entra come telescriventista all’agenzia Ansa, ma è sprecato per quel lavoro e lo capiscono ben presto dandogli spazio come giornalista, con la promessa di assumerlo dopo qualche tempo nell’organico redazionale. Un impegno non mantenuto e di cui si duole molto. Ma all’Ansa Mario Francese può dare sfogo alla sua grande passione di scrivere e nonostante ufficialmente sia solo un telescriventista, ormai contagiato dal tarlo della notizia, comincia il suo sogno di lavorare per un giornale diventando corrispondente de «La Sicilia» di Catania, per il quale scriveva di cronaca nera e giudiziaria. Cerca una sistemazione migliore e dal primo gennaio 1957 entra alla Regione come «cottimista». E anche qui «sbatte» nel mestiere: viene nominato capo ufficio stampa all’assessorato ai Lavori pubblici. Dall’ottobre 1958 l’assunzione alla Regione diventa definitiva. Raggiunta la «sistemazione» economica, decide che è il momento di mettere su famiglia e il 30 ottobre del 1958 si sposa a Campofiorito, nel Corleonese, con Maria Sagona. Dall’unione nasceranno quattro figli maschi. Ma preparare comunicati stampa per i giornali gli sta stretto. Con l’Ansa il rapporto si riduce sempre più, fino al febbraio del 1960, quando si licenzia. Con la Sicilia continua la collaborazione fino a quando, alla fine degli anni Cinquanta Girolamo Ardizzone lo chiamò al Giornale di Sicilia. Dopo qualche tempo gli fu affidata la cronaca giudiziaria e in questo settore si lanciò con tutta la sua generosa passione diventando in breve tempo una delle firme più apprezzate e uno dei più esperti conoscitori delle vicende mafiose. Nel 1968 fu posto davanti all’out-out: la Regione o il Giornale di Sicilia. E non ebbe dubbi: scelse di restare in trincea, diventando nel frattempo giornalista professionista. Da quel momento, dalla strage di Ciaculli all’omicidio del colonnello Russo, non c’è stata vicenda giudiziaria di cui non si sia occupato, cercando una «lettura» diversa e più approfondita del fenomeno mafia. Il suo è stato un raro esempio in Sicilia di «giornalismo investigativo». Fu l’unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Il primo a capire, scavando negli intrighi della costruzione della diga Garcia, l’evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia corleonese. Non a caso parlò, unico a quei tempi, della frattura nella «commissione mafiosa» tra liggiani e «guanti di velluto», l’ala moderata. E Cosa nostra non l’ha perdonato, fulminandolo la sera del 26 gennaio 1979 davanti casa, mentre stava rientrando dopo una dura giornata di lavoro.
Un delitto che apre la lunga catena di sangue di Cosa nostra, con delitti «eccellenti» a ripetizione. Solo in quell’anno vengono uccisi il segretario provinciale della Dc Michele Reina, il capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova. E poi a gennaio 80 il presidente della Regione Piersanti Mattarella. E molti altri ancora seguiranno. Presto l’omicidio di Mario Francese cade nel dimenticatoio, l’inchiesta viene archiviata. Verrà riaperta molti anni dopo, su richiesta della famiglia. E il processo, svolto con rito abbreviato, si concluderà nell’aprile del 2001 con la condanna a 30 anni di Totò Riina e gli altri componenti della «cupola»: Francesco Madonia, Antoniono Geraci, Giuseppe Farinella, Michele Greco, Leoluca Bagarella (esecutore materiale) e Giuseppe Calò. Assolto invece Giuseppe Madonia, accusato di essere stato, con Leoluca Bagarella, il killer. Nel processo bis, con rito ordinario, l’altro imputato Bernardo Provenzano è condannato all’ergastolo.
• I giudici nella sentenza di primo grado evidenziano che dagli articoli e dal dossier redatti da Mario Francese emerge «una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità sulle linee evolutive di Cosa nostra, in una fase storica in cui oltre a emergere le penetranti e diffuse infiltrazioni mafiose nel mondo degli appalti e dell’economia, iniziava a delinearsi la strategia di attacco di Cosa nostra alle istituzioni. Una strategia eversiva che aveva fatto - si legge nelle motivazioni della sentenza - un salto di qualità proprio con l’eliminazione di una delle menti più lucide del giornalismo siciliano, di un professionista estraneo a qualsiasi condizionamento, privo di ogni compiacenza verso i gruppi di potere collusi con la mafia e capace di fornire all’opinione pubblica importanti strumenti di analisi dei mutamenti in atto all’interno di Cosa nostra».
• La sentenza di primo grado viene confermata nel dicembre 2002 in appello. I giudici anche questa volta sottolineano le grandi qualità umane e professionali di Mario Francese e dicono in modo netto che «con la sua morte si apre la stagione dei delitti eccellenti». E che sia stato il primo a cadere in quella lunga stagione di sangue per i giudici non è un fatto casuale, perchè «Mario Francese era un protagonista, se non il principale protagonista, della cronaca giudiziaria e del giornalismo d’inchiesta siciliano. Nei suoi articoli spesso anticipava gli inquirenti nell’individuare nuove piste investigative». E rappresentava «un pericolo per la mafia emergente, proprio perchè capace di svelarne il suo programma criminale, in un tempo ben lontano da quello in cui è stato successivamente possibile, grazie ai collaboratori di giustizia, conoscere la struttura e le regole di Cosa nostra».
L’impianto accusatorio regge in Cassazione, anche se vengono assolti tre boss, Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella «per non avere commesso il fatto». Ma la sentenza, dicembre 2003, conferma i 30 anni di carcere per Totò Riina. Definitiva la pena a 30 anni anche per Leoluca Bagarella, Raffaele Ganci, Francesco Madonia e Michele Greco, che non avevano fatto ricorso davanti alla Suprema corte. Nel processo bis confermato in appello l’ergastolo a Bernando Provenzano. (dal sito Fondazionefrancese.it)