4 febbraio 2014
Tags : Marco Piagentini
Biografia di Marco Piagentini
• Viareggio (Lucca ) 24 novembre 1968. Perse la moglie Stefania, 40 anni, i figli Lorenzo, due anni, e Luca, quattro e mezzo, nella strage di Viareggio (23.48 del 29 giugno 2009, un treno carico di gpl deragliò ed esplose nella stazione uccidendo 31 persone), l’altro figlio Leonardo (Pietrasanta, Lucca, 16 giugno 2001) si salvò.
• «Quella sera lui era un filo d’erba piegato, la falce della morte non l’ha visto. Poi in coma un mese e mezzo e la morte non l’ha vinto. In sei mesi di camera sterile, operazioni, medicazioni, ha sopportato il dolore fisico, l’attesa, i ricordi che fanno male, assenze più pericolose delle infezioni. Adesso (...) è salvo, se salvo può essere una parola possibile per un grande ustionato che ha perduto la moglie e due bambini. “Salvo” vuol dire che ha fatto il miracolo di resistere a ustioni di secondo e terzo grado sul 90 per cento del corpo. Resistere finché ha riavuto lo scudo fra lui e il mondo: la pelle (...) “Sembrerà strano ma io ho saputo che mi era rimasto soltanto Leonardo mentre ero in coma farmacologico. Quando mi sono svegliato vedevo gli occhi dei miei genitori che cercavano in modo disperato di farsi e farmi forza. Non potevano andare avanti a lungo senza dirmi cos’era successo e così un giorno è stato mio cognato ad affrontare la questione. Stefania e i bambini erano morti. Però per me non è stata una sorpresa. Lo sapevo già, non c’era bisogno delle parole. Non saprei come spiegarlo ma in qualche modo dal coma l’avevo percepito. Avevo la sensazione fortissima di sentire la voce di Leonardo, ma soltanto la sua, gli altri no, nemmeno un lamento. Avevo incubi e in questi incubi Leonardo era una presenza positiva, l’unica. Gli altri erano assenti, non li ho mai nemmeno sognati e la mia mente ha tradotto tutto questo nella certezza che niente sogni voleva dire niente vita. Erano morti”. Eppure la sera del 29, prima che i medici lo costringessero al sonno, Marco (rimasto fino ad allora cosciente) ha chiuso gli occhi pensando esattamente il contrario. E cioè di aver perduto soltanto Leonardo. “Vedo Stefania come fosse qui, adesso. La vedo in piedi sul marciapiede davanti a casa nostra, con Lorenzo fra le braccia. E rivedo Luca nella macchina dove io l’avevo messo credendolo più al sicuro”. Ci sono ricordi che hanno bisogno di pause per diventare parole. Marco riprende fiato, guarda negli occhi il suo avvocato, Graziano Maffei, e riprende il racconto. “Il mio Luca… Dopo il rumore del treno che deragliava e dopo quell’odore fortissimo di gas avevo capito che eravamo tutti in pericolo. L’ho strappato dal letto mentre dormiva e sono corso fuori. Si è svegliato un momento e mi ha guardato. Avrà pensato ‘sono fra le braccia di mio papà, al sicuro’ e si è rimesso a dormire. L’istinto mi ha detto di metterlo in macchina e così ho fatto. Li ho lasciati lì fuori e sono corso in casa di nuovo, a prendere Leonardo. E in quel momento è stato il finimondo. Ho visto arrivare la fiamma, blu, alta come questa stanza. Sono salvo perché ho trattenuto il fiato e mi dicono che se avessi inalato il gas mi sarei bruciato gola e polmoni, senza scampo. Le macerie mi hanno sommerso e io pensavo a Leonardo, lo credevo morto. Non immaginavo proprio che il fuoco potesse prendersi Stefania e Lorenzo o raggiungere la macchina dove dormiva Luca. Ora quando penso a loro mi dico sempre che sapevano far felici gli altri. Li ricordo partendo da questa premessa”. La famiglia Piagentini viveva al numero 36 di via Pietrasanta, quasi all’angolo con via Ponchielli, la strada-simbolo della strage, distrutta dalla prima all’ultima casa. “Da (...) quando sono tornato a Viareggio, sono stato più volte davanti a casa mia e in via Ponchielli, inseguito da ricordi e angosce. È un luogo che mi fa paura. Rivedere casa mia la prima volta dopo l’ospedale è stata una sensazione pazzesca ma dovevo farlo. Non voglio vivere con i fantasmi addosso, voglio affrontarli”. Dalle macerie spuntano dettagli che fanno male: “Per esempio le mattonelle del bagno o della cucina” dice Marco. Se ne vede qualcuna. “Impossibile non ripensare agli spazi e ai momenti condivisi con la mia famiglia fra quelle mattonelle”. Il nastro della memoria rincorre un giorno di dicembre, quando Leonardo andò a trovarlo per la prima volta, in ospedale. “Avevo miliardi di cose da dirgli ma per l’emozione non sono riuscito a dire niente. L’ho toccato, lei sa cosa significa poter toccare qualcuno dopo mesi di camera sterile fra i grandi ustionati?”. Nessuno può saperlo salvo chi l’ha vissuto. Difficile persino immaginare la catena di emozioni e difficoltà nei giorni di un grande ustionato. Prima di uscire, ogni mattina, Marco deve medicarsi, farsi aiutare per indossare i tutori che proteggono la pelle. Ne porta uno anche sul volto, trasparente ma non abbastanza perché qualcuno non si volti a guardarlo. “Non ci faccio caso. Esco e faccio una vita il più possibile normale. Non posso arrendermi e chiudermi in casa. Buttarmi via sarebbe un gesto che Stefania e i bambini non meritano. Io sono cattolico. Loro sono qui, accanto a me e non posso deluderli”. Di delusioni, semmai, Marco ne ha incassate. “Il silenzio sulla strage è stato deludente. E poi trovo sconcertante la misteriosa lunghezza delle indagini”. Ne avrebbe di cose da dire, Marco. Di rabbia da smaltire. Ma naviga a vista ogni giorno e stavolta all’orizzonte vede la sua famiglia, mille volte più importante di ogni polemica» (Giusi Fasano) [Cds 2/4/2010].
• Il 14 novembre 2013 scrisse una lettera al presidente del Consiglio Enrico Letta, pubblicata dal Tirreno il 19 novembre, dopo aver saputo che lo Stato non si sarebbe costituito parte civile nel processo per il disastro ferroviario: «(…) Non ci si può sedere in un’aula di tribunale, con il dolore che ti sfonda lo stomaco, pur con il rispetto e il dovuto decoro, aspettando una giustizia con la G maiuscola, per poi sentire che il tuo Stato ti volta le spalle. E per cosa? Per soldi? No, non lo accetto. Se Lei si togliesse un attimo la tonaca della carica che riveste e guardasse il mondo con gli occhi dei suoi figli, forse capirebbe l’atto insulso e vigliacco che ha fatto. (…) Caro Presidente, guardi i suoi bambini e da padre e uomo mi risponda... PERCHÉ? È la domanda che mi fa mio figlio Leonardo e alla quale non riesco a rispondere. Non pretendo che lo faccia Lei; ciò che Le chiedo è di non voltarci le spalle, non se ne lavi le mani. Si comporti da uomo, cambi questo ulteriore scempio, ci ripensi; perché un errore può essere commesso, ma rimediare a un errore tornando sui propri passi, dimostra una coscienza. Già, la coscienza che in questo atto vile non si è vista». La risposta di Letta, il 20 novembre, sulle pagine dello stesso quotidiano: «Caro direttore, di fronte alle parole durissime che il signor Piagentini mi rivolge, e che il Tirreno ieri ha pubblicato, ogni cedimento a una retorica vuota e lacrimevole suonerebbe oggi come un affronto al dolore dei familiari delle vittime della strage di Viareggio. Soprattutto, potrebbe apparire come un venir meno alla richiesta di giustizia e verità che così intensamente permea, anzi colpisce, quella lettera. È una richiesta – lo dico subito – legittima, sacrosanta. Una richiesta che personalmente e a nome del governo che presiedo condivido fin nel profondo. Per questo provo qui a concentrarmi solo sui dati oggettivi della vicenda. Provo a spiegare le ragioni – giuridiche, obiettive, fattuali – della scelta della Presidenza del Consiglio di non costituirsi parte civile. Provo a dare un senso a quel “perché” apparentemente senza risposte possibili, umanamente accettabili. Anzitutto, una premessa doverosa. La costituzione di parte civile delle amministrazioni statali, quale è la Presidenza del Consiglio, nel processo penale non serve ad assicurare l’accertamento della verità e delle responsabilità. Ciò compete solo ed esclusivamente all’azione esercitata, davanti al giudice e col doveroso rigore, dal Pubblico Ministero. È il punto chiave della questione: lo Stato è presente attraverso il potere cui è demandata, per Costituzione, la responsabilità di fare giustizia. Non può esserlo attraverso un altro potere che non ha la titolarità formale della questione. I piani non possono sovrapporsi. In secondo luogo, la costituzione di parte civile da parte di un’amministrazione pubblica non può essere utilizzata per ottenere il ristoro dei danni e delle sofferenze patite dalle vittime. Anche questo, volenti o nolenti, è un dato di fatto. La costituzione di parte civile può essere unicamente diretta a ottenere il risarcimento dei danni che l’amministrazione medesima ha subito a causa dei fatti di reato contestati. Penso, ad esempio, alle spese sostenute, dopo questi tragici eventi, dalla Protezione civile o dal Ministero dell’ambiente. Nel caso della strage di Viareggio, da parte del presunto autore dei reati, vale a dire del Gruppo Ferrovie dello Stato, c’è stata una proposta che offriva l’integrale risarcimento del danno. Integrale. Di fronte a questa proposta l’Amministrazione statale sul piano processuale non avrebbe potuto costituirsi in giudizio, per chiedere un risarcimento che veniva offerto, appunto, fuori dal processo. Tutto il resto – la vicinanza a una comunità così drammaticamente colpita, la comprensione delle dimensioni spaventose del dramma, la presenza delle istituzioni – può e deve esplicarsi per altre vie. La mia di vicinanza, la ribadisco anche attraverso questo intervento pubblico perché formalmente, con un processo in corso, non ho altra strada da percorrere se non quella del sostegno personale, unito all’impegno a seguire con attenzione ogni ulteriore evoluzione della vicenda. Sul piano politico, invece, posso da presidente del Consiglio garantire che il governo che ho l’onore di guidare destinerà risorse di importo analogo al risarcimento offerto nella proposta di Ferrovie dello Stato – dunque, circa 15 milioni di euro complessivi – al finanziamento di interventi di protezione civile a sostegno delle popolazioni colpite da eventi drammatici e così dolorosi» (Tir 20/11/2013).