La Domenica del Corriere, domenica 10 gennaio 1932, 18 giugno 2014
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Caravaggio,il pittore tenebroso (articolo del 10/1/1932)
La Domenica del Corriere, domenica 10 gennaio 1932
I suoi contemporanei lo chiamarono il pittore tenebroso, i colleghi lo consideravano come un irregolare e un rivoluzionario, lo psichiatra Patrizi lo colloca senz’altro tra gli artisti criminali, ma egli rimane, nonostante tutto ciò, un pittore gigante, il maggiore del nostro Seicento. Le sue tele sembrano spiragli aperti nella notte e nella tempesta; un’ombra carica di mistero e di violenza circonda le sue figure, la luce vi penetra sbieco, quasi in modo accidentale, per rivelare torsi poderosi, facce malinconiche o stravolte, espressioni d’angoscia, di terrore o di calma, ma di una calma che cova la ribellione.
Il suo «San Giovanni», il suo «Davide giovinetto», lo stesso «Amore» sono di crudo e denso realismo. Così i suoi Apostoli; e la testa spiccata di Golia, col livido del sasso in fronte, ha un’espressione che mette freddo nel sangue. Un’arte così potente e tempestosa non poteva nascere se non dopo una vita altrettanto tempestosa e senza pace, e tale fu la vita di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio.
Giovinezza inquieta Verso i primi di aprile dell’anno 1584 un tal Merisi o Amerighi, architetto, o più verosimilmente capomastro del marchese di Caravaggio, scendeva dal suo paese in quel di Bergamo, a Milano per allogare suo figliuolo Michele Angelo nella bottega del pittore mastro Simone Petrazzano. Il giovane Michele, un bel ragazzo sui 15 anni, forte violento come un lioncello, aveva fino ad allora esercitato il modesto mestiere del magutte come si direbbe a Milano, portando sulle spalle secchi di calce e pile di mattoni; ma essendosi trovato, per la necessità del suo lavoro, a contatto con imbianchini e pittori decoratori, costoro più d’una volta lo avevano incaricato di preparare le colle per i loro affreschi, e il ragazzo si era innamorato dell’arte della pittura. Mastro Simone non era granché come pittore, ma era un discreto colorista, era innamorato fanatico dei veneti ed amava firmarsi Titiani discipulus (discepolo di Tiziano).
Con lui Michele avrebbe dovuto rimanere quattro anni per contrasto, ma non me li finì. Torbido e attaccabrighe per natura, il Caravaggio finì con la azzuffarsi anche col mastro Simone, ed un bel giorno, per non andare in prigione, fu costretto a lasciar Milano. Fugge a Venezia dove lo attira il desiderio di conoscere le opere di quei maestri, dei quali aveva udito dire mirabilia nella bottega del Petrazzano, e quivi visita quanto più può le opere del Vecellio, del Cagliari e dello Zorzi detto Giorgione. Ed appunto di quest’ultimo, il più squisito e spirituale, egli si innamora. Da Venezia passa Roma, sulla quale giganteggiano ancora le grandi ombre di Michelangelo e di Raffaello, è solo, ignoto, senza un soldo, passa alcuni mesi di una esistenza faticosa. Non ha casa, non recapito fisso, mangia quando può e fa a pugni con chi gli capita.
Spinto dalla fame s’impiega presso un tal cav. D’Arpino che lo mette a dipingere fiori, frutta, nature morte ed altre cianfrusaglie di commissione. Ma un bel giorno viene alle mani col cavaliere suo padrone e poco manca non li buchi la pancia. Lascia quella bottega e, tratto irresistibilmente verso la composizione drammatica e la figura, si mette a dipingere su modelli vivi. Ad alcuni che gli consigliano di studiare i maestri antichi e recenti e gli mostra la turba che brulica sui mercato:
-non vedete,-dice,-quanti modelli mi offre la natura?
Con una zingara incontrata per via fa una stupenda tela:«l’indovina».
Di una bionda trasteverina fa una «Maddalena» incantevole. Per dipingere si chiude nelle cantine, dove la luce entra di sbieco, scende dall’alto, da una lanterna velata da cartoni e da paralumi. Con una tecnica magistrale, una anatomia poderosa, un senso del colore fosco ma intenso, dipinge cose strabilianti, ma che spesso urlano per il loro crudo realismo.
Apostolo o ladrone? I preti della Chiesa di San Giovanni dei Francesi gli offrono di fare una pala d’altare. Michele dipinge un San Matteo, ma quando quei religiosi vedono il quadro al suo posto lo fanno immediatamente rimuovere scandalizzati. Ma è un santo, un apostolo o un ladrone quell’uomo barbuto, la cui testa poderosa sbuca dall’ombra e che con le gambe a cavalcioni tiene i larghi piedi scalzi con le piante spiattellate sulla faccia del pubblico? Il povero Caravaggio furibondo deve farne un altro.
Non ostante queste difficoltà la sua fama cresce, ma contemporaneamente cresce la fama delle sue stranezze. Essere senza brighe per lui è come morire. Dopo alcune ore di lavoro intenso, nelle quali, sotto la potenza dell’estro, dipinge come un energumeno, butti pennelli, cinge la spada e fa il bravaccio di professione. A Guido Reni minaccia di tagliare il collo; contro il Baglione scrive un libello poetico e ferisce di spada un sergente della guardia di Castel Sant’Angelo.
Una notte, verso le tre, Girolamo Spampa, mentre sta per entrare in casa, viene aggredito e bastonato a sangue. Da chi? Da Michelangelo il Caravaggio. Un giorno questi mangia all’osteria del Moro, il ragazzo che serve gli porta un piatto di carciofi alla giudia.
-Sono all’olio o alla burro?- domanda Michelangelo.
-Non so,- risponde il ragazzo; e, presone uno, se lo porta al naso.
Apriti cielo! Il Caravaggio balza su come una tigre: -se ben mi pare, brutta bestia, tu credi di servire qualche barone!- E paf… Il piatto con i carciofi vola in faccia al ragazzo. Poi Michele trae fuori la spada e se quello non scappa lo infilza. Un’altra notte insulta le guardie di ronda, un’altra ancora prende a sassate le finestre di madonna Prudenzia sua padrona di casa, perché reclama la pigione arretrata di sei mesi.
Finalmente un giorno, al gioco della pallacorda, attacca briga con un giovane, vengono alle mani e Michelangelo, tratta la spada, gli trapassa una coscia e l’uccide.
La tragica morte Costretto a fuggire da Roma, si reca a Napoli dove, essendo diffusa la fama della sua maniera tenebrosa, dipinge per chiese e conventi; ma per l’ambizione di avere la croce dell’ordine di Malta, parte per quell’isola dove ottiene quanto brama, mediante un magistrale ritratto eseguito per il Gran Maestro dell’Ordine. Pare che tutto vada bene, le commissioni floccano, ma Michelangelo è ancora una volta vinto dal suo cattivo demone. Un giorno bastona e ferisce un gentiluomo e viene imprigionato. Con enorme pericolo scavalca le mura del carcere e fugge a Siracusa prima, poi a Messina e a Palermo avendo sempre gli sgherri del suo nemico alle calcagna. Salpa verso Napoli e, proprio quando si crede sicuro, viene raggiunto. In un’osteria cade tra le mani di alcuni malandrini, i quali lo riducono in uno stato miserevole.
Così conciato si imbarca sopra una feluca e fa rotta verso Roma, ma giunto a Porto Ercole viene arrestato e trattenuto due giorni, mentre la feluca riparte senza curarsi di lui. Liberato dal carcere e senza bagagli egli si accinge ad un’impresa veramente pazzesca. Sfigurato dalle ferite, sotto un sole ardente che sfolgora la spiaggia, costeggiando canneti ed acquitrini squallidi su cui incombe implacabile la malaria, egli si getta all’impossibile inseguimento della feluca che porta le sue robe. Corre come un pazzo sulla sabbia infuocata, scamiciato, con gli occhi abbacinanti e vestiti a brandelli, cercando lontano sulle acque del Tirreno il bianco della vela fuggente. A un tratto un tremendo brivido di freddo lo coglie, i denti cominciano a battere per il rezzo e la schiena sembrava gli si spalanchi. È la perniciosa, la febbre malarica che uccide con la rapidità del veleno. Schiantato dal male orribile cade sulla sabbia e, in uno spaventoso delirio, solo come un cane, more.
Aveva 42 anni.
I suoi contemporanei lo chiamarono il pittore tenebroso, i colleghi lo consideravano come un irregolare e un rivoluzionario, lo psichiatra Patrizi lo colloca senz’altro tra gli artisti criminali, ma egli rimane, nonostante tutto ciò, un pittore gigante, il maggiore del nostro Seicento. Le sue tele sembrano spiragli aperti nella notte e nella tempesta; un’ombra carica di mistero e di violenza circonda le sue figure, la luce vi penetra sbieco, quasi in modo accidentale, per rivelare torsi poderosi, facce malinconiche o stravolte, espressioni d’angoscia, di terrore o di calma, ma di una calma che cova la ribellione.
Il suo «San Giovanni», il suo «Davide giovinetto», lo stesso «Amore» sono di crudo e denso realismo. Così i suoi Apostoli; e la testa spiccata di Golia, col livido del sasso in fronte, ha un’espressione che mette freddo nel sangue. Un’arte così potente e tempestosa non poteva nascere se non dopo una vita altrettanto tempestosa e senza pace, e tale fu la vita di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio.
Giovinezza inquieta Verso i primi di aprile dell’anno 1584 un tal Merisi o Amerighi, architetto, o più verosimilmente capomastro del marchese di Caravaggio, scendeva dal suo paese in quel di Bergamo, a Milano per allogare suo figliuolo Michele Angelo nella bottega del pittore mastro Simone Petrazzano. Il giovane Michele, un bel ragazzo sui 15 anni, forte violento come un lioncello, aveva fino ad allora esercitato il modesto mestiere del magutte come si direbbe a Milano, portando sulle spalle secchi di calce e pile di mattoni; ma essendosi trovato, per la necessità del suo lavoro, a contatto con imbianchini e pittori decoratori, costoro più d’una volta lo avevano incaricato di preparare le colle per i loro affreschi, e il ragazzo si era innamorato dell’arte della pittura. Mastro Simone non era granché come pittore, ma era un discreto colorista, era innamorato fanatico dei veneti ed amava firmarsi Titiani discipulus (discepolo di Tiziano).
Con lui Michele avrebbe dovuto rimanere quattro anni per contrasto, ma non me li finì. Torbido e attaccabrighe per natura, il Caravaggio finì con la azzuffarsi anche col mastro Simone, ed un bel giorno, per non andare in prigione, fu costretto a lasciar Milano. Fugge a Venezia dove lo attira il desiderio di conoscere le opere di quei maestri, dei quali aveva udito dire mirabilia nella bottega del Petrazzano, e quivi visita quanto più può le opere del Vecellio, del Cagliari e dello Zorzi detto Giorgione. Ed appunto di quest’ultimo, il più squisito e spirituale, egli si innamora. Da Venezia passa Roma, sulla quale giganteggiano ancora le grandi ombre di Michelangelo e di Raffaello, è solo, ignoto, senza un soldo, passa alcuni mesi di una esistenza faticosa. Non ha casa, non recapito fisso, mangia quando può e fa a pugni con chi gli capita.
Spinto dalla fame s’impiega presso un tal cav. D’Arpino che lo mette a dipingere fiori, frutta, nature morte ed altre cianfrusaglie di commissione. Ma un bel giorno viene alle mani col cavaliere suo padrone e poco manca non li buchi la pancia. Lascia quella bottega e, tratto irresistibilmente verso la composizione drammatica e la figura, si mette a dipingere su modelli vivi. Ad alcuni che gli consigliano di studiare i maestri antichi e recenti e gli mostra la turba che brulica sui mercato:
-non vedete,-dice,-quanti modelli mi offre la natura?
Con una zingara incontrata per via fa una stupenda tela:«l’indovina».
Di una bionda trasteverina fa una «Maddalena» incantevole. Per dipingere si chiude nelle cantine, dove la luce entra di sbieco, scende dall’alto, da una lanterna velata da cartoni e da paralumi. Con una tecnica magistrale, una anatomia poderosa, un senso del colore fosco ma intenso, dipinge cose strabilianti, ma che spesso urlano per il loro crudo realismo.
Apostolo o ladrone? I preti della Chiesa di San Giovanni dei Francesi gli offrono di fare una pala d’altare. Michele dipinge un San Matteo, ma quando quei religiosi vedono il quadro al suo posto lo fanno immediatamente rimuovere scandalizzati. Ma è un santo, un apostolo o un ladrone quell’uomo barbuto, la cui testa poderosa sbuca dall’ombra e che con le gambe a cavalcioni tiene i larghi piedi scalzi con le piante spiattellate sulla faccia del pubblico? Il povero Caravaggio furibondo deve farne un altro.
Non ostante queste difficoltà la sua fama cresce, ma contemporaneamente cresce la fama delle sue stranezze. Essere senza brighe per lui è come morire. Dopo alcune ore di lavoro intenso, nelle quali, sotto la potenza dell’estro, dipinge come un energumeno, butti pennelli, cinge la spada e fa il bravaccio di professione. A Guido Reni minaccia di tagliare il collo; contro il Baglione scrive un libello poetico e ferisce di spada un sergente della guardia di Castel Sant’Angelo.
Una notte, verso le tre, Girolamo Spampa, mentre sta per entrare in casa, viene aggredito e bastonato a sangue. Da chi? Da Michelangelo il Caravaggio. Un giorno questi mangia all’osteria del Moro, il ragazzo che serve gli porta un piatto di carciofi alla giudia.
-Sono all’olio o alla burro?- domanda Michelangelo.
-Non so,- risponde il ragazzo; e, presone uno, se lo porta al naso.
Apriti cielo! Il Caravaggio balza su come una tigre: -se ben mi pare, brutta bestia, tu credi di servire qualche barone!- E paf… Il piatto con i carciofi vola in faccia al ragazzo. Poi Michele trae fuori la spada e se quello non scappa lo infilza. Un’altra notte insulta le guardie di ronda, un’altra ancora prende a sassate le finestre di madonna Prudenzia sua padrona di casa, perché reclama la pigione arretrata di sei mesi.
Finalmente un giorno, al gioco della pallacorda, attacca briga con un giovane, vengono alle mani e Michelangelo, tratta la spada, gli trapassa una coscia e l’uccide.
La tragica morte Costretto a fuggire da Roma, si reca a Napoli dove, essendo diffusa la fama della sua maniera tenebrosa, dipinge per chiese e conventi; ma per l’ambizione di avere la croce dell’ordine di Malta, parte per quell’isola dove ottiene quanto brama, mediante un magistrale ritratto eseguito per il Gran Maestro dell’Ordine. Pare che tutto vada bene, le commissioni floccano, ma Michelangelo è ancora una volta vinto dal suo cattivo demone. Un giorno bastona e ferisce un gentiluomo e viene imprigionato. Con enorme pericolo scavalca le mura del carcere e fugge a Siracusa prima, poi a Messina e a Palermo avendo sempre gli sgherri del suo nemico alle calcagna. Salpa verso Napoli e, proprio quando si crede sicuro, viene raggiunto. In un’osteria cade tra le mani di alcuni malandrini, i quali lo riducono in uno stato miserevole.
Così conciato si imbarca sopra una feluca e fa rotta verso Roma, ma giunto a Porto Ercole viene arrestato e trattenuto due giorni, mentre la feluca riparte senza curarsi di lui. Liberato dal carcere e senza bagagli egli si accinge ad un’impresa veramente pazzesca. Sfigurato dalle ferite, sotto un sole ardente che sfolgora la spiaggia, costeggiando canneti ed acquitrini squallidi su cui incombe implacabile la malaria, egli si getta all’impossibile inseguimento della feluca che porta le sue robe. Corre come un pazzo sulla sabbia infuocata, scamiciato, con gli occhi abbacinanti e vestiti a brandelli, cercando lontano sulle acque del Tirreno il bianco della vela fuggente. A un tratto un tremendo brivido di freddo lo coglie, i denti cominciano a battere per il rezzo e la schiena sembrava gli si spalanchi. È la perniciosa, la febbre malarica che uccide con la rapidità del veleno. Schiantato dal male orribile cade sulla sabbia e, in uno spaventoso delirio, solo come un cane, more.
Aveva 42 anni.
Ariel