5 maggio 2014
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Biografia di Luigi Cadorna
Pallanza 4 settembre 1850 – Bordighera 21 dicembre 1928. Militare di carriera. Capo di stato maggiore del Regio esercito dal 1914, condusse la guerra italiana fino alla disfatta di Caporetto, dopo la quale fu esonerato. A riposo nel 1919. Senatore dal 1913, nel 1924 fu nominato maresciallo d’Italia. Detto anche “il generalissimo”.
• Figlio del generale Raffaele, comandante supremo della spedizione militare che nel 1870 portò alla liberazione di Roma, a dieci anni allievo del Collegio militare di Milano, a quindici dell’Accademia militare di Torino, quindi alla Scuola di guerra dalla quale uscì con il grado di tenente nel 1870. Rapida carriera militare fino al grado di tenente generale ottenuto nel 1905. Comandante energico, autore di un libretto sulla tattica e l'istruzione della fanteria in cui sosteneva l’efficacia dell’attacco frontale in qualsiasi operazione offensiva, si giocò una prima volta negli anni 1906-08 il comando dello stato maggiore dell’esercito a causa della sua dichiarata intolleranza alle intromissioni esterne nell’esercizio del comando, per cui il generale Pollio fu nominato al suo posto.
• Senatore del Regno dal 1913, il 27 luglio, un mese dopo la morte del generale Pollio, assunse l’incarico di capo di stato maggiore, conferitogli dal re Vittorio Emanuele III su designazione dei comandanti d’armata. Insieme al ministro della Guerra Zupelli, nell’ottobre 1914 avviò un programma di ampliamento e ammodernamento delle strutture dell’esercito, ancora provato dal conflitto italo-turco. Ma non fu sufficiente: il 24 maggio 1915 l’Italia entrò nel conflitto che da quasi un anno stava insanguinando l’Europa con 35 divisioni e un armamento inadeguato alle esigenze crescenti della guerra di trincea.
• «Nei trenta mesi in cui tenne il comando dell’esercito il suo comportamento fu rettilineo, ispirato a principî molto chiari e meditati: la necessità di un’assoluta unità di comando che non ammetteva deroghe né controlli, un elevatissimo senso del dovere che tutto sacrificava alla vittoria, la convinzione che il paese dovesse concorrere allo sforzo bellico con una totale adesione alle richieste dell’esercito in uomini e mezzi. (…) Rifiutava di indirizzare lo sforzo italiano su obiettivi territoriali e intendeva progredire oltre l’Isonzo e le Alpi Giulie verso Lubiana, nella direzione più sensibile per il nemico; concentrò quindi le sue forze nel Friuli, ordinando uno schieramento difensivo nel Trentino e permettendo offensive locali nel Cadore e nella Carnia (che però causarono la dispersione delle scarse artiglierie pesanti). (…) Indirizzò quindi i suoi sforzi a ottenere nuove truppe e soprattutto nuovi materiali bellici, per rinnovare le “spallate” sull’Isonzo (undici battaglie complessive)». Fermata la penetrazione austro-ungarica in Trentino, nel maggio 1916, «concentrava nuovamente le sue forze sull’Isonzo e strappava al nemico Gorizia (agosto 1916), con la vittoria più sentita dall’opinione pubblica. Nel 1917 rinnovava i suoi assalti oltre l’Isonzo, e con truppe più provviste di mezzi riusciva a ottenere successi considerevoli (battaglia della Bainsizza, agosto del 1917) che spingevano l’Austria-Ungheria sull’orlo del collasso» [Rochat, Dizionario biografico degli italiani, Treccani 1973].
• Nel corso del conflitto perseguì con ostinazione la sua linea nei rapporti con il potere politico, non ammettendo ingerenze nella sua opera di comando né fornendo informazioni sui suoi piani e pretendendo che le sue crescenti richieste di uomini e mezzi fossero soddisfatte senza alcun compromesso. Forte del sostegno della stampa e della propaganda riuscì il più delle volte a ottenere ciò che voleva, esautorando di fatto il ministero della Guerra e nonostante i contrasti (anche sulle campagne al di fuori dell’Italia) che ebbe con tutti i governi che si succedettero durante gli anni del suo comando, fino a che esplosero dopo la disfatta di Caporetto. «Dopo la guerra scrisse che tutti i governi succedutisi nel corso del conflitto avrebbero meritato di “essere spazzati via per essere sostituiti con un regime più confacente alle necessità della grave ora che si stava attraversando” (…)» [Leggi qui l’articolo di Piero Melograni].
• Altrettanto difficili si fecero i rapporti con il suo esercito. La sua concezione della disciplina «lo portava a non curare abbastanza il benessere materiale e morale delle truppe (turni di riposo, vitto e licenze, propaganda sugli scopi di guerra, assistenza alle famiglie, ecc.) e a sospettare mene sovversive e disfattistiche in ogni segno di stanchezza» [Rochat]. Il punto di massima tensione fu raggiunto nel 1917: nel corso dell’anno, quando davanti ai casi di ribellione o di cedimento (molto simili a quelli che si verificavano negli stessi mesi fra le truppe francesi) ordinò una dura repressione, condotta anche attraverso fucilazioni sommarie e a decimazioni, con una severità sconosciuta ad altri eserciti alleati. E alla fine di ottobre, quando, dopo lo sfondamento austro-tedesco delle linee italiane a Caporetto, imputò la colpa a uno sciopero militare provocato dalla propaganda neutralista, arrivando ad accusare, nel bollettino del 27 ottobre, reparti della II armata di essere «vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico». Le responsabilità di quella sconfitta e della rotta che ne seguì sono in realtà da attribuire in misura maggiore al suo comando, anche se non del tutto. Cadorna aveva sì diramato il 18 settembre istruzioni di massima per il passaggio allo schieramento difensivo, ma erano troppo vaghe e comunque non furono rispettate da settori importanti dello schieramento italiano. E più tardi l’esitazione nel dare l’ordine di ripiegamento e le informazioni lacunose che arrivavano al Comando supremo resero molto più difficili le condizioni della ritirata.
• La sconfitta di Caporetto fu però solo l’occasione, qualche giorno più tardi, del suo esonero, dovuto soprattutto alla necessità, per il governo, di stabilire un rapporto di intima collaborazione con il Comando supremo in un momento tanto difficile, e all’aut aut degli Alleati, che il 6 novembre al convegno di Rapallo chiesero la sostituzione immediata di Cadorna come condizione per l’invio di un contingente anglo-francese sul fronte italiano. Lo stesso aveva fatto davanti al re alla fine di ottobre Orlando per accettare l’incarico di primo ministro. Il 9 novembre 1917 Cadorna fu sostituito dal generale Armando Diaz e nominato membro del Consiglio superiore di guerra interalleato con sede a Versailles.
• Il 17 febbraio 1918 fu richiamato in Italia per rispondere alla commissione d'inchiesta nominata dal governo Orlando per far luce sul disastro di Caporetto. Da lì fu indicato all’opinione pubblica come il principale responsabile della sconfitta. A fine luglio 1919 le conclusioni della commissione, con severe censure per Cadorna (mentre venivano ignorate le responsabilità di altri alti ufficiali). Nel settembre dello stesso anno fu collocato a riposo.
• Nel dopoguerra continuò l’altalena di giudizi: i nazionalisti e alcuni giornali, tra i quali il Corriere della Sera, ne volevano la riabilitazione, fascisti, giolittiani, popolari e sinistre no. Il 4 dicembre 1924 Mussolini, volendo por fine alle discussioni, nominò Cadorna e Diaz marescialli d’Italia.
• Figura controversa, anche a prescindere dalla sconfitta di Caporetto: «(…) Le truppe furono addestrate solo all’attacco frontale in masse compatte, senza conoscere né avvolgimento né infiltrazione, le grandi unità insufficientemente amalgamate per i continui scambi di reparti e per i siluramenti, trasferimenti e promozioni di alti ufficiali, troppi comandanti giudicati solo sull’energia con cui sapevano ributtare truppe esauste a un ennesimo assalto. (…) Chiuso in una aristocratica concezione del dovere, non comprendeva tutte le esigenze molteplici del nuovo esercito formato da milioni di soldati semimprovvisati; aveva del combattente e della sua disciplina una concezione troppo rigida e astratta (…). Tremendamente solo nella condotta della guerra: il dogma dell’unità di comando lo portava infatti a non volere intorno a sé collaboratori troppo autorevoli, con i quali suddividere le responsabilità, e a non accettare controlli né consigli, neppure quelli assai timidi del re». Accanto a questi limiti «è però necessario riconoscergli la grandezza della fede, l’ampiezza della visione strategica, la cognizione delle necessità della guerra moderna e infine l’energia con cui condusse due anni e mezzo di sanguinosi combattimenti» [Rochat, Dizionario biografico degli italiani, Treccani 1973].
• Dalla moglie Giovanna Balbi ebbe tre figli: Maria Clementina (Clea), Carla, un figlio, Raffaele (1889-1973), che fece una brillante carriera militare, fino a ricoprire dal 1945 al 47 un incarico analogo a quello del padre: capo di stato maggiore dell’esercito.