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 2014  giugno 06 Venerdì calendario

La storia di Venezia, con la foto di Orsoni e magari il ponte di Rialto sullo sfondo, campeggia su tutti i siti del mondo, a dimostrazione che non è più solo una questione di corrotti da processare e mettere dentro, e neanche più solo una questione di allegre mazzette gestite da personaggi pittoreschi: attraverso un nome enorme come quello di Venezia il mondo ci guarda, ci giudica e decide di tenersi lontano dai nostri affari

La storia di Venezia, con la foto di Orsoni e magari il ponte di Rialto sullo sfondo, campeggia su tutti i siti del mondo, a dimostrazione che non è più solo una questione di corrotti da processare e mettere dentro, e neanche più solo una questione di allegre mazzette gestite da personaggi pittoreschi: attraverso un nome enorme come quello di Venezia il mondo ci guarda, ci giudica e decide di tenersi lontano dai nostri affari. Nel momento, invece, in cui abbiamo un bisogno disperato di gente che venga a investire in Italia e ci dia da lavorare.

Quali sono le ultime novità?
Gli interrogatori sono cominciati ieri, e continueranno oggi e nei prossimi giorni. È una faccenda lunga, nell’elenco degli indagati è entrato pure l’ex ministro Matteoli, per fatti che hanno a che vedere col Consorzio Venezia Nuova, ma non con il Mose. Matteoli nega tutto, Galan nega tutto e vuole essere interrogato al più presto (su di lui si deve pronunciare la Camera), intanto il prefetto, applicando la legge Severino (l’ultima emanata in materia), ha sospeso Orsoni dalla carica di sindaco, col subentro automatico del suo vice Sandro Simionato. Si è dimesso dalla carica anche l’assessore regionale Renato Chisso (Forza Italia), al quale il governatore del Veneto Luca Zaia, saputo dell’arresto, aveva immediatamente ritirato le deleghe. Il succo dell’inchiesta è per ora confermato, anche se sarebbe auspicabile un processo veloce e chiarificatore: svariate società del sistema sovrafatturavano, cioè mostravano che un certo acquisto era stato pagato molto di più del prezzo effettivo. Saldato il fornitore, la parte eccedente, resa nera, veniva distribuita su vari conti esteri e serviva a finanziare chi doveva favorire o tacere o controllare. I pezzi grossi del sistema pigliavano addirittura uno stipendio annuale, per Galan («è tutto falso!») si parla di un milione l’anno, cifra che ha destato in giro un grande scandalo. Altro grande scandalo: i nomi sono più o meno sempre quelli, c’è gente, come Baita, che era andata dentro già nel 1993, in epoca Tangentopoli.  

Qui vedo un primo difetto a livello legislativo: è cioè chi c’è cascato una volta dovrebbe esser tenuto lontano da queste cose per sempre.
C’è una dichiarazione di Renzi, resa a Bruxelles durante la conferenza stampa: «Provo una profonda amarezza ma ho piena fiducia nel lavoro della magistratura. Il problema sono i ladri, non le regole, i politici corrotti andrebbero indagati per alto tradimento. Non è possibile che chi viene condannato per corruzione dopo 20 anni possa tornare ad occuparsi della cosa pubblica. La mia proposta è di un daspo a politici e imprenditori implicati in vicende corruttive. Nelle prossime ore interverremo sugli appalti pubblici». Non ho bisogno, su “Gazzetta”, di spiegare che cos’è un daspo.  

Che cosa dicono, per esempio, il ministro della Giustizia o il capo dell’Anticorruzione?
Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si dichiara «intristito ma non stupito, non mi stupisce una situazione di mancanza di concorrenza che determina opacità». Cioè Orlando imputa la corruzione al fatto che per il Mose, profittando di una possibilità che la legge concede, si sia proceduto col sistema della chiamata diretta invece che con il metodo degli appalti. Io ho dubbi che il nodo del problema sia qui: proprio Expo 2015 mostra che anche con gli appalti si comprano le vittorie alla grande. La semplice affermazione «ci vogliono gli appalti» mi suona consolatoria, ma falsa. Più corrette, direi, le idee di Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione: «Il sistema degli appalti deve essere ripensato, ma occorre anche discontinuità politica e culturale». Tralascio le valanghe di altre dichiarazioni, tutte indignate, tutte certe della soluzione, tutte di gente che già sapeva.  

Ma una soluzione esiste?
Sono abbastanza convinto delle idee espresse da Federico Varese, un italiano che insegna criminologia a Oxford. Al contrario di quello che si sente in giro, Varese consiglia di diminuire il numero delle leggi che si occupano di corruzione e non di moltiplicarle. Più in generale: diminuire il numero delle leggi in assoluto, dato che è dimostrato il rapporto stretto tra quantità di atti legislativi e corruzione. Direi che è una verità intuitiva: più lunghi sono i passaggi affidati alle burocrazie, più probabile che vi siano stazioni che pretendono il pizzo ed è praticamente certo che il cittadino, esasperato da norme che non garantiscono niente e da controllori che non controllano, sia pronto a pagare pur di farla finita. La corruzione, oltre tutto, prospera nella confusione legislativa. Varese consiglia anche di creare un sistema di denunce, anche anonime, messo a disposizione dei funzionari pubblici. Non importa se il motivo della denuncia è abietto: negli Stati Uniti e in Inghilterra la cosa funziona. Altra idea: mettere in concorrenza tra loro gli uffici, e cioè affidare una pratica, un permesso, una gara a più dipartimenti, in modo da metterli in concorrenza fra loro. In altri termini: la corruzione si può battere, e si può battere persino in Italia, dove comunque c’è pure un sacco di gente onesta. C’è solo una condizione da cui non si può prescindere.  

Sì?
Bisogna volerlo.