21 febbraio 2014
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Biografia di Vincenzo Scarantino
• Falso pentito mafioso. Il 24 giugno del 1994 raccontò la sua verità sulla strage di via d’Amelio (Palermo 18 luglio 1992), nel 2010 inviò una lettera alla moglie di Paolo Borsellino, Agnese, indicando nelle forze delle ordine e nei magistrati le persone che lo avevano costretto, anche con minacce, a raccontare una falsa verità depistando le indagini. Ospite da Michele Santoro a Servizio Pubblico, su La7, nel gennaio 2014, venne fermato in macchina e arrestato dalla Squadra mobile di Torino alla fine della trasmissione: «Nei suoi confronti una ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del capoluogo piemontese perché il 5 novembre del 2013 abusò di una disabile maggiorenne in una comunità protetta del capoluogo subalpino, di cui la procura non vuole diffondere ulteriori informazioni. A Scarantino è stata contestata l’aggravante “dell’abuso di autorità”. Secondo fonti investigative Scarantino, che non era conosciuto con la sua vera identità nonostante non fosse più collaboratore di giustizia, è andato nella struttura soltanto quel giorno per sostituire un suo amico educatore – lui non aveva un lavoro fisso – e lì avrebbe approfittato dei gravi problemi psichici della donna per abusare sessualmente di lei. La mobile di Torino, dopo la querela della vittima, ha eseguito le indagini ed è risalita a Scarantino dopo la testimonianza di vari collaboratori della struttura, dove lavorava con un altro nome. Il procuratore aggiunto Annamaria Loreto (…): “L’arresto è avvenuto dopo la trasmissione perché Scarantino era irreperibile da due mesi” (…) Poco prima l’uomo che si è accusato, salvo poi rimangiarsi tutto, della strage di Via d’Amelio è da Michele Santoro a raccontare di come sia stato torturato e costretto a mentire. Con il volto coperto da una maschera il falso pentito parla di una persona che “architetta il depistaggio”, ma se ne guarda bene dal fare il nome» (Cosimo Caridi e Lorenzo Galeazzi) [Fat 31/1/2014].
• «Sua moglie Rosalia raccontò che a suo marito, per farlo confessare, facevano mangiare “il pane con i vermi”. Diceva che Enzino aveva paura di morire, impiccato a Pianosa o fulminato da un’iniezione con il virus dell’Aids. Rosalia piangeva, urlava – “Lo torturano e lo seviziano nel cervello” – ma nessuno le credeva. Sembrava una di quelle donne di mafia che sbraitava contro quei “cornuti degli sbirri”, era perfetta per la sceneggiata palermitana nel giorno del pentimento del suo Enzino (...) Era stato arrestato (...) con l’accusa di avere fornito ai sicari l’auto carica di esplosivo per fare la strage. Un’indagine “classica” – cioè un’indagine senza l’aiuto di collaboratori di giustizia – tenne a precisare il procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra commentando la cattura dell’uomo chiave del massacro. Tutto sembrava a posto. Ma chi era questo Vincenzo Scarantino che non compariva negli organigrammi delle “famiglie” di Palermo, che mai era stato coinvolto in vicende di alta mafia, che praticamente era uno sconosciuto ai poliziotti e ai carabinieri delle sezioni investigative? Aveva l’aspetto di un balordo, un po’ spacciatore e forse anche un po’ magnaccia, imparentato sì con Salvatore Profeta che era della cosca di Santa Maria del Gesù ma lui – Enzino – era decisamente fuori dal giro del potere criminale che conta a Palermo: il giro di Cosa nostra. I cronisti più dubbiosi chiesero a Tinebra: ma come è possibile che a uno così, nuddu miscatu cu nienti, nessuno mischiato con il niente, abbiano affidato la regia operativa della strage? Rispose ancora il procuratore di Caltanissetta, quello che aveva messo il “bollo” sull’intera operazione: “Non ci siamo posti la domanda. I fatti si sono svolti in un certo modo e Scarantino non è uomo da manovalanza”. Qualche anno prima Enzino era stato giudicato non idoneo al servizio di leva, i medici dell’ospedale militare di Chieti l’avevano scartato perché “neurolabile”. Chi era allora Vincenzo Scarantino? È cominciata così l’incredibile storia del picciotto della Guadagna catapultato in uno dei grandi misteri d’Italia. È cominciato con il suo arresto favorito dalle soffiate di due complici (che poi si sarebbero rivelati bugiardi come lui) e con 18 ordinanze di custodia cautelare contro esecutori e mandanti di via D’Amelio. A niente sono servite le grida di sua moglie Rosalia Basile, che giurava sulla testa dei figli: “Enzino quella domenica, il 19 luglio, era in chiesa, lui è sempre stato un uomo religioso e fa parte della confraternita di Sant’Anna”. La povera Rosalia voleva salvare suo marito, non sapeva di quella telefonata arrivata in Questura tre giorni dopo la strage: “Andate a vedere che cosa c’è nel cestino di rifiuti vicino all’edicola di via D’Amelio”. C’era un foglio con il disegno di un uomo con la barba, un uomo che indossava la tunica di una confraternita. Era la fotografia di Enzino. Qualcuno l’aveva messa lì. Tutto sembrava a posto anche questa volta. I colloqui investigativi dopo il suo arresto furono tre o quattro, ci andavano il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera e i suoi fidati uomini, quei giovani funzionari che erano appena usciti dalla scuola di polizia. Poi, un giorno, Enzino si è pentito. Prima fa i nomi di “quelli di Borsellino”, poi – è il suo primo interrogatorio, il 24 giugno 1994 – dice che Cosa nostra riforniva di coca il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. “Attendibile” per la strage, “inattendibile” per tutto il resto. Logico, no? Chi era allora questo Vincenzo Scarantino? Gli avvocati dei mafiosi vanno all’attacco. Dicono che è un falso pentito. Dicono che si è inventato tutto. Dicono che non può sapere niente di mafia perché lui è uno che va “con i trans”. E uno che ha quelle tendenze non ispira certo fiducia ai boss. Gli avvocati portano la testimonianza di una vecchia amante di Enzino, tale Giuseppe conosciuto meglio come “Giusy la sdillabbrata”. È un altro colpo alla credibilità del pentito venuto dal nulla. Ma non l’ultimo. Vincenzo Scarantino viene messo a confronto con tre ex stelle di Cosa nostra. Uno è Salvatore Cancemi, che gli dice: “Io non ti conosco”. Risponde Scarantino: “Io sì”. Ribatte l’altro: “Tu non sai niente, tu non sai nemmeno cos’è un uomo d’onore, t’invito a dire la verità e a dire chi ti ha fatto questa lezione”. E poi, Salvatore Cancemi, rivolgendosi ai procuratori di Caltanissetta: “State attenti, è falso, non credete a una virgola di quello che vi sta dicendo”. Nel secondo faccia a faccia Scarantino si trova di fronte al pentito Santino Di Matteo, quello che aveva appena svelato i retroscena della strage di Capaci. La reazione di Di Matteo è ancora più diretta: “È la prima volta che ti vedo e non so da dove hai preso tutte queste cazzate... io non so come fai a dire che hai partecipato alla strage Borsellino”. Poi è il turno di Giovanni Brusca: “Mai visto”. Nonostante le tre autorevoli testimonianze a Caltanissetta sono andati avanti, gli hanno sempre creduto. Passa qualche anno e Scarantino si pente di essersi pentito. Esita, parla un’altra volta, ritratta ancora. Per i procuratori di Caltanissetta, dietro i suoi ripensamenti “c’è l’ombra di Cosa nostra”. I giudici continuano a credergli: fino in Cassazione. Fino a quando Enzino si libera: “Io, Dio mi perdoni, ho giurato falsamente. Io di mafia non so niente: ho inventato tutto insieme alla polizia”. (...) Gaspare Spatuzza (...) gli ha dato del bugiardo. Anzi, gli ha detto: “Come puoi dire che hai rubato l’auto per la strage, quell’auto l’ho fatta rubare io”. E da quel momento Enzino è diventato l’uomo più misterioso di Palermo» (Attilio Bolzoni) [Rep 2/7/2010].
• «Per la prima volta, dopo oltre vent’anni di storia processuale, il pentito chiave della strage di via D’Amelio si siede davanti a una telecamera e si racconta a Servizio Pubblico (…). “La mafia arriva, spara in faccia, e muori. Lo Stato, invece, ti fa morire giorno dopo giorno”, spiega Vincenzo Scarantino, il picciotto di borgata che nel 1992 venne arrestato per il “botto” del 19 luglio. Dopo un anno di carcere duro a Pianosa, decide di collaborare spiegando come e perché sia stato organizzato l’omicidio Borsellino. La sua testimonianza ha sancito ergastoli e scritto una delle pagine più buie della storia del nostro Paese, quando a sorpresa nel 1998, ha deciso di ritrattare tutto puntando il dito contro poliziotti e magistrati che a suo dire lo avrebbero costretto a testimoniare ciò che non ha mai fatto, visto o sentito. Il tutto a spese di sette innocenti condannati all’ergastolo. Oggi sono a piede libero in attesa della revisione del processo che si sta rifacendo sulle orme di un nuovo collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza. Scarantino, che ha finito di scontare la pena per calunnia da un anno, è attualmente imputato a Caltanissetta, sempre per calunnia stavolta nei confronti di quegli uomini che ha ingiustamente coinvolto nella strage. La Procura indaga sull’ipotesi che Scarantino sia stato la pedina di un ennesimo e clamoroso depistaggio. (…) Ma come ha messo in piedi i suoi racconti, anche dettagliati sul furto della Fiat 126 poi utilizzata come autobomba o sulla riunione deliberativa nella quale lei raccontava di aver sentito dire a Riina che si doveva far fuori il giudice? “A me loro me l’hanno detto. Io non avevo nessun motivo di inventarmi le cose, io parlavo con il dottor Arnaldo La Barbera (ex questore di Palermo, a capo del gruppo Falcone-Borsellino che indagava sulle stragi del ’92, ndr). Facevamo conversazioni lunghe, nelle quali mi sono state indicate delle soluzioni, ma non è vero niente”. Prestandosi a fare il falso pentito lei ottiene ciò che più le stava a cuore: lascia realmente Pianosa. “Sì e mi portano in una località protetta dove hanno messo dei poliziotti per darmi una mano”. Ma che tipo di mano le davano? “Mi aiutavano a imparare tutto quello che c’era scritto… per ripetere, sistemare. Poi avevano paura che qualcuno mi poteva convincere a dire la verità, magari altri poliziotti…”. Questo gruppo di poliziotti la faceva studiare, cioè, la preparava agli interrogatori. “Sì, sì. Le sere prima di andare a testimoniare mi leggevano tutto e io dovevo memorizzare tutto quello che sentivo”. Però questi uomini sono stati di recente interrogati, e loro negano assolutamente di essersi prestati a una cosa così vile, cioè di averla in qualche modo indottrinata per farla diventare un falso pentito. Loro dicono che era lei, Scarantino, a chiedere loro una mano per rivedere le sue dichiarazioni. “Ma se io dico la verità, ho bisogno di leggere? Non ho bisogno di studiare. Siccome io non potevo dire la verità perché non la sapevo, me lo dovevano dire loro quello che dovevo dire. Per esempio mi chiedevano cosa avrei risposto a una certa domanda che avrebbe potuto farmi l’avvocato e io dicevo che non ne sapevo nulla, allora mi correggevano: ‘No, devi rispondere così…’”. Come matura la decisione di ritrattare? “Io stavo male. Quando andavo dai magistrati mi facevano sentire un leone. Viaggiavo con l’auto con la sirena, mi mettevano 15 persone vicino, mi facevano gli auguri, insomma, mi facevano sentire importante. La sera però, quando tornavo a casa, dopo aver accusato degli innocenti, non potendo piangere davanti ai miei bambini o davanti a questi poliziotti supereroi, andavo in bagno e piangevo”. È per questo che nel 1995, tramite una telefonata al tg di Italia Uno, ritratta tutto? “Eh sì. Lo vengono a sapere questi uomini del gruppo Falcone e Borsellino e, dopo la telefonata, quando sono tornato a casa vedo uno di loro, il dottor Bò che parlava con le mani in faccia a mia moglie. Urlava, si agitava come se davanti avesse avuto sua moglie o sua sorella…”. Cioè, la aggredisce. “Sì, sì, una lite. Io sono subito intervenuto e lui è impazzito, ha cominciato a dare cazzotti, calci in mezzo alle gambe! Intanto arriva l’altro suo collega, Giuseppe Di Ganci, mi acchiappa per il collo e mi mette la pistola in bocca”. Questo a casa sua davanti a sua moglie e i suoi figli? “Davanti ai bambini e a mia moglie!”. Quindi lei torna nel ruolo di collaboratore di giustizia, falso, sotto minaccia? “Sì”» (un’intervista di Scarantino a Dina Lauricella) [Fat 29/1/2014].