Corriere della Sera, martedì 15 agosto 2000, 23 aprile 2014
Tags : La Grande Guerra
Nicola II, il sovrano debole
Corriere della Sera, martedì 15 agosto 2000
Nella cripta della chiesa moscovita di Cristo Salvatore, dove il Sinodo della Chiesa ortodossa ha solennemente proclamato ieri la canonizzazione di Nicola II, erano appesi alle pareti, quando vi andai l’ultima volta, alcuni ritratti recentemente dipinti della famiglia imperiale. In uno di essi, intitolato «L’ultima sera», Nicola è in piedi accanto a una finestra, il corpo chiuso nella blusa bianca che indossava abitualmente verso la fine della sua vita, gli occhi assorti, una sigaretta dimenticata fra le dita della mano destra. È solo, ma in basso a destra spunta dalla cornice, come la coda del serpente dall’abito della Vergine in certe rappresentazioni barocche, un segno diabolico: il berretto a punta di una guardia rossa. Intorno alla testa non vi è ancora l’ombra luminosa di un’aureola, ma il volto è soffuso di santità, i lineamenti ricordano quelli di Cristo nella pittura neobizantina dell’ultimo Ottocento, il titolo del quadro ricorda l’«ultima cena» e la guardia rossa è il Giuda inviato da Lenin che ha lungamente illuso i membri della famiglia imperiale sulla loro imminente liberazione. Il quadro appartiene a una sorta di culto informale che si è andato progressivamente affermando nella società russa durante gli anni Novanta.
La canonizzazione decisa ieri dalla Chiesa è probabilmente un «atto notarile», la ratifica di una tendenza diffusa tra i fedeli e il piccolo clero a cui sarebbe stato inutile opporre obiezioni. Ma le perplessità e i dubbi sono stati certamente numerosi. Nicola non è un protagonista eroico e cosciente della grande tragedia che ha sconvolto la Russia durante il Novecento. È un uomo debole, sopraffatto dagli avvenimenti, costretto a recitare una parte per cui non è tagliato. Alla morte del padre, nel novembre del 1894, ha 26 anni. I primi dieci anni del regno sono il periodo più fortunato della sua vita. Grazie ai prestiti francesi e alla intelligente politica di un brillante ministro (Sergej Vitte), la Russia comincia a dare segni di grande dinamismo economico. La costruzione di una moderna rete ferroviaria e l’aumento delle esportazioni (cereali, legno, qualche minerale pregiato) creano le condizioni per il decollo industriale del Paese. Nicola, in questo periodo, lega il proprio nome alla conferenza che si tiene all’Aja, dal maggio al luglio del 1899, per la soluzione pacifica delle controversie internazionali e la riduzione degli armamenti. Ma il progresso accelera alcuni fenomeni presenti nella società russa sin dagli anni precedenti: la nascita del proletariato industriale, la formazione di un’intelligencija rivoluzionaria, la costituzione di nuovi movimenti politici, la domanda di libertà e di rappresentanza.
Di fronte a queste nuove realtà sociali Nicola si ripara dietro il dogma dell’autocrazia zarista. Non è lui lo «zar liberatore», capace d’intravedere, come Alessandro II quarant’anni prima, la svolta politica di cui la Russia ha bisogno per divenire un paese moderno. Con la guerra russo-giapponese le fortune di Nicola cominciano a declinare. L’impero subisce una duplice sconfitta: negli stretti di Tsushima, dove la flotta russa viene annientata dalla flotta giapponese, e a Pietroburgo, dove una rivoluzione costringe lo zar a concedere una Duma elettiva, dotata di poteri legislativi. Potrebbe essere l’inizio di una fase nuova. Ma negli anni seguenti Nicola cede alla pressione degli ambienti più conservatori e riduce progressivamente la portata delle concessioni fatte con il manifesto dell’ottobre 1905.
Nove anni dopo scoppia la Grande guerra. Non sarebbe storicamente giusto attribuirgli le responsabilità del conflitto, ma la sua debolezza contribuisce agli errori strategici dello Stato maggiore e alle tragiche sconfitte dell’esercito. In questa fase Nicola non è amato né dal popolo né dall’aristocrazia. Il popolo gli rimprovera gli orrori della guerra (5 milioni e mezzo di morti fra il 1914 e il 1917), l’aristocrazia gli rimprovera l’arrogante influenza che un monaco libidinoso, Rasputin, esercita sulla famiglia imperiale.
Travolto dagli avvenimenti lo zar si rifugia nella cerchia degli affetti famigliari. Pochi sovrani hanno adorato la moglie e i figli quanto Nicola II. Pochi sovrani sono stati altrettanto amorosi e devoti. Quando scoppia la rivoluzione di febbraio nel 1917 coloro che conoscono l’ultimo Romanov intuiscono il sospiro di sollievo con cui firma l’atto di abdicazione. Chi voglia avere qualche notizia sui mesi della prigionia può leggere il suo ultimo diario, pubblicato in Italia dall’editore Leonardo nel 1991 a cura di Monica Bottazzi. Circondato dai famigliari, occupato da qualche buona lettura e dalle cure dell’anima, Nicola dovette trascorrere paradossalmente il periodo più felice della sua vita. Sino al giorno del luglio 1918 in cui 12 guardie rosse, con una raffica di colpi di pistola, uccisero lui, la zarina, i cinque figli, il fedele dottor Botkin e quattro servitori nello scantinato della casa del mercante Ipatev a Ekaterinburg che Boris Eltsin, prima di succedergli sul trono del Cremlino, aveva fatto distruggere. Nicola era divenuto, inconsapevolmente, il protomartire della religione ortodossa agli inizi del flagello bolscevico. Per questo la Chiesa ortodossa lo ha canonizzato.
Nella cripta della chiesa moscovita di Cristo Salvatore, dove il Sinodo della Chiesa ortodossa ha solennemente proclamato ieri la canonizzazione di Nicola II, erano appesi alle pareti, quando vi andai l’ultima volta, alcuni ritratti recentemente dipinti della famiglia imperiale. In uno di essi, intitolato «L’ultima sera», Nicola è in piedi accanto a una finestra, il corpo chiuso nella blusa bianca che indossava abitualmente verso la fine della sua vita, gli occhi assorti, una sigaretta dimenticata fra le dita della mano destra. È solo, ma in basso a destra spunta dalla cornice, come la coda del serpente dall’abito della Vergine in certe rappresentazioni barocche, un segno diabolico: il berretto a punta di una guardia rossa. Intorno alla testa non vi è ancora l’ombra luminosa di un’aureola, ma il volto è soffuso di santità, i lineamenti ricordano quelli di Cristo nella pittura neobizantina dell’ultimo Ottocento, il titolo del quadro ricorda l’«ultima cena» e la guardia rossa è il Giuda inviato da Lenin che ha lungamente illuso i membri della famiglia imperiale sulla loro imminente liberazione. Il quadro appartiene a una sorta di culto informale che si è andato progressivamente affermando nella società russa durante gli anni Novanta.
La canonizzazione decisa ieri dalla Chiesa è probabilmente un «atto notarile», la ratifica di una tendenza diffusa tra i fedeli e il piccolo clero a cui sarebbe stato inutile opporre obiezioni. Ma le perplessità e i dubbi sono stati certamente numerosi. Nicola non è un protagonista eroico e cosciente della grande tragedia che ha sconvolto la Russia durante il Novecento. È un uomo debole, sopraffatto dagli avvenimenti, costretto a recitare una parte per cui non è tagliato. Alla morte del padre, nel novembre del 1894, ha 26 anni. I primi dieci anni del regno sono il periodo più fortunato della sua vita. Grazie ai prestiti francesi e alla intelligente politica di un brillante ministro (Sergej Vitte), la Russia comincia a dare segni di grande dinamismo economico. La costruzione di una moderna rete ferroviaria e l’aumento delle esportazioni (cereali, legno, qualche minerale pregiato) creano le condizioni per il decollo industriale del Paese. Nicola, in questo periodo, lega il proprio nome alla conferenza che si tiene all’Aja, dal maggio al luglio del 1899, per la soluzione pacifica delle controversie internazionali e la riduzione degli armamenti. Ma il progresso accelera alcuni fenomeni presenti nella società russa sin dagli anni precedenti: la nascita del proletariato industriale, la formazione di un’intelligencija rivoluzionaria, la costituzione di nuovi movimenti politici, la domanda di libertà e di rappresentanza.
Di fronte a queste nuove realtà sociali Nicola si ripara dietro il dogma dell’autocrazia zarista. Non è lui lo «zar liberatore», capace d’intravedere, come Alessandro II quarant’anni prima, la svolta politica di cui la Russia ha bisogno per divenire un paese moderno. Con la guerra russo-giapponese le fortune di Nicola cominciano a declinare. L’impero subisce una duplice sconfitta: negli stretti di Tsushima, dove la flotta russa viene annientata dalla flotta giapponese, e a Pietroburgo, dove una rivoluzione costringe lo zar a concedere una Duma elettiva, dotata di poteri legislativi. Potrebbe essere l’inizio di una fase nuova. Ma negli anni seguenti Nicola cede alla pressione degli ambienti più conservatori e riduce progressivamente la portata delle concessioni fatte con il manifesto dell’ottobre 1905.
Nove anni dopo scoppia la Grande guerra. Non sarebbe storicamente giusto attribuirgli le responsabilità del conflitto, ma la sua debolezza contribuisce agli errori strategici dello Stato maggiore e alle tragiche sconfitte dell’esercito. In questa fase Nicola non è amato né dal popolo né dall’aristocrazia. Il popolo gli rimprovera gli orrori della guerra (5 milioni e mezzo di morti fra il 1914 e il 1917), l’aristocrazia gli rimprovera l’arrogante influenza che un monaco libidinoso, Rasputin, esercita sulla famiglia imperiale.
Travolto dagli avvenimenti lo zar si rifugia nella cerchia degli affetti famigliari. Pochi sovrani hanno adorato la moglie e i figli quanto Nicola II. Pochi sovrani sono stati altrettanto amorosi e devoti. Quando scoppia la rivoluzione di febbraio nel 1917 coloro che conoscono l’ultimo Romanov intuiscono il sospiro di sollievo con cui firma l’atto di abdicazione. Chi voglia avere qualche notizia sui mesi della prigionia può leggere il suo ultimo diario, pubblicato in Italia dall’editore Leonardo nel 1991 a cura di Monica Bottazzi. Circondato dai famigliari, occupato da qualche buona lettura e dalle cure dell’anima, Nicola dovette trascorrere paradossalmente il periodo più felice della sua vita. Sino al giorno del luglio 1918 in cui 12 guardie rosse, con una raffica di colpi di pistola, uccisero lui, la zarina, i cinque figli, il fedele dottor Botkin e quattro servitori nello scantinato della casa del mercante Ipatev a Ekaterinburg che Boris Eltsin, prima di succedergli sul trono del Cremlino, aveva fatto distruggere. Nicola era divenuto, inconsapevolmente, il protomartire della religione ortodossa agli inizi del flagello bolscevico. Per questo la Chiesa ortodossa lo ha canonizzato.
Sergio Romano