La Stampa, martedì 22 maggio 2012 , 27 giugno 2014
Tags : Articoli su Giovanni Falcone
Quegli editoriali nati di Falcone su La Stampa ai pranzi del martedì (articolo del 22/5/2012)
La Stampa, martedì 22 maggio 2012
Di solito l’appuntamento era al martedì. Ci vedevamo all’Eden, il grande albergo romano alle spalle di via Veneto con una terrazza affacciata sulla maestosità di Roma. Dopo molte esitazioni, dovute al suo carattere e a una riservatezza maniacale che metteva in ogni cosa, Giovanni Falcone aveva accettato di scrivere per La Stampa . A una condizione, però: che ogni articolo nascesse da una conversazione tra lui, «tecnico», come amava definirsi, con una parola che anticipava di molto i tempi, e due giornalisti incaricati di tenerlo agganciato all’attualità. I due prescelti erano Francesco La Licata, grande esperto di mafia, abituato a un’intesa parsimoniosa, a volte anche solo di sguardi, con lui, e il sottoscritto, chiamato a coordinare questo strano trio.
Superata la ritrosia personale, la collaborazione era stata inaugurata solennemente a Torino con una cerimonia old-style, in cui Falcone - un Falcone frastornato dai ritmi stressanti del lavoro redazionale -, aveva simbolicamente ricevuto il testimone da Norberto Bobbio, il più illustre degli editorialisti. Poi, per quanto possibile vista la specialità dell’autore, tutto aveva preso un ritmo regolare a Roma, dove il supermagistrato si era trasferito come direttore degli Affari Penali del ministero di Giustizia. Era lì, nel suo ufficio blindato ricavato nell’austero palazzo di via Arenula, che venivano materialmente scritti i pezzi, pensati poco prima al ristorante.
Selvatico all’inizio, e con movimenti felini di chi fiuta sempre il pericolo, Giovanni a poco a poco in compagnia era uscito dalla sua corazza, spiegando la regola inconfessabile che solo a una tavola di siciliani poteva essere illustrata con un sorriso. «Per combattere la mafia bisogna essere un po’ mafiosi, o almeno ragionare come loro», diceva senza temere fraintendimenti. Era per me il primo segno d’intesa, un’inattesa apertura di credito. Parlava malvolentieri della sua solitudine, ma s’intuiva lo stesso dal fatto che gran parte dei suoi amici, i personaggi dei suoi racconti, erano morti ammazzati, e lui li rimpiangeva come se senza di loro avesse smesso pienamente di vivere anche lui. Una volta, con Ninni Cassarà, il commissario della Mobile crivellato a colpi di mitra sotto gli occhi della moglie, giocavano al Padrino. «Io sono Michael», aveva premesso Falcone, scegliendo a modello dal capolavoro di Mario Puzo il personaggio del figlio calmo e ragionatore che sarà l’erede di don Vito Corleone. «E tu stai attento a non diventare Sonny», aveva raccomandato a Cassarà. Nel libro Sonny è il duro, l’altro figlio del boss che presto finisce ucciso. Di Beppe Montana, commissario anche lui, caduto in un agguato mentre era a caccia di latitanti nei dintorni di Palermo, ricordava la tecnica esasperante delle perquisizioni a sorpresa ripetute a tormentone. Montana aveva fatto così anche a casa di Michele Greco, il vecchio capo della Cupola di Cosa Nostra. La signora Greco, alla prima visita, chiamiamola così, all’alba, si era lamentata per l’intrusione. Alla seconda, terza, quarta perquisizione, protestò ancora: «Dottore ma non ha capito che noi siamo rovinati, tra un po’ non avremo neppure i soldi per far la spesa?». Montana si fermò a guardarla senza rivolgerle una parola, cacciò una mano in tasca e le allungò cinquecento lire. Per Falcone quell’elemosina non richiesta era costata cara al commissario suo amico.
Pur sapendo di rischiare, Giovanni tornava a Palermo tutti i sabati. Non sapeva resistere troppo a lungo lontano, e non voleva dare l’idea di un abbandono definitivo. Scoprendo che anch’io, per ragioni familiari, facevo abbastanza spesso lo stesso percorso, mi propose di viaggiare con lui. Dopo il primo appuntamento, dissi a me stesso che se avessi conosciuto prima le regole del viaggio, avrei fatto meglio a trovare una scusa. Non era solo la pesantezza dei controlli, l’oppressione delle scorte, l’ansia e l’indispensabile durezza con cui si svolgevano i protocolli di sicurezza. Era la tensione crescente che nello stretto abitacolo dell’aereo di Stato montava via via, fino a diventare soffocante. Seduto accanto a Piero Grasso, allora il suo braccio destro, oggi procuratore nazionale antimafia, Falcone sprofondava in un silenzio pesante e insondabile, come se il ritorno in Sicilia lo stringesse a poco a poco in una morsa di pensieri opprimenti, una specie di incubo a occhi aperti da cui era impossibile distoglierlo.
All’arrivo a Punta Raisi saliva frettolosamente sulla macchina parcheggiata sotto l’aereo e si metteva alla guida. Il corteo che tante volte abbiamo visto rivivere nei film, con un’auto staffetta che precedeva quella di Falcone e un’altra a guardargli le spalle, attraversava il cancello di uscita dall’aeroporto e si lanciava sull’autostrada. Da quel momento in poi era come se mille occhi invisibili fossero puntati su quelle tre automobili che correvano da un bunker verso l’altro. Quante volte, seduto sul sedile di dietro accanto al fido Costanza, l’autista miracolosamente sopravvissuto alla strage di Capaci, avrò sobbalzato con lui per gli scatti nella guida di Giovanni, per la sterzata improvvisa con cui si allontanava bruscamente da un cassonetto della mondezza o da un fosso, pensando forse, come poi doveva accadere, che celassero la bomba che lo aspettava. E quante volte avrò litigato con mia madre, avvertita solo all’ultimo del mio arrivo in città, e istintivamente contraria a un trasferimento così pericoloso.
Di solito l’appuntamento era al martedì. Ci vedevamo all’Eden, il grande albergo romano alle spalle di via Veneto con una terrazza affacciata sulla maestosità di Roma. Dopo molte esitazioni, dovute al suo carattere e a una riservatezza maniacale che metteva in ogni cosa, Giovanni Falcone aveva accettato di scrivere per La Stampa . A una condizione, però: che ogni articolo nascesse da una conversazione tra lui, «tecnico», come amava definirsi, con una parola che anticipava di molto i tempi, e due giornalisti incaricati di tenerlo agganciato all’attualità. I due prescelti erano Francesco La Licata, grande esperto di mafia, abituato a un’intesa parsimoniosa, a volte anche solo di sguardi, con lui, e il sottoscritto, chiamato a coordinare questo strano trio.
Superata la ritrosia personale, la collaborazione era stata inaugurata solennemente a Torino con una cerimonia old-style, in cui Falcone - un Falcone frastornato dai ritmi stressanti del lavoro redazionale -, aveva simbolicamente ricevuto il testimone da Norberto Bobbio, il più illustre degli editorialisti. Poi, per quanto possibile vista la specialità dell’autore, tutto aveva preso un ritmo regolare a Roma, dove il supermagistrato si era trasferito come direttore degli Affari Penali del ministero di Giustizia. Era lì, nel suo ufficio blindato ricavato nell’austero palazzo di via Arenula, che venivano materialmente scritti i pezzi, pensati poco prima al ristorante.
Selvatico all’inizio, e con movimenti felini di chi fiuta sempre il pericolo, Giovanni a poco a poco in compagnia era uscito dalla sua corazza, spiegando la regola inconfessabile che solo a una tavola di siciliani poteva essere illustrata con un sorriso. «Per combattere la mafia bisogna essere un po’ mafiosi, o almeno ragionare come loro», diceva senza temere fraintendimenti. Era per me il primo segno d’intesa, un’inattesa apertura di credito. Parlava malvolentieri della sua solitudine, ma s’intuiva lo stesso dal fatto che gran parte dei suoi amici, i personaggi dei suoi racconti, erano morti ammazzati, e lui li rimpiangeva come se senza di loro avesse smesso pienamente di vivere anche lui. Una volta, con Ninni Cassarà, il commissario della Mobile crivellato a colpi di mitra sotto gli occhi della moglie, giocavano al Padrino. «Io sono Michael», aveva premesso Falcone, scegliendo a modello dal capolavoro di Mario Puzo il personaggio del figlio calmo e ragionatore che sarà l’erede di don Vito Corleone. «E tu stai attento a non diventare Sonny», aveva raccomandato a Cassarà. Nel libro Sonny è il duro, l’altro figlio del boss che presto finisce ucciso. Di Beppe Montana, commissario anche lui, caduto in un agguato mentre era a caccia di latitanti nei dintorni di Palermo, ricordava la tecnica esasperante delle perquisizioni a sorpresa ripetute a tormentone. Montana aveva fatto così anche a casa di Michele Greco, il vecchio capo della Cupola di Cosa Nostra. La signora Greco, alla prima visita, chiamiamola così, all’alba, si era lamentata per l’intrusione. Alla seconda, terza, quarta perquisizione, protestò ancora: «Dottore ma non ha capito che noi siamo rovinati, tra un po’ non avremo neppure i soldi per far la spesa?». Montana si fermò a guardarla senza rivolgerle una parola, cacciò una mano in tasca e le allungò cinquecento lire. Per Falcone quell’elemosina non richiesta era costata cara al commissario suo amico.
Pur sapendo di rischiare, Giovanni tornava a Palermo tutti i sabati. Non sapeva resistere troppo a lungo lontano, e non voleva dare l’idea di un abbandono definitivo. Scoprendo che anch’io, per ragioni familiari, facevo abbastanza spesso lo stesso percorso, mi propose di viaggiare con lui. Dopo il primo appuntamento, dissi a me stesso che se avessi conosciuto prima le regole del viaggio, avrei fatto meglio a trovare una scusa. Non era solo la pesantezza dei controlli, l’oppressione delle scorte, l’ansia e l’indispensabile durezza con cui si svolgevano i protocolli di sicurezza. Era la tensione crescente che nello stretto abitacolo dell’aereo di Stato montava via via, fino a diventare soffocante. Seduto accanto a Piero Grasso, allora il suo braccio destro, oggi procuratore nazionale antimafia, Falcone sprofondava in un silenzio pesante e insondabile, come se il ritorno in Sicilia lo stringesse a poco a poco in una morsa di pensieri opprimenti, una specie di incubo a occhi aperti da cui era impossibile distoglierlo.
All’arrivo a Punta Raisi saliva frettolosamente sulla macchina parcheggiata sotto l’aereo e si metteva alla guida. Il corteo che tante volte abbiamo visto rivivere nei film, con un’auto staffetta che precedeva quella di Falcone e un’altra a guardargli le spalle, attraversava il cancello di uscita dall’aeroporto e si lanciava sull’autostrada. Da quel momento in poi era come se mille occhi invisibili fossero puntati su quelle tre automobili che correvano da un bunker verso l’altro. Quante volte, seduto sul sedile di dietro accanto al fido Costanza, l’autista miracolosamente sopravvissuto alla strage di Capaci, avrò sobbalzato con lui per gli scatti nella guida di Giovanni, per la sterzata improvvisa con cui si allontanava bruscamente da un cassonetto della mondezza o da un fosso, pensando forse, come poi doveva accadere, che celassero la bomba che lo aspettava. E quante volte avrò litigato con mia madre, avvertita solo all’ultimo del mio arrivo in città, e istintivamente contraria a un trasferimento così pericoloso.
Marcello Sorgi