Corriere della Sera, giovedì 25 luglio 2002, 6 maggio 2014
Tags : La Grande Guerra
Pétain, la coscienza sporca della Francia
Corriere della Sera, giovedì 25 luglio 2002
Sulla prima pagina dell’Humanité i comunisti nel dicembre 1944 scrissero: «Non è la carcassa di quel vecchio che c’interessa, ma quello che è stato e quello che rappresenta». Poco tempo dopo aggiunsero: «Mussolini è stato ucciso. Dev’essere ucciso anche Pétain». I comunisti del segretario Maurice Thorez pretendevano che il traditore Philippe Pétain, maresciallo di Francia e vincitore di Verdun nel 1916, fosse condannato a morte e fucilato alla schiena per la sua complicità coi nazisti e per essere stato alla testa del regime collaborazionista di Vichy. Avevano dimenticato che furono i primi a tradire quando, nel 1939, accettarono il patto di non aggressione tra Hitler e Stalin. Ma era in gioco il potere nella Francia del dopoguerra. Una «Douce France» feroce. Il processo Pétain fa parte di quel male dell’anima che insidia ancora i francesi di oggi. Spiega tutto, questo antico e grande psicodramma collettivo. Spiega persino il fenomeno Le Pen e l’ondata di voti all’estrema destra nel primo turno delle presidenziali dello scorso maggio. Quaranta milioni di francesi furono «petainisti» e non sono tutti morti. Una buona parte di loro, nel 1940, si augurò che la Germania vincesse la guerra.
Le udienze dell’«Haute Cour» si svolsero alla Corte d’appello di Parigi, dal pomeriggio di lunedì 23 luglio 1945 all’alba di mercoledì 15 agosto. L’attenzione su Pétain, che aveva ottantanove anni, non si allentò neanche il 6 agosto quando fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima. Noi ci siamo serviti, per ricostruire brevemente il processo, del testo stenografico, delle Mémoires di Jacques Isorni, avvocato della difesa, e delle rivelazioni contenute in un libro abbastanza raro pubblicato nel 1948 – Laval parle..., editore Béranger – in cui Pierre Laval, capo del governo e «anima nera» di Vichy, racconta il Pétain e descrive le sue ultime ore nelle prigione di Fresnes. Laval doveva essere fucilato per ordine del generale de Gaulle: fu un atto disumano perché era già moribondo a causa di un veleno che aveva ingoiato. Lo portarono a braccia in un cortile, lo appoggiarono a un muro e spararono.
Philippe Pétain volle essere giudicato e si consegnò alle autorità francesi il 26 aprile. Ottenne il presentatarm dei soldati svizzeri alla frontiera. E poteva restare in Svizzera. La «Haute Cour» era un tribunale politico, composto da giudici di mestiere e da giurati parlamentari. Se la maggioranza di questi ultimi era comunista o uscita dalla Resistenza, la condanna a morte o l’ergastolo erano inevitabili. Dopo essere stato rinchiuso per qualche settimana nel forte di Montrouge, il maresciallo fu portato al Palazzo di giustizia con un «panier à salade», un veicolo che di solito era destinato ad accogliere le prostitute dopo le retate. In aula indossava la sua uniforme, aveva il kepì e, nonostante l’età, la pelle del suo volto appariva rosea e non avvizzita. Sapeva che sua moglie aveva gli occhi su di lui: Annie gli aveva da tempo perdonato tutte le sue avventure femminili, ma non sopportava che le antiche fiamme mandassero messaggi durante le udienze. Tra il pubblico, rumoroso ed eccitato, si celavano alcune conquiste del passato. Spiccavano fra i giornalisti François Mauriac e Albert Camus.
Il generale de Gaulle, che aveva prestato servizio in un reggimento di fanteria comandato da Pétain, temeva il processo. Avrebbe preferito che avvenisse in contumacia. Il sangue gli si gelava nelle vene pensando alle parole di Pétain. Ma non provava sentimenti di pietà. «Imputato alzatevi: nome, cognome e attività professionale», ordinò il presidente Mongibeaux. «Pétain, Philippe, maréchal de France». «Legga la sua dichiarazione». E Pétain, messi gli occhiali, lesse: «È il popolo francese che, attraverso i suoi rappresentanti parlamentari riuniti in assemblea nazionale il 10 luglio 1940, mi ha affidato il potere. Ed è al popolo che debbo rendere conto. L’Alta corte non rappresenta i francesi... Così non risponderò a nessuna domanda. L’armistizio che ho chiesto ai tedeschi ha salvato la Francia... La mia vita m’interessa poco. Ho fatto alla Francia il dono della mia persona e il mio sacrificio non può essere messo in dubbio». Si udirono urla di evviva e di furore. E chi gridava evviva era arrestato.
Il processo si gonfiò come un fiume in piena. I testimoni contro Pétain erano personaggi politici e dell’esercito del rango di Blum, Daladier, Reynaud, Weygand, uomini che vissero la sconfitta delle Francia davanti ai panzer germanici. Al di là delle leggi razziali, del lavoro obbligatorio in Germania, delle atrocità compiute dalla Milizia e del fatto che, come Laval, il maresciallo si augurava la vittoria di Hitler, c’era contro l’imputato la tesi del complotto. Secondo il procuratore generale Mornet, il maresciallo, che nel 1939 era ambasciatore a Madrid, sapeva dell’impreparazione dell’esercito francese, intuiva la sconfitta e aveva contatti con Hitler grazie al generale Franco. Inoltre era un membro della «Cagoule», organizzazione segreta fascista che aveva ucciso i fratelli Rosselli. Pétain intendeva instaurare una dittatura in Francia.
Il procuratore non provò le sue accuse. Non restava che il tradimento. «Signor Daladier, lei è stato capo del governo e ministro: crede che il maresciallo abbia tradito la Francia?» chiese la difesa. «Pétain ha tradito i suoi doveri di francese» rispose Daladier con la coda fra le gambe. Alle 21 del 14 agosto, dopo le arringhe, il maresciallo riprese la parola. Per un solo voto, quello del comunista Prot, i sostenitori della pena di morte ebbero il sopravvento all’alba di ferragosto. Il maresciallo fu privato dei suoi beni e giudicato indegno d’essere francese. Lo aspettava, disse la Corte, il plotone d’esecuzione, anche se per la tarda età del condannato ciò non era augurabile. Fu così che il governo provvisorio, cioè de Gaulle, concesse la grazia. Solo per paura. Una certa Francia, ancora presente nei nostri giorni, poteva insorgere. Il maresciallo doveva morire nel 1951 nella ventosa isola di Yeu.
Sulla prima pagina dell’Humanité i comunisti nel dicembre 1944 scrissero: «Non è la carcassa di quel vecchio che c’interessa, ma quello che è stato e quello che rappresenta». Poco tempo dopo aggiunsero: «Mussolini è stato ucciso. Dev’essere ucciso anche Pétain». I comunisti del segretario Maurice Thorez pretendevano che il traditore Philippe Pétain, maresciallo di Francia e vincitore di Verdun nel 1916, fosse condannato a morte e fucilato alla schiena per la sua complicità coi nazisti e per essere stato alla testa del regime collaborazionista di Vichy. Avevano dimenticato che furono i primi a tradire quando, nel 1939, accettarono il patto di non aggressione tra Hitler e Stalin. Ma era in gioco il potere nella Francia del dopoguerra. Una «Douce France» feroce. Il processo Pétain fa parte di quel male dell’anima che insidia ancora i francesi di oggi. Spiega tutto, questo antico e grande psicodramma collettivo. Spiega persino il fenomeno Le Pen e l’ondata di voti all’estrema destra nel primo turno delle presidenziali dello scorso maggio. Quaranta milioni di francesi furono «petainisti» e non sono tutti morti. Una buona parte di loro, nel 1940, si augurò che la Germania vincesse la guerra.
Le udienze dell’«Haute Cour» si svolsero alla Corte d’appello di Parigi, dal pomeriggio di lunedì 23 luglio 1945 all’alba di mercoledì 15 agosto. L’attenzione su Pétain, che aveva ottantanove anni, non si allentò neanche il 6 agosto quando fu sganciata la bomba atomica su Hiroshima. Noi ci siamo serviti, per ricostruire brevemente il processo, del testo stenografico, delle Mémoires di Jacques Isorni, avvocato della difesa, e delle rivelazioni contenute in un libro abbastanza raro pubblicato nel 1948 – Laval parle..., editore Béranger – in cui Pierre Laval, capo del governo e «anima nera» di Vichy, racconta il Pétain e descrive le sue ultime ore nelle prigione di Fresnes. Laval doveva essere fucilato per ordine del generale de Gaulle: fu un atto disumano perché era già moribondo a causa di un veleno che aveva ingoiato. Lo portarono a braccia in un cortile, lo appoggiarono a un muro e spararono.
Philippe Pétain volle essere giudicato e si consegnò alle autorità francesi il 26 aprile. Ottenne il presentatarm dei soldati svizzeri alla frontiera. E poteva restare in Svizzera. La «Haute Cour» era un tribunale politico, composto da giudici di mestiere e da giurati parlamentari. Se la maggioranza di questi ultimi era comunista o uscita dalla Resistenza, la condanna a morte o l’ergastolo erano inevitabili. Dopo essere stato rinchiuso per qualche settimana nel forte di Montrouge, il maresciallo fu portato al Palazzo di giustizia con un «panier à salade», un veicolo che di solito era destinato ad accogliere le prostitute dopo le retate. In aula indossava la sua uniforme, aveva il kepì e, nonostante l’età, la pelle del suo volto appariva rosea e non avvizzita. Sapeva che sua moglie aveva gli occhi su di lui: Annie gli aveva da tempo perdonato tutte le sue avventure femminili, ma non sopportava che le antiche fiamme mandassero messaggi durante le udienze. Tra il pubblico, rumoroso ed eccitato, si celavano alcune conquiste del passato. Spiccavano fra i giornalisti François Mauriac e Albert Camus.
Il generale de Gaulle, che aveva prestato servizio in un reggimento di fanteria comandato da Pétain, temeva il processo. Avrebbe preferito che avvenisse in contumacia. Il sangue gli si gelava nelle vene pensando alle parole di Pétain. Ma non provava sentimenti di pietà. «Imputato alzatevi: nome, cognome e attività professionale», ordinò il presidente Mongibeaux. «Pétain, Philippe, maréchal de France». «Legga la sua dichiarazione». E Pétain, messi gli occhiali, lesse: «È il popolo francese che, attraverso i suoi rappresentanti parlamentari riuniti in assemblea nazionale il 10 luglio 1940, mi ha affidato il potere. Ed è al popolo che debbo rendere conto. L’Alta corte non rappresenta i francesi... Così non risponderò a nessuna domanda. L’armistizio che ho chiesto ai tedeschi ha salvato la Francia... La mia vita m’interessa poco. Ho fatto alla Francia il dono della mia persona e il mio sacrificio non può essere messo in dubbio». Si udirono urla di evviva e di furore. E chi gridava evviva era arrestato.
Il processo si gonfiò come un fiume in piena. I testimoni contro Pétain erano personaggi politici e dell’esercito del rango di Blum, Daladier, Reynaud, Weygand, uomini che vissero la sconfitta delle Francia davanti ai panzer germanici. Al di là delle leggi razziali, del lavoro obbligatorio in Germania, delle atrocità compiute dalla Milizia e del fatto che, come Laval, il maresciallo si augurava la vittoria di Hitler, c’era contro l’imputato la tesi del complotto. Secondo il procuratore generale Mornet, il maresciallo, che nel 1939 era ambasciatore a Madrid, sapeva dell’impreparazione dell’esercito francese, intuiva la sconfitta e aveva contatti con Hitler grazie al generale Franco. Inoltre era un membro della «Cagoule», organizzazione segreta fascista che aveva ucciso i fratelli Rosselli. Pétain intendeva instaurare una dittatura in Francia.
Il procuratore non provò le sue accuse. Non restava che il tradimento. «Signor Daladier, lei è stato capo del governo e ministro: crede che il maresciallo abbia tradito la Francia?» chiese la difesa. «Pétain ha tradito i suoi doveri di francese» rispose Daladier con la coda fra le gambe. Alle 21 del 14 agosto, dopo le arringhe, il maresciallo riprese la parola. Per un solo voto, quello del comunista Prot, i sostenitori della pena di morte ebbero il sopravvento all’alba di ferragosto. Il maresciallo fu privato dei suoi beni e giudicato indegno d’essere francese. Lo aspettava, disse la Corte, il plotone d’esecuzione, anche se per la tarda età del condannato ciò non era augurabile. Fu così che il governo provvisorio, cioè de Gaulle, concesse la grazia. Solo per paura. Una certa Francia, ancora presente nei nostri giorni, poteva insorgere. Il maresciallo doveva morire nel 1951 nella ventosa isola di Yeu.
Ulderico Munzi