Familia Cristiana, giovedì 5 maggio 2011, 27 giugno 2014
Tags : Pietro Scaglione
La mafia lo uccise così (articolo del 5/5/2011)
Familia Cristiana, giovedì 5 maggio 2011
Quaranta anni fa, la storia siciliana e italiana cambiò per sempre. Per la prima volta, un magistrato fu ucciso dopo avere lottato contro la mafia e i suoi insospettabili complici. Era il 5 maggio del 1971 e il magistrato caduto per difendere la democrazia era mio nonno: il procuratore capo della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione. Con lui fu ucciso anche il fedele agente di custodia, Antonio Lorusso.
Il Procuratore Pietro Scaglione aveva indagato sui principali episodi della storia italiana del dopoguerra, dal banditismo agli omicidi di alcuni sindacalisti, dalla strage di Ciaculli alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Memorabile era stata la requisitoria di mio nonno contro i mandanti e gli esecutori del delitto del sindacalista socialista Salvatore Carnevale, ucciso nel 1955 dopo avere lottato contro la mafia e il latifondo. In quell’occasione, l’allora sostituto procuratore generale Pietro Scaglione esaltò la figura di Carnevale e la stagione delle lotte contadine, parlando di “febbre per la terra” e schierandosi dalla parte dei lavoratori sfruttati.
La parte civile della famiglia Carnevale fu rappresentata dagli avvocati Francesco Taormina e Nino Sorgi, con il sostegno dell’ex presidente della Repubblica Sandro Pertini. Gli imputati, invece, vennero difesi da un collegio di avvocati guidati da un altro ex presidente della Repubblica, Giovanni Leone. In un’epoca in cui le principali autorità negavano persino l’esistenza della mafia, considerandola “un’invenzione dei comunisti e dei giornali del Nord”, mio nonno ebbe il coraggio di indagare non solo sul fenomeno mafioso ma anche sulle principali complicità istituzionali e politiche.
Come scrisse il giornalista Mario Francese (assassinato nel 1979), “Pietro Scaglione fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni”. Una simile convinzione, in una stagione buia e oscurantista, appariva senza dubbio come dirompente e rivoluzionaria.
Purtroppo, non ho avuto la gioia e l’onore di conoscere mio nonno perché all’epoca della sua morte non ero ancora nato, ma grazie ai racconti di familiari e amici mi sono accorto, sin da bambino, che si trattava di una persona speciale, di un uomo onesto e intransigente nella sua attività, ma nello stesso tempo cordiale e socievole nella vita privata. Credeva nell’autonomia e nell’indipendenza della magistratura, intesa come una missione in difesa della democrazia, della Costituzione e della Repubblica.
Ho ritrovato la descrizione delle sue qualità (raccontate da chi lo conosceva e da chi lo stimava) nei provvedimenti dei diversi organi giurisdizionali (di Genova e di Palermo) che si sono occupati, a vario titolo, della sua uccisione e che lo hanno definito, nelle singole sentenze, come “un magistrato integerrimo, dotato di assoluta onestà morale e di eccezionali capacità professionali, persecutore spietato della mafia”. Oltre agli ideali di giustizia e democrazia, mio nonno era ancorato fortemente ai valori della solidarietà e della carità. In particolare, credeva nella rieducazione dei detenuti e sperava sempre che gli imputati - dei quali chiedeva la condanna – potessero in futuro ravvedersi, cambiare vita e reinserirsi nella vita sociale. Pietro Scaglione, infatti, si dedicò con impegno e passione all’attività di Presidente del Consiglio per l’assistenza delle famiglie dei detenuti, realizzando, tra l’altro, un asilo nido. Per queste attività, gli fu conferito il diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d’oro.
Un altro punto fermo della sua esistenza era l’affetto per la famiglia. Amava i suoi figli, i suoi fratelli e i suoi nipoti ed era assai provato per la scomparsa improvvisa di mia nonna Concetta, morta nel 1965. Nella mattina del 5 maggio del 1971, poco prima di essere ucciso in Via Cipressi, nella periferia di Palermo, mio nonno era andato proprio a portare i fiori sulla tomba della moglie, nel vicino cimitero dei Cappuccini. Ma chi uccise il procuratore capo della Repubblica di Palermo? E perché? Le ipotesi sul delitto furono innumerevoli: dalla vendetta della mafia alla strategia della tensione, dalle indagini sulla scomparsa di Mauro de Mauro alla scoperta del Golpe Borghese.
A distanza di quaranta anni, nonostante non si conoscano ancora né i mandanti né gli esecutori del duplice delitto di via Cipressi, una certezza è rappresentata dal fatto che mio nonno (riconosciuto “vittima del dovere” dal Ministero della Giustizia, previo parere del Csm) fu ucciso per avere svolto la sua attività giudiziaria in modo “specchiato e inflessibile”.
Quaranta anni fa, la storia siciliana e italiana cambiò per sempre. Per la prima volta, un magistrato fu ucciso dopo avere lottato contro la mafia e i suoi insospettabili complici. Era il 5 maggio del 1971 e il magistrato caduto per difendere la democrazia era mio nonno: il procuratore capo della Repubblica di Palermo, Pietro Scaglione. Con lui fu ucciso anche il fedele agente di custodia, Antonio Lorusso.
Il Procuratore Pietro Scaglione aveva indagato sui principali episodi della storia italiana del dopoguerra, dal banditismo agli omicidi di alcuni sindacalisti, dalla strage di Ciaculli alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Memorabile era stata la requisitoria di mio nonno contro i mandanti e gli esecutori del delitto del sindacalista socialista Salvatore Carnevale, ucciso nel 1955 dopo avere lottato contro la mafia e il latifondo. In quell’occasione, l’allora sostituto procuratore generale Pietro Scaglione esaltò la figura di Carnevale e la stagione delle lotte contadine, parlando di “febbre per la terra” e schierandosi dalla parte dei lavoratori sfruttati.
La parte civile della famiglia Carnevale fu rappresentata dagli avvocati Francesco Taormina e Nino Sorgi, con il sostegno dell’ex presidente della Repubblica Sandro Pertini. Gli imputati, invece, vennero difesi da un collegio di avvocati guidati da un altro ex presidente della Repubblica, Giovanni Leone. In un’epoca in cui le principali autorità negavano persino l’esistenza della mafia, considerandola “un’invenzione dei comunisti e dei giornali del Nord”, mio nonno ebbe il coraggio di indagare non solo sul fenomeno mafioso ma anche sulle principali complicità istituzionali e politiche.
Come scrisse il giornalista Mario Francese (assassinato nel 1979), “Pietro Scaglione fu convinto assertore che la mafia aveva origini politiche e che i mafiosi di maggior rilievo bisognava snidarli nelle pubbliche amministrazioni”. Una simile convinzione, in una stagione buia e oscurantista, appariva senza dubbio come dirompente e rivoluzionaria.
Purtroppo, non ho avuto la gioia e l’onore di conoscere mio nonno perché all’epoca della sua morte non ero ancora nato, ma grazie ai racconti di familiari e amici mi sono accorto, sin da bambino, che si trattava di una persona speciale, di un uomo onesto e intransigente nella sua attività, ma nello stesso tempo cordiale e socievole nella vita privata. Credeva nell’autonomia e nell’indipendenza della magistratura, intesa come una missione in difesa della democrazia, della Costituzione e della Repubblica.
Ho ritrovato la descrizione delle sue qualità (raccontate da chi lo conosceva e da chi lo stimava) nei provvedimenti dei diversi organi giurisdizionali (di Genova e di Palermo) che si sono occupati, a vario titolo, della sua uccisione e che lo hanno definito, nelle singole sentenze, come “un magistrato integerrimo, dotato di assoluta onestà morale e di eccezionali capacità professionali, persecutore spietato della mafia”. Oltre agli ideali di giustizia e democrazia, mio nonno era ancorato fortemente ai valori della solidarietà e della carità. In particolare, credeva nella rieducazione dei detenuti e sperava sempre che gli imputati - dei quali chiedeva la condanna – potessero in futuro ravvedersi, cambiare vita e reinserirsi nella vita sociale. Pietro Scaglione, infatti, si dedicò con impegno e passione all’attività di Presidente del Consiglio per l’assistenza delle famiglie dei detenuti, realizzando, tra l’altro, un asilo nido. Per queste attività, gli fu conferito il diploma di primo grado al merito della redenzione sociale, con facoltà di fregiarsi della relativa medaglia d’oro.
Un altro punto fermo della sua esistenza era l’affetto per la famiglia. Amava i suoi figli, i suoi fratelli e i suoi nipoti ed era assai provato per la scomparsa improvvisa di mia nonna Concetta, morta nel 1965. Nella mattina del 5 maggio del 1971, poco prima di essere ucciso in Via Cipressi, nella periferia di Palermo, mio nonno era andato proprio a portare i fiori sulla tomba della moglie, nel vicino cimitero dei Cappuccini. Ma chi uccise il procuratore capo della Repubblica di Palermo? E perché? Le ipotesi sul delitto furono innumerevoli: dalla vendetta della mafia alla strategia della tensione, dalle indagini sulla scomparsa di Mauro de Mauro alla scoperta del Golpe Borghese.
A distanza di quaranta anni, nonostante non si conoscano ancora né i mandanti né gli esecutori del duplice delitto di via Cipressi, una certezza è rappresentata dal fatto che mio nonno (riconosciuto “vittima del dovere” dal Ministero della Giustizia, previo parere del Csm) fu ucciso per avere svolto la sua attività giudiziaria in modo “specchiato e inflessibile”.