Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  marzo 12 Mercoledì calendario

Stamattina Matteo Renzi presenta in consiglio dei ministri il famoso Jobs Act, ovvero la Legge sui Lavori, detta però in inglese in modo da apparire più moderna

Stamattina Matteo Renzi presenta in consiglio dei ministri il famoso Jobs Act, ovvero la Legge sui Lavori, detta però in inglese in modo da apparire più moderna. Le agenzie e i giornali, mentre assicurano che il premier ha preteso da tutti la discrezione più assoluta, hanno invaso come al solito le scrivanie di noi redattori di anticipazioni, rivelazioni e analisi su un testo che a rigore ancora non esiste. E quindi c’è già una dura opposizione dichiarata sia da parte dei sindacati che della Confindustria. Questo buffo balletto non può essere ignorato, perché se forse le anticipazioni e gli scoop dei vari bene-introdotti sono bufale, le polemiche sono vere e cioè esiste una vera, dura opposizione della Confindustria e soprattutto della Cgil - a cui si sono aggregati Cisl e Uil - che sembrano avercela prima ancora che con le misure in quanto tali con il renzismo in sé, trattato come una malattia senile del vecchio socialismo o socialiberalismo (il comunismo è dato generalmente per morto da tutti, a parte Berlusconi).

Ho come l’impressione che non stiamo parlando di niente. Dica anche a noi, prima di tutto, qualcosa su questo Jobs Act, di cui m’immagino parleremo diffusamente domani.
Mi limiterò a far sapere a lei e ai lettori che questa riforma del lavoro sarebbe imperniata su cinque punti: tagli alla spesa pubblica, nuovi ammortizzatori sociali, contratto unico di lavoro, taglio dell’Irpef con detrazioni fiscali fisse, agenzia unica per il lavoro.  

Che cos’è che non va bene ai sindacati? Che cos’è che non va bene alla Confindustria?
L’opposizione della Confindustria è più semplice da spiegare. Nelle casse dello Stato sarebbero disponibili una decina di miliardi. I nostri partiti, appena hanno in mano qualche lira, sono abituati a distribuirla subito, pensando così di guadagnar voti. Massime quando ci sono elezioni alle viste come in questo caso (le Europee del 25 maggio, come minimo). Quindi Renzi, in questo non diverso dai suoi predecessori, vuole distribuire questi dieci miliardi. Come, però? Prodi, quando era al governo, si trovò con un problema simile, e Rifondazione che martellava per il «risarcimento sociale». A sua volta, anche allora, la Confindustria digrignava i denti. Prodi si decise perciò a dividere i 7,5 miliardi dandone un po’ a questi e un po’ a quelli. Il risultato fu che nelle tasche di tutti - aziende e lavoratori - arrivarono talmente pochi soldi che nessuno s’accorse del beneficio. Stavolta gli esperti hanno consigliato a Renzi di concentrare l’intervento in una sola direzione: dare i dieci miliardi o tutti alle imprese - per esempio tagliando l’Irap - o tutti ai lavoratori - per esempio tagliando l’Irpef, cioè le trattenute in busta paga. Renzi ci ha pensato parecchio e alla fine ha deciso di tagliare l’Irpef, cioè il cuneo fiscale, cioè le trattenute. Non sappiamo ancora la fascia di lavoratori che sarà aiutata dal provvedimento. Se ci si limitasse a tagliare il cuneo di quelli che guadagnano meno di 15 mila euro l’anno, costoro si troverebbero in busta paga 200 euro, cioè una bella somma. Aver fatto fuori le aziende ha irritato parecchio gli industriali. È comprensibile.  

Questa spiegazione rende ancora più oscura l’irritazione di Cgil, Cisl e Uil.
Qui c’è intanto un fatto formale, che però alla fine diventa sostanziale. In questo Jobs Act sono stati coinvolti Tito Boeri, Pietro Garibaldi, Stefano Sacchi, Marco Leonardi, Roberto Perotti, Pietro Reichlin e ancora tanti altri: tecnici, politologi, economisti. Neanche un sindacalista, di nessuna delle organizzazioni principali. È un vulnus grave per uomini e donne che rimpiangono ancora il ‘93 e la concertazione, epoche in cui non si moveva foglia che il sindacato non volesse. Ma ha cominciato Monti, a tenere i tre segretari in panchina, e Renzi sembra intenzionato a fare ancora peggio: come si dice a Roma, non li vede proprio.  

Come si spiega?
Il presidente del Consiglio sente che Cgil, Cisl e Uil sono vissuti dal Paese come apparati semiparassitari, sempre meno rappresentativi, sempre più distanti dalle realtà del lavoro. Non hanno più neanche capacità di mobilitazione. La sua battuta a Che tempo che fa
 («i sindacati ci sono contrari? Ce ne faremo una ragione») è stata accolta da un lungo, sentito applauso, da parte di un pubblico che è per definizione vicino al Partito democratico su una rete che è appaltata al Partito democratico.   • I contenuti del Jobs Act non c’entrano?
C’entrano anche quelli. Il “contratto unico” per la Cgil è una bestemmia. La revisione degli ammortizzatori sociali con la progressiva sterilizzazione della cassa in deroga è un colpo al potere di mediazione sindacale, che la cassa garantisce. Idem per l’assegno di disoccupazione uguale per tutti, sul cui governo il sindacato non avrebbe alcun potere. E poi c’è l’articolo 18, a quanto pare accantonato per i neoassunti: un colpo d’immagine, per i vecchi apparati, quasi insopportabile.