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 2014  gennaio 15 Mercoledì calendario

Biografia di Antonio Mancini

• Castiglione a Casauria (Pescara) 4 febbraio 1948. L’Accattone della Banda della Magliana. Pentito e detenuto ai domiciliari in località protetta, ha finito di scontare la pena nel 2012.
• «(...) L’uomo che girava per le vie di Roma con una Ferrari metallizzata, che sparava guardando in faccia la vittima, che passava serate di cocaina e champagne (...) Nella banda della Magliana era l’unico a dirsi comunista, chiamò due suoi cani Stalin e Cuba. Gli altri “soci” erano tutti di destra. (...) Nella banda della Magliana era l’unico ad amare il rock. Gli altri ascoltavano Celentano, melodie napoletane, Iglesias. Mancini è uno degli ultimi rimasti in vita della banda che gestì la criminalità a Roma alla fine degli anni ’70. Sotto il marchio Magliana si riunirono una serie di bande di quartiere. Mancini veniva da San Basilio. (...) Anni più tardi, venne il pentimento di Maurizio Abbatino, il pressing dei magistrati affinché Mancini si pentisse, il desiderio di vedere un giorno la figlia che stava nascendo. Anche Antonio diventò un “infame”, cioè un pentito. Nel marzo ’94, in un’aula di tribunale, disse del “senso di disgusto, vorrei dire di nausea, che ha suscitato in me il rendermi conto che siamo stati usati, strumentalizzati per fini di bassa politica che nulla avevano a che fare né con i nostri interessi né con i nostri obiettivi...”. Mancini parla ai magistrati del mitra acquistato da un sottufficiale di polizia e ritrovato nel deposito della banda al ministero della Sanità, parla degli incontri tra il direttore del centro Roma 2 del Sisde e Abbruciati e delle cene con Enrico De Pedis, detto Renatino, Ernesto Diotallevi e il mafioso siciliano Pippo Calò. Renatino è sepolto, per motivi mai spiegati, nella basilica di Sant’Apollinare, a Roma. (...)» (Andrea Garibaldi) [Cds 15/5/2007].
• «È stato Enrico “Renatino” De Pedis a occuparsi personalmente del rapimento di Emanuela Orlandi, un sequestro che avvenne “nel quadro di problemi finanziari con il Vaticano”. Lo ha sostenuto Antonio Mancini (...) davanti al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e al capo della Mobile, Vittorio Rizzi. Mancini ha spiegato di averlo appreso dai vertici della Magliana. Per il sequestro, De Pedis (ucciso nel ’90) si sarebbe servito di altri appartenenti al suo gruppo, quello dei Testaccini. (...)» (Cds 11/12/2009).
• «(...) Ai tempi in cui sparava, si faceva chiamare l’Accattone perché era come quello del film di Pasolini: “Io ero Accattone co’ nove machine, ao!” precisa. Fieramente si sente “comunista qui”, dice battendosi sul cuore, “perché ho sempre dato una mano ai poveracci”. (...) “(...) Quando sono uscito di galera, nel ’93, per discutere di come recuperare il mio denaro, venivano continuamente a casa mia, all’Axa, Gennaro Mokbel e D’Inzillo. Io gratificavo Mokbel e D’Inzillo: più di una volta ho dato a tutti e due dieci milioni ciascuno” (...) Collaboratore di giustizia dal ’94, ma senza rimpianti né rimorsi: “Sognavo di fare il bandito da quando avevo sei anni.... Anche se adesso col senno di poi non lo rifarei... sono stato in galera 30 anni” (...) De Pedis e Mancini erano stati grandi amici prima che la faida scoppiasse e la banda finisse decimata. “Quanto era noioso De Pedis, non si faceva neanche una canna... Se aveva contatti diretti in Vaticano? Tramite alcuni monsignori. Sono sicuro che la scomparsa di Emanuela Orlandi è opera sua. Io l’ho saputo, perché dovevo saperlo, perché a me non si potevano nascondere certe notizie. Il motivo è una questione di denaro. Prima ci fu l’attentato a Roberto Rosone, il vicepresidente dell’Ambrosiano, che si doveva ‘addolcire’ perché metteva i bastoni tra le ruote a Calvi. Poi furono fatte avere delle fotografie al Papa: lo ritraevano in una piscina attorniato da suore. Gliele avrebbe portate Licio Gelli, ma non ebbero effetto. Infine l’impiccagione di Calvi. Visto che il denaro non rientrava De Pedis decise di portar via la ragazzina”. Mancini è ateo. Dice di non riuscirsi a fidare, tranne eccezioni, di avvocati, giornalisti, magistrati: “Una volta m’è scappato, in uno dei primi interrogatori, nel ’94, il nome di Previti, che tra noi si sapeva aggiustasse i processi. Ma quel nome non l’ha sentito nessuno, non l’hanno segnato sul verbale”» (Angela Camuso) [Unt 26/2/2010].
• «“Io non sono buono, sò un figlio de na mignotta”. I capelli bianchi, gli occhi neri, due fessure protette dagli occhiali. (…) Ai tempi in cui divideva proventi, cocaina e azioni con gli amici fascisti, Mancini sfiorava l’eresia. Leggeva Pasolini, prendeva la mira parafrasando Mohammed Alì: “Bumayè”, regolava conti, dominava Roma: “Ero un drizzatorti. Conquistavo zone, esigevo crediti, punivo gli insolventi. A San Basilio i nomi delle strade erano paesi delle Marche. Quando me sò pentito mi è venuto spontaneo indicà uno di quei posti”. Integrazione completata. Oggi Mancini è un uomo libero. Quindici anni di carcere. Condanne scontate. Nessuna pendenza. (…) Nel tempo libero, quando i demoni di un passato incancellabile non tornano a fargli visita, Mancini aiuta i disabili. Loro non sanno. E lo adorano. “Un giorno vidi passare un pulmino pieno di ragazzini. Salutavano. Andai da Sebastianelli, il commissario di polizia del luogo e lo pregai: ‘Mi dia una possibilità, sarei felice di fare il buffone per loro’. Lui garantì per me e adesso, quell’impegno è diventata la ragione della mia vita”. L’accento romano è imbastardito. I ricordi lucidi. La rabbia ancora giovane. “Sono anni che dico che la Magliana è viva. I magistrati mi danno retta a intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A domanda rispondo e se non so, sto zitto”. Quante persone ha ucciso, Mancini? “Con la ‘bandaccia’ tante. Prima, quando operavo a Val Melaina, ancora di più. Ogni volta che dovevo ammazzà qualcuno io dicevo ‘lo mandamo a salutà Adriano’. Era come una parola d’ordine”. Chi era Adriano? “Mio padre. Comunista tutto d’uno pezzo. Me diceva sempre ‘addavenì baffone’. Sotto lo studio di Lucio Libertini, il deputato, aveva messo le radici. Libertini gli aveva promesso una casa popolare. Noi vivevamo in otto in due camere. Ma baffone non arrivava mai e mio padre è morto senza avere un tetto. E io guardavo quelli con il Rolex e la Ferrari e mi ripetevo: ‘Mejo dù anni ar gabbio che stà in due camere con sei creature’”. (…) Pentimenti? “Affrontavo le curve a 300 all’ora ed ero convinto che sarei morto a 30 anni. Ho risparmiato gente che avrebbe meritato di morire e ucciso fratelli che si fidavano di me”. E le sembra normale? “Un mio amico studioso di sciamanesimo sostiene che in fondo non sia successo niente. Il mio è solo un percorso di vita. A 12 anni volevo dominare il mondo. Quando la cavalcata epica si è trasformata in una pozzanghera di sangue, ho detto basta. La mia prima figlia era cresciuta senza un padre, non volevo che con la seconda accadesse lo stesso”. Uccideva per i soldi? “Sono stato miliardario, ma il denaro l’ho sempre disprezzato. I soldi li ho avuti ma me li sò magnati tutti. Adesso sono rovinato, dormo in uno spazio grande come una cabina telefonica” (…)» (Rita Di Giovacchino e Malcom Pagani) [Fat 15/5/2012].
• «La mia vita non è stato un pranzo di gala. Ho incontrato infami e cornuti. Ho sparato, ucciso e sempre saputo che un colpo poteva ammazzare anche me. Quando te tocca te tocca, è inutile che ti guardi le spalle. Se arriva, arriva» (Mancini a Di Giovacchino e Pagani).
• Federica Sciarelli gli dedicò un libro-intervista dal titolo Con il sangue agli occhi: un boss della banda della Magliana si racconta (Rizzoli, 2007).