Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 27 Venerdì calendario

Quando Falcone mi disse: «Ecco perché lascio Palermo» (articolo del 19/5/2012)

L’Unità, sabato 19 maggio 2012
Non so chi ha scritto che la memoria è fondamentale per progredire, ma non bisogna abusarne per evitare di restare annichiliti dal ricordo del passato. Mai dimenticare; ma ricordare tutto, nemmeno. Forse lo scrisse Gesualdo Bufalino.
Dieci anni fa Giovanni Falcone fu assassinato. Con Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Tante cose sono state dette e scritte in questi dieci anni. Quello che si è saputo su retroscena e modalità di quella strage è consegnato a qualche sentenza di corte d’assise, ma non ancora a una sentenza di Cassazione (dovrebbe essere questione di giorni): è molto? È poco? Molto, moltissimo, a giudicare dagli insuccessi giudiziari che precedettero quella strage, a giudicare dal secolo di insuccessi registrati contro la mafia. Poco, troppo poco, rispetto alle aspettative di tutti coloro i quali ormai hanno capito che Cosa Nostra, nella sua interminabile storia, non è stata una monade criminale isolata e chiusa in se stessa.
Diciamo che è stata molto più aperta ad altri mondi criminali di quanto certe rappresentazioni folkloristiche, sia pure in buona fede, hanno finito col farci credere. Se questa osservazione è esatta - e credo proprio che lo sia - ne discende che una strage come quella di Capaci ebbe i suoi mandanti che furono estranei alla stessa mafia, tradizionalmente intesa. E quello che si è saputo sull’argomento non è “molto poco”, é il niente più assoluto. Ma è altrettanto vero che proprio i dibattimenti processuali, ancor prima che le sentenze, hanno lasciato cogliere, a chi ha l’udito buono, e soprattutto a chi non ha l’udito di quella particolarissima specie di sordi che sono quelli che non vogliono sentire, l’eco martellante della presenza di misteriosissimi mandanti.
Mandanti politici? Istituzionali? Economici? Criminali e non mafiosi? Tutti insieme appassionatamente? Supposizioni e dietrologie non fanno né la storia né la verità. Ne riparleremo a tempo debito, quando ci sarà un fatto. Se mai ci sarà. Ma il decimo anniversario della strage di Capaci va celebrato.
Come celebrare oggi Giovanni Falcone non volendo pagare alcun tributo alla retorica? Ricordando, verrebbe da dire. Ma ricordando almeno qualcosa che non sia mai stato messo per iscritto, reso pubblico. Cercherò di farlo riferendo un episodio che riguarda la partenza da Palermo di Giovanni Falcone con destinazione Roma, il ministero di grazia e giustizia e Claudio Martelli come suo nuovo superiore.
Un pomeriggio primaverile di tanti anni fa, era il 1991, quasi sicuramente a fine marzo, andai al Palazzo di giustizia di Palermo a trovare Falcone. Il pomeriggio era la parte ideale della giornata per scambiare con lui quattro chiacchiere che fossero finalmente slegate dalla cronaca, dall’attualità. E per un cronista che si occupava di vicende siciliane, la possibilità di quegli incontri era quasi un privilegio. Lui continuava a lavorare, firmava, fotocopiava, rispondeva al telefono, impartiva direttive alle sue affezionatissime segretarie. Ma nello stesso tempo riusciva a rilassarsi parlando del più e del meno, senza per questo rinunciare a trattare argomenti pesanti o a lasciar cadere qualche domanda su persone e cose della città che magari conosceva sotto forma di atti giudiziari senza averne contezza diretta.
Bene. Saranno state le quattro, o poco meno. Entrai nel suo ufficio ancora inondato di luce, al secondo piano del Palazzo di giustizia. Si era trasferito lì, dal suo proverbiale bunker, all’indomani della nomina a procuratore aggiunto decisa su misura per lui dopo le clamorose sconfitte della mancata nomina a capo dell’ufficio istruzione e a componente del CSM.
Di fronte a me si parò l’inequivocabile spettacolo di un trasloco. Enormi scatoloni di cartone avevano creato quasi una barriera artificiale attorno alla sua larga scrivania. Sul bordo della quale, dal lato in cui sedeva l’ospite, campeggiava un bel bauletto in noce con appositi astucci in cui erano custodite parecchie penne stilografiche della sua numerosa collezione. Ricordo che quel giorno mi disprezzò una Waterman (ma la uso ancora oggi…) dopo averla soppesata e dicendo in palermitano: «un c’è niente». Tradotto: solo fumo e niente arrosto.
Giovanni Falcone indossava una felpa e pantaloni da ginnastica. Al centro della felpa campeggiava a caratteri cubitali il logo della «Dea», la Drug Enforcement Administration, regalo dei colleghi americani durante un recente viaggio negli States dove Falcone negli ultimi anni si recava sempre più frequentemente per ragioni di lavoro. Ma veniamo al dunque.
Fra noi due si svolse il dialogo che segue.
Io: «sta partennu?»
Lui: «Minni vaiu a Roma, a lavorare con Martelli»
Io: «Lasci Palermo?»
Lui: «Esatto. Lascio Palermo». E con un sorriso alquanto tirato: «qualcosa in contrario?»
Non so come, non so perché, mi venne fuori una frase che era nello stesso tempo molto sincera e molto irrispettosa: «Giovanni, ci conosciamo da tanti anni. Nell’amicizia posso dirti che secondo me fai una minchiata?». Falcone girò attorno a una pila di scatoloni (ormai quasi tutti zeppi di atti giudiziari), si diresse alla porta - mentre velocemente cercavo di intuire quale sarebbe stata la sua reazione - e, da socchiusa che era, la chiuse rumorosamente.
«Ah io secondo te faccio una minchiata? Cosa vuoi che ti dica? Va bene, hai ragione tu: faccio una minchiata»…
Tentai una difesa. Mi ignorò e ripeté: «Cosa vuoi che ti dica? Che qui è diventato impossibile lavorare? Che a Palermo per me non c’è più spazio? Che ho chiuso?» Adesso era paonazzo. Girava per la stanza tenendo in mano un rotolo di nastro adesivo da imballaggio con il quale fino a quel momento aveva sigillato scatoloni.
Poi, trattenendo a stento la rabbia, ricominciò: «ma lo sai che ieri ho telefonato a un giovane collega di Enna per chiedergli notizie su un imputato di mafia? Il collega si è messo a disposizione. E lo sai che mi ha richiamato dieci minuti dopo ed era sconvolto?». Riuscii a chiedergli il perché.
«Perché appena ha chiuso la telefonata con me, ne ha ricevuta un’altra. Da chi? Dal mio capo, dal procuratore Pietro Giammanco». E cosa c’era di strano? «Di strano c’é che Giammanco già sapeva che io avevo fatto quella telefonata, quali informazioni avevo chiesto e anche a chi le avevo chieste. E ha telefonato al collega di Enna per ricordargli che il capo di quest’ufficio resta lui e che non gli sfugge niente del lavoro che faccio. Ti basta come segnale? Così non posso più andare avanti».
Gli chiesi se qualcuno fosse stato presente alla sua telefonata. Falcone preferì non rispondere. E a quel punto reagiì: «E io adesso scrivo un bell’articolo sull’Unità raccontando l’intera storia per filo e per segno. Dimmi solo come si chiama il collega e dammi qualche particolare in più». Non l’avessi mai detto. «Se tieni alla mia amicizia non dovrai mai dire una parola su questa storia. Mi faresti soltanto danno. E mi costringeresti a smentirti. Scordatilla…(dimenticala)». Tentai qualche ultima e inutile resistenza. Verificai che diceva molto sul serio. Che voleva davvero che di quell’episodio non trapelasse nulla.
Per allentare la tensione dissi solo: «ti posso confermare che secondo me fai una minchiata ad andartene a Roma?». Si mise a ridere: «Certo, certo. Ma dammi la tua parola d’onore che di quello che ti ho detto non scriverai mai nulla… Altrimenti non ti farò più entrare da quella porta…». Mantenni il patto.
All’indomani della strage di Capaci, la collega Liana Milella, sul Sole 24 Ore, pubblicò alcune pagine di un diario di Falcone che, fra l’altro, contenevano giudizi pesanti proprio su Pietro Giammanco. Il diario integrale - sulla cui esistenza Antonino Caponnetto non ha mai avuto dubbi- non è mai stato trovato (ma forse sarebbe più esatto dire che qualcuno dopo averlo trovato lo fece opportunamente sparire).
Paolo Borsellino, pochi giorni prima di cadere assassinato anche lui in via D’ Amelio, durante un’assemblea pubblica nell’atrio della settecentesca Biblioteca comunale di Palermo - era il 25 giugno 1992 -, ne confermò l’autenticità: «Posso dire solo, per evitare che anche su questo punto possano nascere speculazioni fuorvianti, che quegli appunti pubblicati dal Sole 24 Ore, io li avevo letti in vita di Giovanni Falcone».
Non incontrai mai Falcone durante la sua permanenza a Roma. Lo intravidi a Palermo in occasione di un convegno. E a essere sincero, se in casi del genere il parere di un cronista può valere qualcosa, devo ammettere che rimasi convinto che la sua scelta di accettare la proposta governativa, fosse troppo distante dal lavoro di giudice antimafia che tradizionalmente aveva svolto. Non ho cambiato opinione. Anche se ho sempre saputo quanto fossero gravi le ragioni professionali che lo avevano spinto a lasciare Palermo.
Ho riletto in questi giorni queste parole di Gesualdo Bufalino. «Io non mi fido troppo dei centenari: scadenze liturgiche che pretendono di giudicare un evento o un personaggio secondo le futili imposizioni del calendario; e che, mentre ostentano un distacco e un’equità falsamente definitivi, sbagliano le più volte nei due sensi opposti dell’enfasi celebrativa o del pregiudizio revisionista». Dovremmo cercare tutti di attenerci a queste parole guida. Dovremmo sforzarci di evitare di cedere sia all’enfasi che al pregiudizio revisionista, anche perché nessuno di noi scriverà qualcosa di definitivo su Giovanni Falcone e sul suo sacrificio. E’ ancora troppo presto.
Almeno sin quando non saranno trovati i mandanti, per ora occulti, della strage di Capaci.

Saverio Lodato