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 2014  aprile 28 Lunedì calendario

Quei servitori dello stato (articolo del 30/9/1984)

La Repubblica, domenica 30 settembre 1984
Dopo i cinquecento della camorra i trecentosessantasei della mafia: una delinquenza di scala, di grandi numeri, impone a una giustizia malandata ma battagliera, sfide e scommesse sempre più pesanti. Mi dicono sia in corso lo smistamento dei prigionieri a mezzo di ponte aereo tra Palermo e Pisa: mafiosi aerotrasportati, mafiosi pentiti che cantano, dieci giudici che firmano i mandati di cattura, cose in grande, cose all’americana, fatte chissà come da questi nostri amici giudici di prima linea, i Falcone e gli altri a cui va la nostra affettuosa gratitudine. Un’operazione di queste dimensioni è in corso evidentemente da mesi e, per certe indagini, da anni.

  È pure difficile non vedervi la risposta dei giudici onesti alla immeritata onta che giudici disonesti hanno inflitto di recente alla corporazione in Sicilia. Come per dire alla pubblica opinione: i servitori dello Stato coraggiosi e capaci ci sono ancora, la rete mafiosa è sempre più ricca e potente eppure alcuni giudici che da anni fanno vita di carcerato e a volte di clandestino, o trincerati negli uffici bunker del palazzo di giustizia o in corsa su macchine blindate e scortate come se vivessero in un paese in guerra perenne, ci sono ancora. Giudici sottoposti giorno dopo giorno alle ironie, alle allusioni, alle diffamazioni della cultura mafiosa che usa con essi gli stessi metodi usati con Dalla Chiesa: «Rovinano l’economia siciliana», «Ma che si credono, di recitare la sfida infernale?», «Se facessimo il conto di quel che costa in auto e scorte un giudice così!».

  Ho visto Falcone e gli altri al lavoro a Palermo e a Milano. Perché è gente di prima linea che va a interrogare i testimoni e i sospetti dove stanno, con viaggi faticosi, con pazienza da certosino. Magistrati di cui possiamo essere fieri. Resta da capire come finirà questa sfida impari tra la giustizia dei pochi e valorosi contro la delinquenza dalle mille complicità. Trecentosessantasei imputati sono troppi e pochi al tempo stesso. Troppi per poter istruire un processo rapido e giusto, pochi rispetto alle dimensioni del fenomeno mafioso. Troppi per le nostre carceri, i nostri uffici d istruzione, le nostre assise, pochi se confrontati con le dimensioni dell’economia mafiosa, delle cento banche di Trapani mafiose o paramafiose o comunque amiche degli amici; pochi di fronte al giro colossale del vino, della droga, dei contributi Cee.

  Mi dicono che i 366 devono rendere conto di quattordici anni di mafia, gli ultimi i più sanguinosi. L’elenco dei «cadaveri eccellenti» è impressionante: persone con cui abbiamo lavorato, amici. Il povero De Mauro e poi Basile, Russo, Boris Giuliano, Pio La Torre, Chinnici, Mattarella e il generalone Dalla Chiesa e gli altri a centinaia incaprettati con il sasso in bocca; e le maschere d’infamia sorridente dei protettori politici intoccati, anche se avevano riempito dei loro nomi e dei loro misfatti centinaia di pagine della commissione antimafia; e la Palermo disperata e nera del quartiere Brancaccio e quella stupenda e tragica degli orti e dei giardini. Gli aranceti dei Greco risalivano per chilometri lungo le terre nere sulle rive delle fiumare; nella loro villa settecentesca donne corpulente vestite di nero guardavano con occhi impenetrabili poliziotti e giornalisti. Sembrava davvero impossibile rompere il muro dell’omertà. Eppure, questa volta i giudici coraggiosi ci sono riusciti, Buscetta e altri hanno parlato.

Forse perché Falcone e gli altri questa volta sono riusciti a penetrare nel meccanismo mafioso e a scoprire i punti fragili, gli anelli deboli. Comunque, una buona notizia dopo tante notizie amare e deludenti. La prima vera dura incisiva risposta dello Stato dopo il lungo periodo di silenzio e di impotenza seguito all’assassinio di Dalla Chiesa. La mafia non è morta ma questa volta l’hanno colpita duramente.

Giorgio Bocca