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 2014  giugno 27 Venerdì calendario

Falcone doveva morire sulla scogliera (articolo del 22/6/1989)

la Repubblica, giovedì 22 giugno 1989
PALERMO – Doveva morire alle otto del mattino sulla scogliera, lontano dai bunker e dalle auto blindate. Doveva saltare in aria insieme alla moglie Francesca, alla villa dove abitavano, ai bagnanti che ogni giorno scendono nella borgata dell’Addaura per godersi il primo sole. Un pulsante luminoso, il radiocomando a microonde azionato probabilmente da una barca, venti chili di esplosivo nascosti in una borsa. Una sacca impermeabile di colore azzurro, 58 candelotti di gelatina a pochi metri dalla casa estiva del giudice Giovanni Falcone. Un attentato alla libanese, una strage per far fuori il nemico numero uno della mafia siciliana.

Per ucciderlo sono venuti dal mare.
Due sub, due uomini che nella notte si sono arrampicati sugli scogli, hanno sistemato l’ordigno, sono scivolati in acqua. Un piano quasi perfetto. Ma quel pulsante non è stato pigiato, qualcosa non ha funzionato nell’organizzazione militare del massacro. Quei venti chili di esplosivo avrebbero demolito anche le ville vicine, disintegrato alberi e piloni di cemento nel raggio di 70 metri. La storia del fallito attentato a Falcone comincia alle sette e un quarto del mattino alle pendici di Montepellegrino sul lungomare dell’Addaura, un vialone che parte dalla città e va sempre più restringendosi quando si avvicina a Mondello. La villa del giudice è una costruzione bassa poco sotto la strada, buganvillee e pini marini che coprono la terrazza, una piattaforma di cemento che porta al mare. Falcone vive qui da tre settimane, sorvegliato come sempre da dodici angeli custodi che tengono docchio il cancello, la veranda, la discesa a mare.

Un’ora di nuoto
Come ogni mattina il giudice si prepara all’unico svago della sua giornata, un’ora di nuoto. La solita corsa in auto sino alla piscina in via Belgio prima di chiudersi nel piccolo bunker del tribunale. Falcone sta per infilarsi nella blindata ma C’è qualcuno che grida. È un agente della sua scorta. Ha visto qualcosa laggiù, sotto la scaletta che scende al mare. Sembra una borsa. Accanto C’è un oggetto nero che nessuno riesce a distinguere bene. Poi va verso la scogliera. La borsa è chiusa, lì vicino C’è un paio di pinne. Due metri più giù una muta da sub. Che sta succedendo? Cosa C’è dentro quella borsa? Codice 15, codice 15.... Dalla centrale operativa viene diramato il codice dell’emergenza. Falcone e la moglie Francesca salgono su un’auto corazzata e scompaiono. All’Addaura non sono ancora le sette e mezzo. La borsa azzurra è sempre là, tra gli scogli, guardata a distanza da un poliziotto prudente che conosce bene il suo mestiere e sa che non deve muovere un dito. Ieri sera abbiamo perlustrato la zona e non cera, dice ad un collega, qualcuno l’ha portata qui nella notte o all’alba...
La paura sale all’Addaura, la voce di una strana borsa impermeabile sotto la casa del giudice Falcone fa subito il giro della città. Alle otto del mattino la strada che passa ai piedi di Montepellegrino è isolata. Le auto non passano, un furgone carico di artificieri dell’esercito supera l’ultimo posto di blocco. C’è una bomba dentro la borsa? Nessuno parla.

Falcone risponde ai cronisti al telefono: «Ancora non so bene di che si tratta, mi dicono che forse C’è dell’esplosivo». Sono già le nove. Dirà più tardi glaciale: Era un ordigno supersofisticato. All’Addaura arriva il dirigente del nucleo scorte Gigi Galvano seguito da un piccolo esercito. Ecco, adesso gli artificieri si avvicinano alla borsa. Per quaranta minuti girano intorno a quella sacca studiandola con attenzione. Poi qualcuno senza toccarla mai guarda dentro. Vede due scatole metalliche che somigliano a due ventiquattrore. C’è anche un filo, un filo elettrico che le unisce. È un ordigno, trasmettono via radio. Dal mare punta verso l’Addaura una motovedetta, da Boccadifalco si alzano gli elicotteri. È l’allarme generale: la mafia voleva uccidere Giovanni Falcone. Ma C’è il pericolo che quella borsa azzurra possa ancora esplodere? Bisogna aprirla. Prima gli artificieri dell’esercito spiegano che sfiorando i manici della sacca si può saltare in aria, poi ammettono che ci vuole subito un esperto dell’antisabotaggio.

È un ufficiale dei carabinieri che scende dalla piattaforma di cemento quasi un’ora e mezzo dopo. Per venticinque lunghissimi minuti lavora in silenzio sull’ordigno. L’ufficiale è in tuta mimetica, un brigadiere-assistente in borghese vede le sue mani che si muovono come piume dentro la sacca. L’esperto sistema una piccola carica per far esplodere un congegno. Il botto, un filo di fumo, la borsa si può aprire. In una scatola metallica ci sono 58 candelotti di gelatina di 350 grammi l’uno, nell’altra un apparecchietto collegato con un radiocomando azionato a non più di un chilometro di distanza. Ma il primo artificiere aveva visto giusto: nella borsa C’è anche un congegno a trappola, un intrigo di fili che appena mossi avrebbero provocato l’esplosione. Tutta questa roba non serviva certo per un avvertimento ma per un attentato, spiega subito l’ufficiale dell’antisabotaggio ai primi funzionari di polizia che si aggirano sugli scogli. L’altro artificiere conferma con un filo di voce: «Ci sarebbero stati effetti devastanti nel raggio di una settantina di metri». Sguardi di paura e fiato sospeso a mezzogiorno sotto il sole infuocato dell’Addaura. Il lavoro degli artificieri è finito, adesso comincia quello degli investigatori. Scatta la caccia all’uomo nelle ville che deturpano le pendici di Montepellegrino. Chi aveva quel telecomando non può essere lontano si passano parola i poliziotti o è in qualche casa lassù o è nel mare...

Le squadre perlustrano strade e perquisiscono case, la polizia chiede subito l’intervento dei sommozzatori dei vigili del fuoco per scandagliare le acque dell’Addaura. Ma la caccia continua anche a largo. Le motovedette cercano e fermano barche e canotti che attraversano il golfo di Mondello, gli elicotteri si spingono anche più lontano. Nulla, non si trova nulla fino a sera. È una faccenda seria, dice il questore Fernando Masone che ha appena parlato con il magistrato che seguirà l’inchiesta. È il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore Celesti, sarà lui a ricevere oggi il primo rapporto degli investigatori con una ricostruzione dell’attentato sventato.

C’è già una pista
C’è già una pista. Chi erano quei due sub avvistati l’altro ieri pomeriggio davanti alla villa di Falcone? Due sommozzatori qualunque in giro per il mare o gli uomini che poche ore dopo hanno piazzato il micidiale esplosivo? L’inchiesta dovrà scoprire tante altre cose. La mafia ha deciso di eliminare Falcone quando il giudice aveva appena abbandonato la sua casa di via Notarbartolo, un altro bunker inaccessibile sorvegliato giorno e notte anche da agenti chiusi in una garritta costruita sul marciapiedi. Hanno deciso di colpirlo quando era più vulnerabile, sempre scortatissimo ma protetto da un sistema non collaudato nel tempo. La macchina militare della mafia è entrata in azione nel momento migliore: l’estate, la villa al mare, un percorso quasi obbligato per uscire dalla borgata e arrivare a Palermo. E poi, poi, il colpo a sorpresa. I killer che non vengono da terra ma dal mare. Una mossa astuta. La possibilità di confondersi con la folla dei bagnanti, una borsa come tante dimenticata sugli scogli. Un massacro sfiorato, una strage evitata un po’ per fortuna e un po’ per il sesto senso degli agenti di scorta di Falcone. Gente ben addestrata, sospettosa più del dovuto, preparata a tutto. Anche a muoversi davanti ad una innocua borsa. Quell’esplosivo doveva uccidere Falcone così come l’estate di sette anni fa aveva ucciso il consigliere istruttore Rocco Chinnici. Era il capo di Falcone, era il giudice che creò il pool antimafia a Palermo. Stessa tecnica da mafiosi terroristi. Anche lo stesso esplosivo? Lo stabiliranno gli esperti nei prossimi giorni. Studieranno il congegno, esamineranno i 58 candelotti di gelatina. Agli 007 resterà il compito di scoprire quale cosa ha lanciato l’ultima sfida, quali boss hanno deciso di assassinare Giovanni Falcone.
Attilio Bolzoni