10 febbraio 2014
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Biografia di Gaetano Riina
• Corleone (Palermo) 5 novembre 1933. Fratello di Totò (vedi). Diventato il capo dei Corleonesi, fu arrestato l’1 luglio 2011. Nel gennaio 2012 il tribunale del Riesame annullò un’ordinanza di custodia cautelare per concorso esterno in associazione camorristica emessa nei suoi confronti («Il gip copia. Riporta integralmente le parole dell’accusa, oppure si limita a riassumere le tesi dell’accusa contenute nelle richieste di arresto. Viene meno al suo ruolo istituzionale»), ma rimase comunque in carcere per altre accuse.
• «“Se c’è un fiore, c’è un fiore per tutti”, andava ripetendo (...) ai giovani mafiosi che cercavano di accaparrarsi i soldi delle estorsioni. Parlava da vecchio padrino lui, anche se non ha mai avuto una condanna per mafia. Bastava il cognome ad aprirgli le porte dei summit fra Corleone a Trapani, anche al cospetto degli emissari dell’ultimo latitante, Matteo Messina Denaro (...) era ormai di fatto il consigliere anziano della famiglia di Corleone. Anche se faceva di tutto per non atteggiarsi a capomafia e fingeva di essere ancora un tranquillo pensionato con casa sul lungomare di Mazara del Vallo. Di certo, non sospettava di essere intercettato dai carabinieri del Ros e del Gruppo Monreale. Continuava a dispensare consigli e ordini, soprattutto per le estorsioni. (...) “Quelli che indagano quaquaraqua sono”, sentenziava. E ai suoi spiegava: “Con Totò ci capiamo con uno sguardo”. Poi, attaccava con il ritornello preferito: “Mio fratello è solo una povera vittima, perché la politica l’ha voluto distruggere” (...) Non aveva da difendere solo un cognome. Discuteva animatamente con i giovani mafiosi anche per custodire i confini stabiliti (...) dal fratello. Così ribadì ai rampanti di San Giuseppe Jato, che volevano addirittura erodere un pezzo di territorio a Corleone, e acquisire il diritto a riscuotere il pizzo: “Con queste teste moderne non si ci parla. Ho detto che il confine è in quell’albero, e rimane tale. Io vedo più lontano di voi” (...)» (Salvo Palazzolo) [Rep 2/7/2011].
• «La sua ossessione è stata sempre quella di nascondere la ricchezza della famiglia. Per lui era un tormento pensare che qualcuno potesse immaginare che in casa sua fossero nascosti tesori, soldi, gioielli. Era una maledizione quella dei “piccioli” che lo straziava, che lo faceva vivere malamente. E proprio per questo si ostinava a viaggiare su una vecchia Golf tutta sgangherata, ruggine sulla carrozzeria, il motore che buttava fumo e perdeva olio, il parabrezza sfregiato. Così, a modo suo, faceva capire a tutti che lui e gli altri Riina campavano umilmente nonostante il fratello – lo “zio Totò” – fosse considerato il capo dei capi di Cosa nostra. Mai esibire averi. Glielo diceva sempre suo fratello. Fu proprio per colpa di quella Golf da rottamare che, un giorno, abbiamo conosciuto Tano Riina. Era rimasto in panne sul rettilineo dopo il casino di caccia della Ficuzza, uno stradone senza un albero prima degli ultimi tornanti che si arrampicano verso Corleone. Pioveva, faceva freddo. Lui veniva da Palermo dove aveva parlato con l’avvocato Nino Fileccia, il penalista che da una vita difendeva tutti i maschi della famiglia. Totò Riina era in carcere da poco più di un mese dopo un quarto di secolo di latitanza, il fratello Tano faceva ogni giorno la staffetta fra lo studio legale palermitano e il suo paese. L’anno era il 1993, il mese marzo. Salì sulla nostra auto dopo avere caricato una valigia piena di carte (una dozzina di ordinanze di custodia cautelare firmate contro il fratello, accusato di un centinaio di omicidi e una decina di stragi) e dopo averci riconosciuto – “Giornalisti e pentiti a noialtri ci hanno rovinato” – senza dire né grazie né prego ha approfittato del nostro passaggio con la bocca cucita. Quindici minuti di silenzio cupo fino al bastione sotto vicolo Scorsone, dove al civico 24 abitava la cognata Ninetta Bagarella, la moglie di Totò Riina. Quando stava per congedarsi – sempre chiuso in un mutismo assoluto – gli abbiamo chiesto se avremmo potuto rivederlo. Così, per fare due chiacchiere. Per capire meglio chi erano i Riina di Corleone, da dove venivano, quale era la loro storia fuori dalle inchieste giudiziarie e dai processi. Fece un cenno con la testa: voleva dire di sì. Nei giorni e nelle settimane successive ci siamo rivisti quattro o cinque volte. Sulla piazza di Corleone. Incontri surreali. Dialoghi fatti di sguardi, di cenni e di silenzi. Una parlata contorta, faticosa. Ogni tanto una frase lasciata in sospeso da lui, una pausa e poi un’altra mezza parola, un altro messaggio da decifrare. Il resoconto di quelle conversazioni è finito su un taccuino che lui non ha mai visto. Incontro dopo incontro Gaetano Riina diceva qualcosa in più – per esempio sul padre Giovanni, che faceva il contadino e che era morto mentre cercava di disinnescare una bomba americana ritrovata nei campi – fino a quando un pomeriggio, mentre eravamo sempre sulla piazza di Corleone, davanti a noi cominciarono ad apparire decine di auto della polizia e dei carabinieri. Era in corso un’operazione antimafia, stavano cercando latitanti. Gaetano Riina sibilò qualcosa, le ultime parole erano: “Questi qua ce li ha portati il signor Buscetta...”. Fu a quel punto che – non aspettandoci una grande risposta – azzardammo comunque la domanda: “Zio Tano, ma lei che ne piglia, cosa pensa veramente di Buscetta?”. Il fratello di Totò Riina aveva lo sguardo rassegnato, si sentiva ormai uno sconfitto. E con il suo linguaggio spiegò perché era l’inizio della fine della mafia di Corleone, la fine della sua tribù. Disse Gaetano Riina: “Tommaso Buscetta ha viaggiato troppo. È andato in Continente, a Milano e a Torino. È andato a New York. E poi è andato anche in Brasile. Vitti ù munnu e ci scattiò ù cerveddu”. Ha visto il mondo e gli è scoppiato il cervello» (Salvo Palazzolo) [Rep 2/7/2011].