24 febbraio 2014
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Biografia di Giorgio Semeria
• 1950 – 2013. Ex terrorista (tra i fondatori delle Br, con Alberto Franceschini, Renato Curcio, Mara Cagol). Figlio di un dirigente della Sit-Siemens, studente modello di Ingegneria, subì un primo arresto il 3 marzo 1972, durante le indagini per la morte di Giangiacomo Feltrinelli. Uscito di galera nell’aprile del ’73 (libertà provvisoria), fece perdere le sue tracce. Il 17 giugno 1974 fece da autista al commando che a Padova, nella sede del movimento sociale di via Zabarella, uccise gli attivisti Giuseppe Mazzola e Gaetano Girallucci (a caccia di documenti e schedari, stroncarono a colpi di pistola il tentativo di resistenza in quello che è passato alla storia come «il battesimo di sangue delle Br»). Il delitto restò per dodici anni un mistero, nel 1986 i giudici Ruberto e Calogero seppero la verità dalla pentita Susanna Ronconi: l’11 maggio 1990 la Corte d’assise di Padova lo condannò a nove anni e sei mesi (il pm aveva chiesto 30 anni, fu riconosciuto il concorso anomalo nell’omicidio per un evento diverso da quello voluto), il 9 dicembre 1991 la Corte d’assise d’appello di Venezia innalzò la condanna a 12 anni (il pg Mario Milanese ne aveva chiesti 19). Ritenuto «l’ideologo non violento» delle Br, fu nuovamente catturato il 23 marzo 1976 alla stazione centrale di Milano, mentre scendeva dal rapido Venezia-Torino: il brigadiere Pierangelo Atzori lo colpì al petto in condizioni poco chiare trapassandogli un polmone (il proiettile entrò nell’emitorace destro passando fra l’aorta e la carotide, bucò il polmone e uscì sotto la scapola sinistra). L’arresto, si disse, era stato casuale: «(...) Non esisteva cioè la certezza dell’arrivo di Semeria. Tuttavia si sa anche che il brigatista era seguito almeno da 15 giorni e “in modo costante”. Comunque alla centrale il servizio di appostamento era particolarmente cospicuo: “Più di dieci uomini e meno di venti” dicono i carabinieri. In realtà pare che fossero di più. Si parla anche di uomini del Sid, agenti speciali giunti da Roma. Quando alle 21.30 il rapido da Venezia è spuntato sul binario 7 i carabinieri erano in attesa pronti a individuare qualsiasi volto noto. Alcuni indossavano giubbetti antiproiettile. Prima che il convoglio si fermasse un giovane, valigetta ina mano, è sceso dalla parte del marciapiede di servizio. Lo avrebbero visto in due, rincorso lo avrebbero bloccato: “Fermo, sei Giorgio Semeria, ti abbiamo riconosciuto”. Un sottufficiale lo ha afferrato per il collo, un altro gli è passato di fianco e gli ha puntato la pistola. “Lui ha cacciato una mano in tasca, si è intravista la sagoma di un’arma: l’ha puntata contro il sottufficiale. Avrebbe certo sparato attraverso il cappotto”. Non ne ha avuto il tempo. L’uomo che aveva di fianco ha fatto fuoco. Nella tasca del soprabito il brigatista aveva una “Smith & Wesson” cal. 38 special, con sei colpi nel tamburo; infilati in una cartucciera alla vita altri 17 proiettili. Quasi certamente Semeria non era solo: in mezzo al binario 8, pochi istanti dopo l’arresto, è stata trovata un’altra pistola, una Fab cal. 7.65 senza caricatore. Anche questa, come la cal. 38 di Semeria, ha i numeri di matricola cancellati. È l’arma del secondo uomo, forse Corrado Alunni, sostenitore di una rigida “linea militare”» (Vincenzo Tessandori) [Sta 24 marzo 1976]. Semeria fornì una diversa versione dei fatti e il 27 aprile 1978, in tribunale a Torino, urlò ad Atzori: «Tu spari a chi ha le manette». Negli anni successivi si seppe che era stato tradito. Alberto Franceschini: «Individuammo la talpa. Lui, Semeria, ne era convinto: un solo compagno, giovanissimo, che faceva lo studente lavoratore alla Breda, conosceva i suoi spostamenti da Mestre verso Milano. Era l’unico che avrebbe potuto venderlo ai carabinieri». Francesco Grignetti: «A un irregolare del terrorismo, studente lavoratore, impiegato alla Breda e simpatizzante per le Br, fu imposto di abbandonare la fidanzata. La ragazza, agli occhi dei suoi compagni, aveva la grave colpa di essere figlia di un maresciallo. Due passioni incompatibili: la rivoluzione o la figlia di un carabiniere. Stretto dal dilemma, il ragazzo fece la sua scelta. E vinse l’amore. Che si portò dietro anche i carabinieri, gli arresti dei capi e lo sgretolamento di una buona porzione di Brigate rosse» (Francesco Grignetti) [Sta 28/10/1993]. Al momento dell’arresto gli sequestrarono un documento in cui era scritto: «Scegliere di attaccare i carabinieri come braccio armato strategico della controrivoluzione in Italia è certamente giusto. Ciò che non ci sembra giusto è la tattica scelta. Perché si è scelto l’attacco alle cose invece che l’attacco alle persone? È certamente più produttivo attaccare le persone e in particolar modo coloro che si sono particolarmente distinti». Accusato tra l’altro dell’irruzione nel centro studi della Confindustria del 29 ottobre 1975, il 16 giugno 1977 fu condannato a cinque anni di reclusione e ottocentomila lire di multa per falso e ricettazione di documenti (pena confermata il 5 ottobre 1978). Disse in aula: «Una cosa che non abbiamo mai fatto è colpire quelli che non hanno responsabilità precise. Quelli colpiti lo sono stati perché avevano responsabilità specifiche e individuali. Ed è quello che continueremo a fare. Quindi è inutile che montino storie. Molti di voi pennivendoli avete dimostrato varie volte che vi trovate di fronte a una crisi che non riuscite a gestire». Ad esempio, riguardo all’assassinio dell’avvocato (presidente dell’ordine di Torino) Fulvio Croce: «Si era prestato a sostenere un processo farsa». Il 23 giugno 1978 fu condannato a 10 anni nel processo di Torino ai capi storici delle Br (Renato Curcio e Pietro Bassi furono condannati a 15 anni, Alberto Franceschini a 14 anni e 6 mesi, Prospero Gallinari a 10 anni, Roberto Ognibene a 8, Mario Moretti a 5). Il 17 ottobre 1979, a Firenze, beccò altri otto anni per reati commessi durante il processo di Torino (ingiurie alla corte, apologia degli assassinii, istigazione all’insurrezione armata). Già protagonista nella rivolta del carcere dell’Asinara del 2 ottobre 1979, trasferito nel carcere di Cuneo il 10 dicembre 1981 partecipò all’assassinio di Giorgio Soldati, giovane militante di Prima linea (strangolato e poi sgozzato nel gabinetto a fianco del refettorio perché sospettato di collaborare con la magistratura). Raccontò in tribunale il 26 novembre 1986: «Intendo assumermi la responsabilità di gran parte di quello che è successo. La verità un po’ incredibile è che l’intero staff della direzione e tre quarti dei detenuti sapevano quello che poteva succedere, non solo a Soldati. Era fortunato chi poteva rimanere in isolamento in quei tempi. In carcere succedevano queste cose, ora sono cambiati i tempi e siamo cambiati noi. Accadevano quelle cose, perché lo mandarono proprio lì? Si è parlato di crudeltà, ma era solo inesperienza e si fece così per fare più in fretta. Lui disse: “Fate presto”. Non si oppose. Poi aggiunse qualcosa per la famiglia, qualcosa di privato» (scrisse a Mario Soldati, padre di Giorgio: «Non ho niente da poterle dare, so che sarò l’incubo delle sue notti, ma se le fa piacere le scriverò le ultime parole di suo figlio»). Il 27 novembre 1986 la Corte d’assise di Cuneo lo condannò a 21 anni, pena ridotta in appello (27 ottobre 1987) a 13 anni e mezzo in virtù della sua dissociazione dalla lotta armata. Durante la detenzione a San Vittore si laureò in Architettura, tornato in libertà si impegnò in varie attività di volontariato (e faceva catechesi).