14 febbraio 2014
Tags : Remo Ruffini
Biografia di Remo Ruffini
• Como 27 agosto 1961. Imprenditore. Presidente e direttore creativo di Moncler (fatturato atteso per il 2013 di 570 milioni di euro, in crescita del 16,5% sul 2012 e del 101% rispetto ai 282,5 milioni del 2010. Quando l’acquistò, nel 2003, era di 45 milioni) [S24 2/12/2013]. L’azienda si è quotata in Borsa il 16 dicembre 2013, «arrivando al valore capitale di 3,5 miliardi (con un aumento del 47 per cento rispetto al valore iniziale). (…) Moncler ha un utile di circa 160 milioni su circa 460 di fatturato, cioè il 33 per cento e ha registrato nel decennio un tasso di crescita annuo del suo fatturato del 32 per cento, con un’espansione focalizzata, cioè non fondata sulla diversificazione e magari su merger e acquisizioni, ma sulla specializzazione di prodotto. E Ruffini, che ha voluto mantenere un pacchetto di controllo del 31,9 per cento, rinunciando a un guadagno di capitale che poteva ottenere riducendo la sua quota, ha detto che questo è un brillante esordio nel mercato finanziario» (Francesco Forte) [Fog 18/12/2013].
• «Dal Burghy di Piazza San Babila a Palazzo Mezzanotte, in Piazza Affari. Trent’anni dopo l’era dei “paninari” i piumini Moncler sbarcano in Borsa e valgono 3,5 miliardi di euro. Da simbolo di una moda milanese, borghese – nell’85 i Moncler costavano dalle 350 alle 500 mila lire – a brand del lusso made in Italy, con capi che vanno dai 500 ai mille euro» (Antonio Vanuzzo) [Ink 16/12/2013].
• «Figlio d’arte a 18 anni seguì il padre negli States: “Lui era un matto e mi piaceva, vendeva camicie stampate, un successo. Io a scuola andavo malissimo. Diplomato per miracolo, niente laurea ma me sono pentito, si fa più fatica per restare al passo. Mi ha salvato la curiosità”. Dopo la maturità, la fuga a New York: pochi mesi per capire che non era la strada giusta: “Così mi sono messo a gironzolare un po’ nei luoghi che erano i miei sogni da ragazzo: il lifestyle dei Kennedy, insomma. Tornai in Italia carico di quella storia e misi su un’azienda, la New England. Avevo 23 anni (...) Mi inventai una tradizione immaginandomi i Kennedy a Martha Vineyard: le camicie botton down, le cravatte regimental, le maniche arrotolate… E non è andata malissimo: ci ho campato diciotto anni. Nel ’99 ho venduto. Volevo una storia, vera e nel 2002 ho trovato Moncler: decenni e decenni di tradizione» (Paola Pollo) [Cds 3/1/2009].
• «Artefice dal 2005 della rinascita del marchio storico francese, ora italiano per proprietà, anche se non per manifattura: le piume delle oche, infatti, sono sempre quelle di Grenoble e gli stabilimenti sempre quelli aperti già negli anni Cinquanta. “Negli anni Novanta il marchio Moncler era sparito dai mercati. Per prima cosa ho eliminato tutto ciò che non fosse in piuma d’oca, con la presunzione di far capire che se si voleva un piumino bisognava parlarne necessariamente con noi (...) A quel punto abbiamo proposto i nostri capi in tutte le varianti possibili: per andare in montagna, in motorino, in ufficio, fino ad arrivare a Gamme Rouge, il piumino da sera. Per completare l’offerta» (Antonella Matarrese) [Pan 27/11/2008].
• «“Avrò avuto 15 anni e ricordo che mia mamma mi regalò un piumino Moncler. L’ho indossato per tanto tempo. Abitavo vicino a Como, la mattina andavo a scuola in moto e mi riscaldava. E poi nella mia testa era di un marchio famoso, popolare, anche se era un po’ sparito dal mercato”. Nel 2003, più di un quarto di secolo dopo, questi ricordi giovanili hanno avuto un ruolo, confessa Remo Ruffini, nella decisione di comprarsi Moncler, un’azienda francese fondata nel 1952 a Monestier de Clermont (dal cui acronimo il nome). Oggi i suoi piumini sono diventati globali. L’anno scorso (2012) l’azienda ha registrato ricavi per 489,2 milioni di euro (…) “Entro spesso nei nostri negozi e vedo il ragazzino con i jeans larghi accanto alla signora superelegante che magari vuole sostituire la vecchia pelliccia. Oggi è un altro mondo rispetto agli anni Ottanta, non voglio fare una giacca solo per i giovani urbani. Voglio usare il nostro know-how per creare un progetto per tutti. Questa è la nostra unicità. La nostra tecnologia è nata per lo sport, ma è piacevole per tante funzioni d’uso. Riusciamo a vendere al 50 per cento agli uomini e al 50 alle donne, e raggiungiamo età e caratteri molto diversi, come dimostra l’elenco delle celebrities che, pur non essendo nostre testimonial, sono state fotografate con i nostri piumini: Madonna, Carolina di Monaco, Shakira, Julianne Moore, Katie Holmes” (…)» (Daniele Castellani Perelli) [Esp 6/12/2013].
• «A vederlo così, sempre sorridente, sicuro di sé ma mai aggressivo, pacifico al punto da sfiorare il pacioso, nessuno sospetterebbe che Remo Ruffini il servizio militare non lo ha fatto da imboscato ma da granatiere. Il dettaglio torna, se si guarda la storia di Ruffini in Moncler: quanti altri marchi e quante altre aziende sono cresciuti a quel ritmo, cioè in dieci anni hanno moltiplicato per 10 il giro d’affari e per 100 il valore? Ruffini c’è riuscito (…) Quel che è interessante ricostruire di Ruffini è perché un giorno di dieci anni fa ha deciso di diventare mister Moncler dopo essere stato nei 18 anni precedenti molto più semplicemente il signor New England, marchio di camiceria al top della notorietà negli anni ’90: che non suonerà come mister Moncler, ma certo era pure quella una bella storia. L’avventura imprenditorial-fashion di Ruffini, comasco doc conquistato dallo stile Martha’s Vineyard e dall’eleganza décontracté di JFK, insomma dal lifestyle dell’America benestante e illuminata, comincia infatti nell’84, a 23 anni, dopo un anno passato a New York con il padre, di cui è anche figlio d’arte: Ruffini senior (“Un matto che mi piaceva moltissimo”, per dirla con le parole del figlio) era andato negli Usa a vendere, con successo, camicie stampate. Così a New York, dopo un anno di studi soprattutto sul campo, il futuro mister Moncler mette a punto la sua idea di eleganza sportiva applicata alla camiceria ed è pronto a debuttare con un proprio marchio, innovativo nello stile e nei tessuti: nella camiceria è stato probabilmente il primo in Italia a utilizzare tessuti sovratinti e a prestare attenzione a nuove vestibilità che fossero al contempo più sciolte e più eleganti. Il successo arriva subito, all’inizio più sul mercato americano che su quello italiano; poi, alla fine degli anni ’90, New England finisce nella neocostituita Interpool, di cui in un primo tempo Ruffini è anche azionista assieme a Stefanel e altri industriali dell’abbigliamento e che riunisce anche i brand Island, Museum e Peter Hadley, tutti marchi dal sapore un po’ New England. Ma Ruffini a questo punto freme. Quel che poteva dare con la camiceria lo ha dato, comincia a usare i suoi talenti di creativo, con un qualcosa in più di un normale creativo: la capacità di lavorare sul brand. E comincia a mettere a fuoco il suo sogno: quello di un brand globale, di un prodotto di abbigliamento globale che tutti vogliano indossare. L’anno della svolta, o meglio della prima svolta, è il 2000, quando approda in Moncler come direttore creativo. Il marchio, dopo i fasti degli anni ’80 grazie al fenomeno dei paninari, era un po’ passato di moda, mentre sul fronte del core business e dell’anima originari, quello legato allo sci e alla montagna, aveva perso appeal e aficionados. Ed era stato rilevato dalla Fin.Part di Gianluigi Facchini, il finanziere che aveva riunito sotto il proprio ombrello numerosi marchi e aziende (…) La parabola di Fin.Part però durò poco e finì male, con la dichiarazione di fallimento firmata il 5 ottobre 2005 dal giudice Bartolomeo Quatraro. Ma da due anni il controllo di Moncler era stato rilevato da Ruffini, dopo la decisione di Facchini di cominciare a vendere qualcosa perché i conti del gruppo andavano male. Ed è in quegli anni che si crea uno dei sodalizi più proficui che la storia della moda italiana ricordi, quello fra Ruffini e Guido De Vivo, uomo di finanza che in quel momento guida la Mittel. Le avventure sull’ottovolante del fallimento Fin.Part di Ruffini e De Vivo potrebbero riempire un libro, ma qui basti ricordare che assieme, coinvolgendo anche altri investitori, i due riescono a salvare dal disastro Fin.Part anche la Pepper e i marchi che c’erano dentro, ovvero Marina Yachting, Henry Cotton’s, la licenza della linea di Cerruti denominata 18CRR81 e il brand di ricerca Coast+Weber+Ahaus, che è poi la somma di tre marchi di maglieria, pantaloni e camiceria. L’operazione va in porto e cementa un legame fra i due che rappresenta un ingrediente forse decisivo del successivo successo di Moncler e del valore che Ruffini ha saputo creare: De Vivo governa la complessa finanza di quegli anni e controlla i numeri, Ruffini fa diventare grande il brand. Il tutto con una strategia che fa leva sulle origini del marchio, sul calore che è in grado di sprigionare, ancor prima del prodotto, già solo quell’heritage, straordinario e irripetibile come può essere solo il passato di chi ha iniziato per primo. Così comincia la conquista del cliente globale. Così il legame quasi eroico, romantico del brand con le montagne innevate e con l’eleganza del grande freddo è al centro di ogni declinazione delle campagne pubblicitarie. Ma intanto il prodotto si differenzia in alto e in basso; nascono le collezioni deluxe Moncler Gamme Rouge e Moncler Gamme Bleu, disegnate da stilisti di primo piano e di grande energia creativa come Alessandra Facchinetti, Thom Browne e Giambattista Valli, che sfilano a Milano e a Parigi; gli sciatori hanno la loro Moncler Grenoble ma anche più di un modello delle varie linee della main collection; inizia la costruzione di un total look indispensabile per avviare l’avventura dei monomarca, dove sarebbe stato ben triste vendere solo piumini, magari sconfinando in altre stagioni diverse dall’inverno e in altre discipline sportive diverse dallo sci. Ma senza mai diventare, almeno nell’immagine, urbani. E questo lavoro sul brand e sulle collezioni, ostinato, costante, dentro a un solco chiaro e netto ma in continuo rinnovamento, ha finito per produrre un miracolo che forse non ha altri esempi nel mondo dell’abbigliamento e della moda: il brand diventa il prediletto di persone e di mondi che non dovrebbero avere e in effetti non hanno null’altro a che spartire. Celebrità di Hollywood e studentesse di provincia, signore chic di Via Montenapoleone o di New Bond Street e skater randagi di periferia, tutti si sentono a loro agio e spesso addirittura quasi orgogliosi del loro Moncler. Naturalmente alle spalle, prima ancora di una strategia riuscita e di una gestione eccellente, c’è un grande sogno, che Ruffini agli inizi dell’avventura raccontava così: “Un giorno mi piacerebbe che anziché piumino si dicesse Moncler, come quando chiedi una biro e dici: Mi passi una Bic?”. Chissà... è un granatiere, magari ci riuscirà» (Alessandro Wagner) [Mfi 14/12/2013].
• Gli piace fare vela sul lago di Como, sciare e ama il cinema: «Adoro Il padrino perché ci ritrovo le atmosfere, l’energia, i costumi della mia storia, tra Italia e America» [Castellani Perelli, cit.].
• Sposato, due figli.