la Repubblica, sabato 24 giugno 1989 , 27 giugno 2014
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Una talpa ha tradito Falcone (articolo del 24/6/1989)
la Repubblica, sabato 24 giugno 1989
PALERMO – La pista mafiosa si tinge di nero. I boss che volevano uccidere Falcone hanno chiesto la consulenza di un’organizzazione specializzata in attentati dinamitardi, una banda con stretti legami negli ambienti dell’estrema destra italiana e forse anche in Medio Oriente. È questa l’indiscrezione del terzo giorno di indagini intorno ai 58 candelotti di gelatina che dovevano far saltare in aria il giudice e la sua scorta.
La mafia siciliana si è servita di costruttori di ordigni già utilizzati in passato. Come nella strage del treno 904 esploso nella galleria di San Benedetto Val di Sambro alla vigilia del Natale di cinque anni fa. Un massacro firmato da mafia e terrorismo nero. Ma dall’inchiesta sul fallito attentato al giudice istruttore Giovanni Falcone partono anche sottili fili che arrivano ad altri scenari. Uno è il caso Mattarella, il presidente della Regione Siciliana ammazzato il 6 gennaio del 1980 da un killer fascista. L’altro è sullo sfondo di una strage maturata in un ben diverso contesto ma legata all’attentato nella villa dell’Addaura dal tipo di esplosivo e dalla confezione dei tre congegni di innesco della gelatina. Gli esperti della polizia scientifica stanno verificando alcuni punti di contatto con la dinamica dell’esplosione avvenuta il 14 aprile del 1988 al club della base Nato di Napoli, una tremenda deflagrazione che provocò la morte di cinque marines ed il ferimento di altri venti.
Il sicario, si disse allora, era un terrorista venuto dal Giappone. Ma l’esplosivo ed una macchina militare di protezione il killer li aveva sicuramente trovati in Italia. La prima perizia Gli investigatori scavano anche su questo fronte ed intanto aspettano la prima perizia completa dai laboratori di polizia scientifica. L’attentato al giudice Falcone confermerebbe quell’ipotesi secondo la quale diverse organizzazioni criminali si scambiano favori e prestazioni al momento del bisogno. Morfina base contro kalashnikov, eroina contro cocaina, ma anche coperture in territori controllati dalle cosche in cambio di specialisti nella fabbricazione di bombe o nella raffinazione di stupefacenti.
Un intreccio che emerge da numerose inchieste partite dal Palazzo di Giustizia di Palermo, indagini seguite dallo stesso Falcone anche nelle ultime settimane. Fonti investigative mettono oggi in relazione la dinamica del fallito attentato con una delicata inchiesta che il giudice Falcone stava per chiudere.
L’istruttoria sull’uccisione di Piersanti Mattarella era ormai alla fase finale dopo quasi nove anni di misteri. C’è chi dice che Falcone stesse per firmare anche dei mandati di cattura contro i presunti killer del presidente della Regione. E C’è chi aggiunge perfino il numero dei provvedimenti restrittivi che sarebbero partiti dalla sua scrivania: sei. Voci che circolano nei corridoi del tribunale palermitano e che il quotidiano del pomeriggio LOra riporta con grande risalto.
A scaricare il revolver contro Piersanti Mattarella, scrive sempre L’Ora, sarebbe stato Giusva Fioravanti, un passato di attore televisivo, uno dei protagonisti dell’eversione nera degli ultimi anni. I suoi complici sarebbero stati cinque camerati siciliani. Storie di mafia e di terrorismo nero già intuite in alcune carte processuali, episodi già raccontati anche da dissociati come Angelo Izzo o da Cristiano Fioravanti. Quest’ultimo ha svelato ai magistrati anche i retroscena dell’uccisione, alla fine del 1980, del leader palermitano di Terza Posizione Francesco Mangiameli: Mangiameli era al corrente del coinvolgimento di Giusva nel delitto del presidente della Regione Mattarella. Una pista verso l’affaire Mattarella, un’altra verso i boss di mafia e camorra coinvolti nella strage del 904, un’altra ancora alla ricerca dell’organizzazione che fornirebbe alle cosche l’assistenza tecnica per un attentato come quello organizzato contro Falcone. Ipotesi su ipotesi che ci allontanano però dai ragionamenti del primo giorno, dalle sensazioni dei colleghi di Falcone sul movente del massacro. Indizi che portavano alla presenza di Totuccio Contorno in Sicilia, che puntavano dritto alla gestione dei collaboratori della giustizia. Un particolare che non viene trascurato dagli inquirenti: la morte del barone DOnufrio. Il barone, confidente della Criminalpol, non fu ucciso normalmente. I killer lanciarono due messaggi molto precisi. Si appostarono nel garage di un mafioso pentito, bloccarono l’auto del barone con una piccola carica di tritolo. Che bisogno cera di organizzare un agguato così sofisticato per un giovane uomo che andava in giro disarmato? Gli esperti furono categorici: questo è un messaggio di mafia. Dal caso Contorno alla pista del riciclaggio. Si dice, e ne parla lo stesso Falcone, che uno dei moventi potrebbe ricercarsi nelle sue inchieste sul riciclaggio del denaro sporco. Indagini dell’ultima ora. I due magistrati di Lugano che Falcone aveva incontrato alle 14 di martedì scorso nel suo ufficio erano venuti a Palermo proprio per esaminare una montagna di carte che il giudice siciliano aveva ricevuto dai colleghi dell’ufficio istruzione di Milano. Documenti sul lavaggio di centinaia di miliardi provenienti dal traffico internazionale di stupefacenti, assegni e conti cifrati che dalla Svizzera portano a Milano, a Torino, negli Stati Uniti e in Turchia. Due i personaggi coinvolti: il boss di Bagheria Leonardo Greco e Oliviero Tonioli, un industriale bresciano già coinvolto nel primo maxi processo a Cosa nostra. Si fanno i nomi anche di due trafficanti turchi. Ma qual è insomma la causa scatenante che ha fatto decidere i boss di Cosa nostra a piazzare quei venti chili di gelatina sotto la villa di Falcone? È un intreccio che passa dai delitti politici ai neri, dalla droga ai pentiti, in pratica da tutte le inchieste che hanno trasformato il giudice Falcone dal 1979 al 1989 nel pericolo numero uno per la mafia siculo-americana.
I delitti politici
L’inchiesta giudiziaria scoprirà forse chi e perché voleva uccidere Falcone, le indagini a caldo scavano giorno dopo giorno su dettagli inquietanti. Si è appreso che Falcone aveva l’intenzione di accompagnare i magistrati svizzeri sbarcati a Palermo in visita sulla scogliera davanti alla sua villa dell’Addaura. Un’idea venuta allo stesso Falcone durante le riunioni di lavoro con i colleghi di Lugano, un proposito che il giudice può avere comunicato a ben poche persone. Ma confessa Falcone: È questa la circostanza che volevano sfruttare. Una passeggiata sugli scogli, l’occasione migliore per farlo saltare in aria. Chi mai poteva sapere dell’intenzione di quell’invito ai colleghi svizzeri se non una persona vicinissima a Falcone? Un interrogativo che rilancia la solita caccia palermitana (ma sempre e solo a parole) di una talpa negli ambienti investigativi e giudiziari, di un informatore che passerebbe a Cosa nostra notizie delicatissime sui movimenti di magistrati e poliziotti. C’è davvero qualcuno che smistava notizie sulla probabile presenza di Falcone e dei giudici svizzeri sulla scogliera nel pomeriggio di martedì 20 giugno? I killer avevano saputo qualcosa e quindi sistemato l’ordigno? L’attività di polizia da 48 ore è davvero frenetica. Identificato, interrogato e rilasciato il grossista che aveva acquistato in una fabbrica di Brescia l’esplosivo (tutto in regola), adesso si cerca dove il sub ha acquistato muta, pinne e la borsa impermeabile di colore azzurro. Qualcosa salterà fuori probabilmente, dicono alla Squadra mobile. Gli investigatori hanno ricostruito anche quanti bagnanti cerano il pomeriggio di martedì a pochi metri dalla villa di Falcone. Una coppia di ragazzi sulla destra, due donne e un uomo al centro sugli scogli, un anziano signore in costume da bagno vicinissimo ai 58 candelotti di gelatina. Sarebbero morti tutti, in un istante. E con loro Falcone, la moglie e probabilmente anche quei giudici svizzeri invitati per caso sulla scogliera. E infine si indaga su una misteriosa telefonata arrivata in casa del consigliere istruttore Antonino Meli. Un messaggio anonimo che parlava di un certo problema in via Cristoforo Colombo, la via dell’Addaura dove sette giorni dopo ci sarebbe stato l’attentato a Falcone.
PALERMO – La pista mafiosa si tinge di nero. I boss che volevano uccidere Falcone hanno chiesto la consulenza di un’organizzazione specializzata in attentati dinamitardi, una banda con stretti legami negli ambienti dell’estrema destra italiana e forse anche in Medio Oriente. È questa l’indiscrezione del terzo giorno di indagini intorno ai 58 candelotti di gelatina che dovevano far saltare in aria il giudice e la sua scorta.
La mafia siciliana si è servita di costruttori di ordigni già utilizzati in passato. Come nella strage del treno 904 esploso nella galleria di San Benedetto Val di Sambro alla vigilia del Natale di cinque anni fa. Un massacro firmato da mafia e terrorismo nero. Ma dall’inchiesta sul fallito attentato al giudice istruttore Giovanni Falcone partono anche sottili fili che arrivano ad altri scenari. Uno è il caso Mattarella, il presidente della Regione Siciliana ammazzato il 6 gennaio del 1980 da un killer fascista. L’altro è sullo sfondo di una strage maturata in un ben diverso contesto ma legata all’attentato nella villa dell’Addaura dal tipo di esplosivo e dalla confezione dei tre congegni di innesco della gelatina. Gli esperti della polizia scientifica stanno verificando alcuni punti di contatto con la dinamica dell’esplosione avvenuta il 14 aprile del 1988 al club della base Nato di Napoli, una tremenda deflagrazione che provocò la morte di cinque marines ed il ferimento di altri venti.
Il sicario, si disse allora, era un terrorista venuto dal Giappone. Ma l’esplosivo ed una macchina militare di protezione il killer li aveva sicuramente trovati in Italia. La prima perizia Gli investigatori scavano anche su questo fronte ed intanto aspettano la prima perizia completa dai laboratori di polizia scientifica. L’attentato al giudice Falcone confermerebbe quell’ipotesi secondo la quale diverse organizzazioni criminali si scambiano favori e prestazioni al momento del bisogno. Morfina base contro kalashnikov, eroina contro cocaina, ma anche coperture in territori controllati dalle cosche in cambio di specialisti nella fabbricazione di bombe o nella raffinazione di stupefacenti.
Un intreccio che emerge da numerose inchieste partite dal Palazzo di Giustizia di Palermo, indagini seguite dallo stesso Falcone anche nelle ultime settimane. Fonti investigative mettono oggi in relazione la dinamica del fallito attentato con una delicata inchiesta che il giudice Falcone stava per chiudere.
L’istruttoria sull’uccisione di Piersanti Mattarella era ormai alla fase finale dopo quasi nove anni di misteri. C’è chi dice che Falcone stesse per firmare anche dei mandati di cattura contro i presunti killer del presidente della Regione. E C’è chi aggiunge perfino il numero dei provvedimenti restrittivi che sarebbero partiti dalla sua scrivania: sei. Voci che circolano nei corridoi del tribunale palermitano e che il quotidiano del pomeriggio LOra riporta con grande risalto.
A scaricare il revolver contro Piersanti Mattarella, scrive sempre L’Ora, sarebbe stato Giusva Fioravanti, un passato di attore televisivo, uno dei protagonisti dell’eversione nera degli ultimi anni. I suoi complici sarebbero stati cinque camerati siciliani. Storie di mafia e di terrorismo nero già intuite in alcune carte processuali, episodi già raccontati anche da dissociati come Angelo Izzo o da Cristiano Fioravanti. Quest’ultimo ha svelato ai magistrati anche i retroscena dell’uccisione, alla fine del 1980, del leader palermitano di Terza Posizione Francesco Mangiameli: Mangiameli era al corrente del coinvolgimento di Giusva nel delitto del presidente della Regione Mattarella. Una pista verso l’affaire Mattarella, un’altra verso i boss di mafia e camorra coinvolti nella strage del 904, un’altra ancora alla ricerca dell’organizzazione che fornirebbe alle cosche l’assistenza tecnica per un attentato come quello organizzato contro Falcone. Ipotesi su ipotesi che ci allontanano però dai ragionamenti del primo giorno, dalle sensazioni dei colleghi di Falcone sul movente del massacro. Indizi che portavano alla presenza di Totuccio Contorno in Sicilia, che puntavano dritto alla gestione dei collaboratori della giustizia. Un particolare che non viene trascurato dagli inquirenti: la morte del barone DOnufrio. Il barone, confidente della Criminalpol, non fu ucciso normalmente. I killer lanciarono due messaggi molto precisi. Si appostarono nel garage di un mafioso pentito, bloccarono l’auto del barone con una piccola carica di tritolo. Che bisogno cera di organizzare un agguato così sofisticato per un giovane uomo che andava in giro disarmato? Gli esperti furono categorici: questo è un messaggio di mafia. Dal caso Contorno alla pista del riciclaggio. Si dice, e ne parla lo stesso Falcone, che uno dei moventi potrebbe ricercarsi nelle sue inchieste sul riciclaggio del denaro sporco. Indagini dell’ultima ora. I due magistrati di Lugano che Falcone aveva incontrato alle 14 di martedì scorso nel suo ufficio erano venuti a Palermo proprio per esaminare una montagna di carte che il giudice siciliano aveva ricevuto dai colleghi dell’ufficio istruzione di Milano. Documenti sul lavaggio di centinaia di miliardi provenienti dal traffico internazionale di stupefacenti, assegni e conti cifrati che dalla Svizzera portano a Milano, a Torino, negli Stati Uniti e in Turchia. Due i personaggi coinvolti: il boss di Bagheria Leonardo Greco e Oliviero Tonioli, un industriale bresciano già coinvolto nel primo maxi processo a Cosa nostra. Si fanno i nomi anche di due trafficanti turchi. Ma qual è insomma la causa scatenante che ha fatto decidere i boss di Cosa nostra a piazzare quei venti chili di gelatina sotto la villa di Falcone? È un intreccio che passa dai delitti politici ai neri, dalla droga ai pentiti, in pratica da tutte le inchieste che hanno trasformato il giudice Falcone dal 1979 al 1989 nel pericolo numero uno per la mafia siculo-americana.
I delitti politici
L’inchiesta giudiziaria scoprirà forse chi e perché voleva uccidere Falcone, le indagini a caldo scavano giorno dopo giorno su dettagli inquietanti. Si è appreso che Falcone aveva l’intenzione di accompagnare i magistrati svizzeri sbarcati a Palermo in visita sulla scogliera davanti alla sua villa dell’Addaura. Un’idea venuta allo stesso Falcone durante le riunioni di lavoro con i colleghi di Lugano, un proposito che il giudice può avere comunicato a ben poche persone. Ma confessa Falcone: È questa la circostanza che volevano sfruttare. Una passeggiata sugli scogli, l’occasione migliore per farlo saltare in aria. Chi mai poteva sapere dell’intenzione di quell’invito ai colleghi svizzeri se non una persona vicinissima a Falcone? Un interrogativo che rilancia la solita caccia palermitana (ma sempre e solo a parole) di una talpa negli ambienti investigativi e giudiziari, di un informatore che passerebbe a Cosa nostra notizie delicatissime sui movimenti di magistrati e poliziotti. C’è davvero qualcuno che smistava notizie sulla probabile presenza di Falcone e dei giudici svizzeri sulla scogliera nel pomeriggio di martedì 20 giugno? I killer avevano saputo qualcosa e quindi sistemato l’ordigno? L’attività di polizia da 48 ore è davvero frenetica. Identificato, interrogato e rilasciato il grossista che aveva acquistato in una fabbrica di Brescia l’esplosivo (tutto in regola), adesso si cerca dove il sub ha acquistato muta, pinne e la borsa impermeabile di colore azzurro. Qualcosa salterà fuori probabilmente, dicono alla Squadra mobile. Gli investigatori hanno ricostruito anche quanti bagnanti cerano il pomeriggio di martedì a pochi metri dalla villa di Falcone. Una coppia di ragazzi sulla destra, due donne e un uomo al centro sugli scogli, un anziano signore in costume da bagno vicinissimo ai 58 candelotti di gelatina. Sarebbero morti tutti, in un istante. E con loro Falcone, la moglie e probabilmente anche quei giudici svizzeri invitati per caso sulla scogliera. E infine si indaga su una misteriosa telefonata arrivata in casa del consigliere istruttore Antonino Meli. Un messaggio anonimo che parlava di un certo problema in via Cristoforo Colombo, la via dell’Addaura dove sette giorni dopo ci sarebbe stato l’attentato a Falcone.
Attilio Bolzoni