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 2014  febbraio 10 Lunedì calendario

Biografia di Elena Romani

• 1974 (~). Mamma della piccola Matilda, morta il 2 luglio 2005: rinviata a giudizio per omicidio preterintenzionale, processata, è stata assolta in primo grado per non avere commesso il fatto (le prove non sono state considerate sufficienti), poi ancora in appello, il 15 dicembre 2009, con formula piena, e in Cassazione, nel 2011.
• «Il papà Maurizio fa il parrucchiere a Senago da una vita. La mamma Ivana, la casalinga. Lei lavora come hostess nella compagnia area Azzurra. Ha gli occhi verdi, è alta come una valchiria, ha la passione per i balli caraibici. Le sue colleghe la descrivono come la più brava di tutte (...) La compagnia l’aveva indicata come “assistente modello per la disponibilità e la pazienza verso i passeggeri”. Ha una storia d’amore con Simone Borin, famiglia benestante, alto, biondo, occhi azzurri, bello come un attore dei film americani. Convivono tre anni. Nasce una bimba, Matilda. Poi si lasciano. Lei deve sbrigarsela da sola per tirare avanti. Non può continuare a fare la hostess. Si impiega come cassiera in un centro commerciale di Gallarate. Conosce la guardia giurata Antonio Cangialosi, altro fusto, ex parà, ex bodyguard. “Prima due chiacchiere, poi la prima pausa caffè”, racconta lui. Si fanno gli auguri di Capodanno, 6 sms di fila. Lui pensa: “Strano che una donna con una figlia mandi tutti quei messaggi”. La invita a cena. Al tavolo, lei gli dice: “Sono una mamma. Tu cosa vuoi da me?”. Lui le risponde: “Per me non è un problema”. Da quel momento, dice, è entrata a far parte della sua vita. Conosce Matilda, e la chiama “il mio tsunami”, perché è molto vivace. Antonio ha una brutta storia alle spalle: sua moglie Graziella sparisce la vigilia di San Valentino del 2000. Lui l’ha salutata prima di andare al lavoro: “Eravamo felici”. Lei non torna più. L’amico con cui aveva appena intessuto una storia di prendersi e mollarsi, l’ha uccisa annegandola nella vasca da bagno. Per due mesi ha nascosto il suo corpo, prima in un armadio e poi in una cassapanca. Elena e Antonio hanno due sconfitte da lasciarsi alle spalle. Lei fa come tutte le donne: ci crede quasi con disperazione. Sul suo diario scrive: “Oggi ci siamo lasciati senza parole. Erano i nostri occhi a parlare. Grazie per quello che mi hai dato”. Poi, però, il 18 giugno annota anche che Matilda patisce il suo nuovo fidanzato: “Gli ultimi giorni non sono stati dei migliori. Lei continuava a vomitare: da vedere se per la sua salute o per lui come protesta o paura”. Il 2 luglio, la morte. Sono nella villetta di lui, a Roasio, basse colline di vigneti, sopra le risaie di Vercelli. Casetta a due piani, uno sterrato davanti per arrivarci. La piccola vomita di nuovo. Una volta lui s’era arrabbiato: “Ma proprio sul mio letto lo deve fare? Lo fa apposta”. Matilda è in bagno. Muore per “una grave lesione conseguente a un colpo inferto in zona lombare”, come attesta l’ordinanza del pm. Un calcio. I due vengono interrogati e danno versioni contrastanti» (Pierangelo Sapegno) [Sta 9/8/2005].
• «Sono da poco passate le 16 di un caldo pomeriggio dell’estate 2005. In una villetta di Roasio, un paesino in provincia di Vercelli, una bimba piange, non sta bene. La madre, Elena Romani, sta dormendo sul divano insieme con il fidanzato, Antonio Cangialosi (che non è il padre della piccola Matilda). Si stanno riposando dopo avere pranzato, quel 2 luglio, nell’appartamento accanto, ospiti di amici. La madre si alza per prima, intorno alle 16.15 (secondo il suo racconto), svegliata dalla telefonata di un’amica di cui però non rimane traccia sul suo cellulare. Sente Matilda chiamare: “Mamma, mamma!”. Entra nella camera da letto dove la piccola si è sentita male, ha vomitato; il letto è sporco. La tranquillizza, la porta in bagno facendole fare qualche passo, le lava la faccia, pulisce federa e coprimaterasso. È a questo punto che entra Antonio, il suo compagno, guardia giurata. Si sarebbe svegliato intorno alle 16.20. Appena apre la porta vede la bimba “con le labbra bianchissime”, in piedi sul portabiancheria, un po’ reclinata in avanti, appoggiata al muro. Quella bimba dagli occhioni azzurri, i capelli ricci, quasi sempre sorridente, è meno vivace del solito. Sta male semplicemente perché ha vomitato o perché, in questi minuti, è già stata colpita da sua madre, esasperata dalla sua ennesima crisi in presenza del nuovo compagno? C’è anche un altro scenario possibile, di fronte a indagini e processi che non hanno ancora trovato un responsabile: Matilda, in bagno, potrebbe non avere ancora subito un trauma mortale, il suo malessere potrebbe essere dovuto soltanto alla nausea. Potrebbe, cioè, essere stata colpita successivamente, dopo aver fatto un passo e mezzo in bagno, dopo essere stata presa in braccio da Cangialosi che poi l’avrebbe portata in salotto a guardare il dvd dei Tre porcellini, negli attimi in cui la madre è uscita a stendere. Matilda, cioè, può essere stata colpita in quel minuto e mezzo in cui è rimasta da sola con la guardia giurata? Può essersi sentita male immediatamente, di colpo, e avere avuto un arresto cardiaco (dovuto a un’emorragia) in meno di mezz’ora? È su questo interrogativo di fondo che si gioca il giallo della sua morte. È in una manciata di minuti che si consuma il mistero di Roasio: sono gli attimi in cui la Romani rimane sola con la piccola (prima delle 16.20), oppure gli istanti in cui Cangialosi accudisce la bimba da solo, poco prima delle 16.41, mentre la madre è fuori casa. In quei minuti, davanti alla tv, Matilda peggiora, diventa fredda, bianca, respira a fatica. Antonio urla alla madre: “Corri, corri!”. Alle 16.41 chiama il 118 mentre Elena tenta di rianimare la figlia, in attesa dei soccorsi. Alle 17.04 di quel pomeriggio il cuore di Matilda pompa sangue a vuoto. Un’emorragia interna le toglie la vita a soli 2 anni. Alle 17.40 il medico del 118 certifica il decesso “per cause naturali”. Matilda è stata rivestita. I soccorritori non notano un livido sulla schiena, inconfondibile. Nessuno pensa all’omicidio. Cangialosi, piuttosto, è convinto che la piccola sia morta perché i soccorsi sono arrivati troppo tardi. È sempre lui a voler fare, per primo, una denuncia che porta all’autopsia, e alla verità: Matilda è stata uccisa da un “gravissimo trauma addominale con lacerazioni multiple del fegato e rottura del rene destro” dirà, qualche giorno più tardi, il medico legale torinese, Roberto Testi. Scattano così le indagini per un omicidio che (...) dopo (...) due processi di primo e secondo grado (nei confronti della madre della piccola) non ha ancora un colpevole né un perché. In quella casa erano in due, quel 2 luglio 2005. Entrambi, inizialmente, sono stati indagati per quel calcio sferrato alla bambina con conseguenze forse inimmaginabili. La posizione di Cangialosi è stata archiviata e la decisione già convalidata dalla Cassazione. Elena Romani, dopo avere scontato diversi mesi in carcere, è stata rinviata a giudizio per omicidio preterintenzionale, processata, assolta in primo grado per non avere commesso il fatto (le prove non sono state considerate sufficienti) e poi ancora assolta in appello, il 15 dicembre 2009, con formula piena. Le indagini si sono basate su dati scientifici, medico-legali; ma anche sulle testimonianze della coppia, opposte, perché ognuno ha accusato l’altro per discolpare se stesso. Così (...) mancano un colpevole, un’arma, un movente. In uno dei primi interrogatori, l’11 luglio di quell’estate, era stata la Romani, per prima, ad accusare il compagno: “Nutrii qualche sospetto vedendola così repentinamente peggiorata” ha fatto mettere a verbale. E poi: “La bambina quando era in bagno stava bene, addirittura camminava. Quindi penso che, se è successo qualcosa, è successo quando io mi sono allontanata”. Il compagno si è difeso, sostenendo che la piccola fosse stata colpita prima, non in quei pochi minuti in cui è rimasta con lui. Ha descritto quella labbra bianchissime quando Matilda era in bagno, già sofferente. “Aveva le labbra normali” ha ribattuto la Romani in un faccia a faccia a distanza. Sono sicura perché le ho lavato la bocca e quindi avrei notato le labbra bianche”. Al rientro dal giardino, invece, descriverà la bimba “completamente bianca, che non respirava… gliel’ho strappata dalle braccia”. Le conversazioni della coppia, intercettate solo quattro giorni dopo il delitto, non hanno però rivelato un rancore della donna nei confronti del compagno, anche dopo averlo accusato dell’omicidio della figlia. Parlando con suo padre, per esempio, dice: “Tu mi credi? Sta’ tranquillo, non sono stata io e non è stato neanche Anto”. I suoi atteggiamenti (per esempio il tentativo di cremare subito la bimba), uniti ad altre frasi dubbie pronunciate dalla Romani in auto (“Ma tu cosa hai fatto?” rivolto a Matilda, e poi “Ti ho dato le botte?”) hanno spinto la procura di Vercelli a puntare sulla sua colpevolezza. C’è un’altra frase equivoca che la hostess di Vercelli pronuncia da sola mentre guida e ascolta la canzone Strani amori di Laura Pausini. Potrebbe avere esclamato: “Non posso pagare per una cosa che non ho fatto” oppure: “Non posso pagare per una cosa che non dovevo fare”. Due frasi dal significato opposto, un altro dubbio che si inserisce fra i tanti tasselli che non riescono ad andare a posto, in un caso giudiziario complicatissimo. Gli indizi contro l’hostess di Vercelli si erano rafforzati con una consulenza della procura che ha certificato una compatibilità fra l’intarsio a mezzaluna di una scarpa rosa, décolleté, della donna e il livido trovato sulla schiena della piccola. Le perizie, durante i processi, hanno stabilito però che la compatibilità tra scarpa ed ematoma è troppo generica, non c’è certezza che quella scarpa sia l’arma del delitto. Dopo 4 anni la Romani ha accettato di tornare nella casa di Roasio per mostrare ai giudici i suoi movimenti, per raccontare e mimare (davanti a una telecamera) quello che secondo lei è accaduto quel pomeriggio. Il video è stato acquisito agli atti del processo (...). Dopo la sua assoluzione con formula piena, si ricomincia tutto daccapo perché la sentenza della Corte di assise di appello di Torino impone il trasferimento degli atti a Vercelli: la posizione di Cangialosi potrebbe essere nuovamente valutata. “È finita. Sii uomo, confessa quello che è successo. Fallo per Matilda” gli ha chiesto la Romani (che si è rifatta una vita e ora è madre di un’altra bimba) subito dopo il verdetto e dopo anni in cui ha professato la sua innocenza. “Sono stato uomo quando ho deciso di fare denuncia per il ritardo dei soccorsi, e la Romani lo sa bene” le ribatte a distanza l’ex fidanzato. “Avete mai visto un assassino che fa scattare le indagini e si inguaia da solo? Finora ho subito gli attacchi in silenzio. Se mi costringeranno, spiegherò (come ho già fatto davanti ai pm di Vercelli) quali sono gli atteggiamenti anomali della Romani, tenuti a ridosso della morte di sua figlia”. Una vita quantomeno sfortunata, la sua. Era stato sospettato (ma non indagato) anche per la morte della moglie, uccisa invece per mano di un altro uomo. “Non so cosa mi dà la forza di andare avanti” racconta. “Ho pensato anche al suicidio, dopo i nuovi sospetti. Ma ora voglio essere forte, reagire e dimostrare la verità. Io non ho alcuna colpa se non quella di avere dormito, quel pomeriggio, e di essermi svegliato in un incubo che non finisce più. Io non ho fatto nulla: quando ho visto Matilda, stava già male, e io non ho mai detto di averla vista camminare in quel bagno: ha fatto soltanto un passo e mezzo, in uno spazio strettissimo. Aveva le labbra bianco latte e la madre che si preoccupava di lavare il cuscino!”. Le ultime perizie, determinanti nel processo di appello, stabiliscono un’altra verità. Modificano i tempi di sopravvivenza delle piccola e quindi le responsabilità. Per la pubblica accusa e per il perito del processo di primo grado, Matilda sarebbe sopravvissuta da 30 a 40 minuti dopo essere stata colpita. Poiché Cangialosi si sveglia alle 16.20 e la donna qualche minuto prima (16.15), il colpo teoricamente potrebbero averlo sferrato entrambi. Cangialosi, tuttavia, dalle testimonianze, sarebbe rimasto solo con Matilda a ridosso delle 16.41 (ovvero della chiamata al 118). Se fosse stato lui a colpirla, la bimba sarebbe sopravvissuta meno rispetto alla mezz’ora ipotizzata dalle consulenze. Quei parametri scientifici scagionerebbero Cangialosi. I periti del processo di secondo grado, però, hanno ridotto i tempi. Per l’anestesista Elsa Margaria, l’emorragia che ha ucciso Matilda è stata “rapidissima e inarrestabile, perché si è rotta la capsula di rene e fegato, cosicché è venuto meno il contenitore fisiologico che favorisce meccanicamente l’arresto dell’emorragia. Si è conclusa così in 20 minuti, non in ‘almeno’ una mezz’ora”. Ne deriva che Cangialosi, con questi tempi, avrebbe potuto colpirla: il trauma potrebbe essere più ravvicinato al momento dell’arresto cardiaco (delle 17.04) e alla chiamata del 118 (delle 16.41). Non solo. “Non riteniamo possibile che la bimba, dopo avere subito il colpo che si rivelerà poi la causa della morte, fosse in grado di mantenere la stazione eretta, camminare, essere ripetutamente presa in braccio, prepararsi a vedere un cartone animato, senza manifestare sintomatologia dolorosa” si legge nelle ultime perizie. Quindi, se Matilda fosse stata colpita dalla madre in bagno, avrebbe dovuto manifestare maggiormente il dolore. Elsa Margaria e la neuropsichiatra Maria Bruna Fagiani hanno dato ragione al consulente della difesa, Lorenzo Varetto, secondo cui “la bambina avrebbe dovuto piangere fin da subito, lamentarsi”. E hanno dato torto alla pubblica accusa secondo cui Matilda non ha urlato e pianto perché in preda a uno “stupore dissociativo”, comune tra i bimbi colpiti dai loro cari. Matilda fece dei passi, fu sollevata prendendola per il torace (dicono le perizie). Sarebbe stato sufficiente questo per sottrarla alla situazione di ipotetico stupore. Il procuratore generale Vittorio Nessi non ha neppure escluso che Cangialosi si sia alzato non alle 16.20 ma alle 16.38, e che non abbia affatto avuto il tempo di colpire. Non si spiegherebbe altrimenti perché il racconto di quel pomeriggio, sia da parte di Cangialosi sia da parte della Romani, copra gesti e movimenti che durano soltanto 3 minuti e mezzo: se dal risveglio di Cangialosi alla chiamata al 118 fossero passati davvero 20 minuti (dalle 16.20 alle 16.41), cosa sarebbe successo negli altri 17 minuti? Perché entrambi gli adulti, presenti in quella casa, avrebbero scelto di non raccontarlo? (...) “La responsabilità è di uno dei due” ha già scritto la Corte di assise di Novara, nella sentenza di primo grado. “I dati che hanno una valenza accusatoria per uno dei due protagonisti avrebbero valenza accusatoria nei confronti dell’altro”. E questa, dopo anni, è forse l’unica certezza» (Ilaria Cavo) [Pan 14/1/2010].
• Vive a Legnano. Si è risposata e ha avuto due figli.