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 2014  febbraio 26 Mercoledì calendario

Biografia di Angelo Stazzi

• 25 dicembre 1945. Infermiere. Detto l’«Angelo della morte». Già omicida confesso di una donna (l’amante) e per questo detenuto dall’ottobre 2009 nel carcere di Regina Coeli (è stato condannato a 24 anni), è accusato di aver ucciso almeno altre sette volte, cinque donne e due uomini tra i 70 e i 90 anni, nella casa di cura Villa Alex di Sant’Angelo Romano (Tivoli). Il processo è in corso.
• «I suoi “vecchietti”. Quelli che accudiva e massaggiava nelle corsie e nei giardini della casa di riposo Villa Alex, a Sant’Angelo Romano. Quelli che se ne sono andati uno dopo l’altro in neppure un anno, tra il 2008 e il 2009, non perché così avesse deciso il Padreterno, ma l’ago di Angelo e le sue overdose di insulina. E per che cosa poi? Per i 50 euro a cadavere – lo accusano – che le pompe funebri riconoscono a chi agevola la vendita di una cassa da morto e di un degno funerale. Per i due, tre biglietti da 20 che un figlio o una figlia, con riconoscenza, mettono in mano a chi veste per l’ultima volta un padre o una madre. (...) Angelo dice: “Mi fanno ridere. Io ho commesso un solo omicidio. Io conosco il nome del serial killer che cercano. E l’ho consegnato al mio avvocato”. Dunque? Come sono andate le cose? E chi diavolo è davvero Angelo Stazzi? Raccontano le carte dell’inchiesta che sia cominciato tutto a Montelibretti. Il 25 marzo del 2001. Angelo ha una moglie e due figlie. Cinque anni prima si è licenziato dal Policlinico Gemelli dove ha lavorato per ventisei anni come infermiere. Non c’è reparto che i suoi zoccoli non abbiano attraversato. Ha cambiato migliaia di flebo e pappagalli. A vederlo lo diresti un uomo mansueto, remissivo. Una faccia rassicurante. Dei modi premurosi. Al Gemelli, Angelo ha visto nascere e morire. Ha assistito chirurghi di chiara fama in sala operatoria. È un tipo a posto, dicono i più. “È un traffichino”, sostiene (...) con il senno di poi, qualcun altro che ancora lavora in ospedale. Con un’inclinazione naturale all’avidità. Frequenta un concessionario non lontano dal Policlinico dove, pare, arrotondi lo stipendio. E parla spesso dei soldi che non ha con la stessa passione (o ossessione) che dimostra per le donne che dice di frequentare con compiaciuta promiscuità. È un militante di Forza Italia, o almeno così sostiene a chi glielo chiede, e a Montelibretti, dove vive, lavora a una lista civica di centrodestra. Nel 2001, Angelo lavora in proprio come infermiere professionale e del suo passato al Gemelli trascina solo un fardello di cui non sa come liberarsi. È una donna di 58 anni, infermiera come lui, che di nome fa Maria Teresa Dell’Unto. Si sono conosciuti in corsia. Hanno avuto una lunga relazione “impossibile” (Maria Teresa è stata a lungo sposata, prima di rimanere vedova). E come già gli è accaduto e come ancora gli accadrà con le sue donne, Angelo munge Maria Teresa dei suoi risparmi. Nel 2000, l’ha convinta a garantire per lui rate per 14 milioni e mezzo di lire necessarie ad acquistare la cucina della casa di Montelibretti in cui lui vive con la moglie. E in quella cucina, il 25 marzo del 2001, mentre la moglie è fuori casa, la attira e la uccide. Un delitto che per otto anni, fino al 29 ottobre del 2009, rimarrà insoluto (Angelo ne è sospettato già nel 2005, ma un gip ritiene che le prove a suo carico non siano sufficienti) e che la tenacia del procuratore aggiunto Pietro Saviotti e del capo della Mobile Vittorio Rizzi risolvono forti di prove schiaccianti (i tabulati telefonici del giorno dell’omicidio, la fede di Maria Teresa sfilata dal suo anulare e infilata in quello di un nuovo amore di Angelo; l’uso del bancomat della vittima nei giorni successivi alla sua morte, la messa in scena di telegrammi a firma Maria Teresa spediti da Torino per simulare una fuga). Angelo confessa. “È vero – dice una volta arrestato nel 2009 – Maria Teresa l’ho uccisa io”. Ma quel che rileva è come confessa. Perché il modo dice forse qualcosa di lui. Indica agli investigatori un terreno nella zona di Aguillara, sulle rive del lago di Bracciano, dove sostiene di averla sepolta. “Ci eravamo appartati per fare l’amore. Avevo deciso di ucciderla. Prima l’ho accoltellata e quindi l’ho finita con un colpo di badile”. È una frottola. Anche se ben sceneggiata. Quando da quel campo che Angelo ha indicato e la polizia ara per un giorno intero cominciano ad emergere delle ossa, si lascia andare a un pianto inconsolabile. Peccato sia solo la carcassa di una pecora. Lui, allora, sprofonda per settimane in un lungo silenzio e alla fine – è il dicembre 2009 – si decide. “L’ho uccisa nella mia casa di Montelibretti. Abbiamo litigato perché lei voleva raccontare a tutti della nostra storia. L’ho colpita con uno schiaffo. Lei ha battuto la testa ed è morta. Ho sepolto il corpo sotto il pollaio”. Il pollaio di Montelibretti restituisce le povere spoglie di Maria Teresa. E i guai di Angelo cominciano. Lui non può saperlo, ma per un anno intero prima del suo arresto (dal 2008 al 2009), i suoi telefoni sono stati ascoltati. Dopo sette anni di buco, in quel 2008 di intercettazioni, gli investigatori lo hanno sorpreso in una nuova vita rispetto a quella dell’omicidio di Maria Teresa. Angelo è diventato vedovo (la moglie è stata stroncata da un tumore), e non deve più nascondere la sua passione per le donne. Convive con una rumena di mezza età con cui ha trovato una nuova casa sempre a Montelibretti, mentre ha almeno un’altra relazione stabile con un’ucraina cui non fa regali, ma chiede spesso prestiti. Soprattutto – come accerta una perizia psichiatrica disposta dalla procura di Roma – ha conservato e persino affinato le sue capacità manipolatorie. Nel sentirlo discutere con le sue donne e i suoi amici, gli investigatori lo sorprendono bugiardo anche sul superfluo. Smonta e rimonta la realtà popolandola di individui che è convinto possa muovere come burattini. Ha trovato da tempo un lavoro fisso tra Guidonia e Sant’Angelo, come infermiere professionale nella casa di riposo Villa Alex. Un edificio di tre piani circondato da un grande giardino e una piscina. Venti posti letto, camere doppie e singole, un ambulatorio, una grande sala da pranzo con camino, un cuoco, un sacerdote e venti ospiti. E qui si è fatto benvolere. Apprezzare.
È uno dei due infermieri. È addetto alla farmacia e alla somministrazione dei farmaci agli ospiti. Alcuni ammalati di demenza senile. Altri minati dall’Alzheimer. I suoi “vecchietti”. I sette che gli toccano in dote – cinque donne e due uomini – non gli sopravvivono. Sostengono gli investigatori che li finisca con overdosi di insulina, capaci di provocare in corpi provati dal tempo e dalle sue malattie, repentini stati comatosi. È un fatto – documentano le intercettazioni – che in almeno due casi, decida di accompagnare le sue vittime fino alla fine. Fulminati dalle overdose di insulina, i “vecchietti” vengono ricoverati d’urgenza negli ospedali del circondario. Lui (che non sa di essere ascoltato) chiama le rianimazioni fingendosi un medico del Gemelli che vuole avere notizie dei suoi pazienti. Ignari, i suoi interlocutori lo mettono al corrente di come la vita lotti con la morte. Di quanto manchi alla fine. Lui allora si attacca al telefono. Prepara casse e funerale. 50 euro per cadavere. Ed è sempre di turno per la “vestizione”. Gli avvocati di Angelo, Cristiano Pazienti e Cristiano Conte dicono (...) che tutto questo “è semplicemente impossibile”. Lui, Angelo, è convinto che la realtà, ciò che appare, possa essere raccontato e rimontato in altro modo. (...) È un fatto che (...) nella perquisizione della sua casa di Montelibretti, siano stati trovati misuratori del livello di insulina, aghi, lacci emostatici. Che nessuno dei pazienti di Angelo soffrisse di diabete» (Carlo Bonini) [Rep 19/5/2010].
• «Lucido, metodico, spietato. Angelo di nome, ma non di fatto. Nato la notte di Natale, Angelo Stazzi ha ucciso, secondo l’accusa, per il gusto di uccidere. Forse spinto da un delirio di onnipotenza se, come si evince dalle intercettazioni, si sentiva “vicino a Dio”, convinto di essere un “medico mancato, ne so molto più io dei dottori”. Prima indeboliva gli anziani con un cocktail di psicofarmaci, poi li annientava con un’iniezione letale di insulina. In quantità 50 volte superiore alla norma, sicuro di scamparla perché l’insulina non lascia tracce nel sangue. Non per incassare donazioni o eredità, né per lenire la sofferenza di malati terminali. Killer seriale, appunto. (…) Ad insospettire gli investigatori – ma anche il personale della casa di riposo che, intercettato, rilevava l’eccessivo numero di decessi – è stata innanzitutto la causa della morte. Forte calo ipoglicemico paragonabile solo a chi soffre di una forma di cancro al pancreas, dopo un momentaneo e improvviso stato di sonnolenza. Un anziano si è addormentato mentre pranzava, un altro a messa. Poi lo stato comatoso – in un caso anche di due mesi – e per quelle povere vite non c’era più nulla da fare. Dopo alcuni decessi, un’anziana ricoverata in coma all’ospedale è stata sottoposta agli esami del sangue. L’esito ha confermato i dubbi: c’era insulina in dosi 50 volte superiori al necessario. (…) Nella sua casa a Montelibretti, l’angelo della morte custodiva come una reliquia, all’interno di una vetrinetta, un intero kit per la somministrazione dell’insulina. I difensori di Stazzi, gli avvocati Cistiano Pazienti e Cristiano Conte: “Respinge ogni accusa”» (Grazia Longo) [Sta 29/11/2011].