22 aprile 2014
Tags : Leonida Bissolati
Biografia di Leonida Bissolati
Cremona 20 febbraio 1857 – Roma 6 maggio 1920. Politico, giornalista. Deputato per sette legislature, socialista. Tra i fondatori del Partito socialista riformista italiano.• Nacque dal canonico Stefano Bissolati e da Paolina Caccialupi, sposata con Demetrio Bergamaschi. Il padre naturale visse poi una tormentata crisi di coscienza, motivata soprattutto dall’atteggiamento della Chiesa nei confronti dei moti risorgimentali, che lo portò nel 1861 a svestire l’abito talare (diventerà poi direttore della biblioteca comunale di Cremona). Quattro anni dopo, morto Bergamaschi da tempo malato, Stefano Bissolati sposò la madre di suo figlio e adottò il bambino. Bissolati adolescente frequentò il liceo classico di Cremona, dove ebbe per compagno Filippo Turati, quindi si iscrisse all’università, a Giurisprudenza, prima a Pavia poi a Bologna. Ancora studente, cominciò l’attività giornalistica, con collaborazioni a periodici di orientamento repubblicano. Si laureò a vent’anni, nel 1877, con una tesi sul diritto d’autore.
• Dopo il servizio militare, nel 1879 tornò a Cremona e prese ad alternare l’attività politica con il lavoro di avvocato presso lo studio legale del cugino, Ettore Sacchi. Con lui, nel giugno di quell’anno, fondò il circolo Carlo Cattaneo: nel programma una serie di riforme del sistema politico e sociale a carattere democratico e progressista. Nel 1880 fu eletto consigliere comunale in una lista radicale, nell’82 entrò in giunta come assessore all’Istruzione e diventò direttore del Torrazzo, settimanale dell’estrema sinistra lombarda. Si avvicinò quindi al socialismo, e dalle colonne del suo giornale «cominciò ad accettare la dialettica della lotta di classe. (…) Riteneva possibile la collaborazione tra movimento operaio e democrazia progressista borghese nelle città (…). Invece, per l’elevazione delle classi contadine, alle quali ora cominciava a dedicare prevalentemente la propria attività, riteneva necessaria una politica rigorosamente classista, dato che esse erano molto più arretrate dei ceti operai urbani» [Angelo Ara, Dizionario biografico degli italiani, Treccani 1968].
• Nel 1885 sposò Ginevra Coggi, che morì di tisi nel 1894. Più tardi si unì a Carolina Cassola, sposata in seconde nozze nel 1913.
• Nel 1886 scrisse lo studio I contadini del circondario di Cremona (vi proponeva di abolire il sistema dell’affitto e di affidare la coltivazione della terra ad associazioni cooperative contadine), tra il 1889 e il 1895 organizzò le agitazioni contadine e le lotte sociali per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro nelle campagne. Nel 1889 fondò il settimanale L’eco del popolo, d’impronta più chiaramente socialista. Dalle posizioni rigide degli inizi, tuttavia, nel corso degli anni passò a un approccio più moderato. Al congresso dei socialisti lombardi, nell’aprile del 1896, in vista delle nuove elezioni prospettò l’eventualità di appoggiare anche candidati di altre forze democratiche qualora avessero accettato almeno in parte il programma socialista, ma la sua linea non passò.• Primo direttore del nuovo quotidiano del partito, l’Avanti!: gliene affidarono la guida il 1° novembre 1896. Si trasferì quindi da Milano a Roma.
• Nel 1897 fu eletto deputato per il collegio di Pescarolo (Cremona). Nel maggio 1898 fu arrestato a Milano, dov’era andato per seguire da vicino la rivolta scoppiata nel capoluogo lombardo. Lasciata la direzione dell’Avanti! a Enrico Ferri, la riprese in settembre quando la Camera negò l’autorizzazione a procedere. Dalle colonne del giornale guidò la campagna contro l’involuzione reazionaria (la rivolta di Milano si era conclusa con l’eccidio di Bava Beccaris) e in Parlamento fu tra i più attivi protagonisti dell’ostruzionismo parlamentare con cui l'estrema sinistra si oppose alle leggi antidemocratiche proposte dal Pelloux.
• Privato dell’immunità per lo scioglimento anticipato del Parlamento, si rifugiò momentaneamente a Modane. Confermato deputato nel 1900 dopo un’elezione suppletiva, proseguì sulla sua linea riformista e di collaborazione con altre forze politiche: «Riteneva che alla causa socialista giovasse non tanto l’astratta propaganda dei principi assoluti, quanto l’appoggio a riforme che elevassero la condizione umana del proletariato» [Ara, cit.]). Visti i contrasti nascenti all’interno del partito, nel 1903 lasciò la direzione dell’Avanti!. Al congresso Di Bologna del 1904 si presentò come leader della corrente riformista, ma la sua linea risultò vincente solo al congresso di Firenze del 1908. E in virtù di quel successo tornò alla direzione del giornale. Che abbandonò nuovamente nei giorni del congresso di Milano del 1910, durante il quale definì il partito «un ramo secco», preferendogli il sindacato e prefigurando la costituzione di un partito del lavoro sul modello inglese.
• Si impegnò a fondo nella battaglia per il suffragio universale. Contrastando la posizione assunta dal partito, non si oppose ai crediti militari e nel 1911-12 il suo atteggiamento nei confronti della guerra di Libia, pur critico, fu nel complesso solidale verso il ministero: «Riteneva controproducente isolarsi in un atteggiamento antipatriottico; voleva soprattutto evitare di danneggiare, con un’opposizione troppo rigida alla guerra, la situazione politica generale e particolarmente la concessione del suffragio universale» (Angelo Ara).
• La frattura con il partito era ormai insanabile. L’occasione per la rottura definitiva fu la sua iniziativa di unirsi a colleghi di altri gruppi parlamentari per congratularsi con il re Vittorio Emanuele, uscito illeso da un attentato il 14 marzo 1912. Congresso di Reggio Emilia, 8 luglio 1912: la visita al Quirinale si inquadrava «in una situazione completamente deteriorata dalla guerra di Libia e dalla decisione del partito di ritirare l’appoggio al governo Giolitti. Dunque era concepita come una dissociazione netta di linea politica, sancita peraltro col suggello di un atto così teatralmente simbolico. I riformisti di destra sfilarono come condannati a morte sul palco degli oratori, dinanzi a una platea di delegati prevalentemente orientata alla loro espulsione. (…) Bissolati, che parlò il terzo giorno, e che venne accolto con rispetto anche se poi violentemente contestato (…) disse che era rammaricato di non aver accettato il ministero perchè “oggi la guerra non ci sarebbe stata o non si sarebbe fatto l’infausto decreto che impedisce la pace”. Ma ormai il vero protagonista del congresso era diventato un giovane romagnolo che già a Milano, nel congresso del 1910, aveva impressionato per la sua capacità oratoria (…). Si chiamava Benito Mussolini. (…) Mussolini volle precisare che il regicidio era “un infortunio del mestiere di re”, definito “il cittadino più inutile per definizione” e attaccò a fondo il parlamentarismo e anche il suffragio universale e concluse con la famosa frase: “Bissolati, Cabrini, Bonomi, e gli altri aspettanti, possono andare al Quirinale, anche al Vaticano, se vogliono, ma il Partito socialista dichiari che non è disposto a seguirli né oggi, né domani né mai”. Mussolini presentò il suo ordine del giorno che sanciva l’espulsione dei quattro e che alla fine venne votato a maggioranza». [Mauro Del Bue, locchiodelbue.it]
• «Il giorno successivo all’espulsione si costituì il Partito socialista riformista; il suo programma contemplava la partecipazione al potere come fatto normale e non come situazione eccezionale, il rifiuto della pregiudiziale pacifista in politica internazionale e il concetto che le alleanze con gli altri partiti democratici dipendevano solo dalla convergenza degli obiettivi politici immediati» [Ara, cit.].
• Nel 1914, allo scoppio della guerra in Europa, quando si prospettava un eventuale intervento dell’Italia a fianco degli imperi centrali, suoi alleati, fu sulle prime neutralista (era assai diffidente rispetto al socialismo austro-tedesco). Poi fu tra i più accesi sostenitori dell’intervento a fianco dell’Intesa. Per lui «il conflitto europeo era un contrasto etico-politico tra stati autoritari e stati democratici, e in questo quadro il compito dell’Italia non era tanto quello di soddisfare il proprio interesse nazionale, quanto quello di contribuire alla causa della libertà e all’avvento di una più civile convivenza tra i popoli» [Ara, cit.].
• Quando l’Italia entrò in guerra si arruolò volontario, sergente degli alpini. Combatté sul Monte Nero, nel luglio 1915 fu ferito due volte. Continuò comunque a tenere i rapporti con il Parlamento e nel giugno 1916 fu chiamato nel governo Boselli come ministro senza portafogli: il suo compito era quello di fare da collegamento tra il governo e il comando supremo al fronte.
• Il 29 ottobre 1916, durante una commemorazione di Cesare Battisti a Cremona, criticò il socialismo italiano, che si era opposto a quella che lui riteneva una guerra di liberazione europea, e indicò come uno dei principali obiettivi del conflitto la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico a favore di nuovi stati nazionali indipendenti (nessun uomo politico dell’Intesa si era fino a quel momento esposto con una dichiarazione così esplicita).
• Visse in modo drammatico, sul piano personale, la disfatta di Caporetto, fino a esprimere propositi suicidi, vittima dei sensi di colpa dovuti al suo interventismo. Lo stretto rapporto instaurato con Cadorna gli fece anche condividere in parte i suoi giudizi sprezzanti sul comportamento dell’esercito italiano. Nel maggio 1918 aderì alla neonata Unione socialista italiana. Nel frattempo si acuirono i suoi contrasti all’interno dell’esecutivo con il ministro degli Esteri Sonnino (principalmente sul problema dei nuovi confini nazionali e sui rapporti con gli iugoslavi): il 28 dicembre 1918 si dimise dal governo.
• L’11 gennaio 1919 si rivolse direttamente all’opinione pubblica, al Teatro alla Scala di Milano, per spiegare i motivi del suo dissenso, ma un folto gruppo di nazionalisti, futuristi e facinorosi guidati da Mussolina gli impedirono di portarlo a termine. Si seppe poi dai giornali che proponeva un confine basato su principi etnici con la Iugoslavia, lasciando ad essa la Dalmazia, tranne Zara, e rivendicando invece all’Italia, in base al principio di nazionalità, Fiume; ma pensava anche di rinunziare al Dodecaneso e al Tirolo meridionale. Le sue proposte caddero nel vuoto, la sua carriera politica finì di fatto quel giorno alla Scala, anche se nel novembre 1919 fu eletto ancora una volta deputato, nel suo vecchio collegio di Pescarolo (e Mussolini, nonostante la rottura, ordinò ai fascisti cremonesi di far confluire i voti su di lui). L’anno successivo morì a Roma per un’infezione post-operatoria.