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 2014  gennaio 12 Domenica calendario

È morto Ariel Sharon, e le agenzie hanno raccolto ieri i seguenti commenti. Obama: «Ha dedicato la sua vita allo Stato di Israele»

È morto Ariel Sharon, e le agenzie hanno raccolto ieri i seguenti commenti. Obama: «Ha dedicato la sua vita allo Stato di Israele». Putin: «Ha contribuito in modo significativo all’espansione della cooperazione». Schultz, presidente del Parlamento europeo: «Ha lasciato il segno nell’intero Medio Oriente». Cameron, premier inglese: «Uno dei personaggi più importanti nella storia di Israele». Hollande: «Scelse di dialogare con i palestinesi». Merkel: «Ha fatto un passo storico sulla via di un accordo con i palestinesi». Il nostro Casini: «Una grande personalità, un uomo di pace».

Sa che di questo Sharon mi ricordavo e non mi ricordavo? Prima di aver visto i tg di ieri sera, naturalmente.
I commenti del mondo (a parte quello dei palestinesi di Hamas, che lo definiscono «mani di sangue») sono ancora più singolari se si ripercorre la biografia del nostro uomo. Soldato-soldato, anzi soldato-militarista, fin da ragazzo. Nel 1953 combatte non solo in prima linea, ma oltre le linee, si ferisce nella battaglia di Latrun contro i giordani, guida l’unità 101 che vendica le incursioni dei fedayn nel suo Paese, carrista, paracadutista, eroe della Guerra dei Sei giorni e di quella del Kippur, estremista di destra e fondatore del Likud, il movimento che fonde tutte le destre nazionaliste del Paese. Come tutti i militari militaristi disprezza i politici, che a loro volta lo detestano. Non lo mettono mai a capo delle forze armate, ma, dopo la fondazione del Likud, diventa ministro della Difesa e lascia che le falangi cristiane massacrino i profughi palestinesi nel campi di Sabra e Shatila (3.500 morti secondo la stima peggiore). Da politico, lascia che sulla Striscia di Gaza, un tempo appartenente all’Egitto e occupata dagli israeliani nel 1967, si insedi una popolazione di ottomila coloni israeliani, una provocazione evidente per il milione e passa di palestinesi che vivono lì. Poi passeggia sulla spianata delle Moschee, provocando ancora una volta la rabbia araba e l’inizio della seconda Intifada. E con questo siamo arrivati all’anno 2000. Sia pure in poche righe, come vede, abbiamo delineato il ritratto di un guerrafondaio piuttosto sanguinario.  

• Già. Come si spiega allora tutto questo cordoglio mondiale e certe espressioni dei potenti che lo definiscono «uomo di pace»?
Nel 2005, Sharon era diventato primo ministro. La sera di Ferragosto apparve in tv e disse: «Non possiamo tenere la Striscia di Gaza per sempre. Vi abitano oltre un milione di palestinesi e il loro numero raddoppia ad ogni generazione. Vivono in campi profughi sovraffollati, in condizioni di povertà e disperazione, in focolai di crescente odio senza alcuna speranza». Annunciò che gli ottomila coloni avevano due giorni di tempo per sgomberare. Obbedendo, avrebbero avuto soldi e una casa altrove. Disobbedendo sarebbero stati schiacciati dai bulldozer.

Durissimo anche con i suoi. Come reagirono i coloni?
La presero male, ma sgombrarono in 48 ore. Persino quelli di Neve Dekalim, i più decisi a resistere. Sharon spiegò ai suoi compagni di partito che, dopo la guerra di Bush in Iraq, Israele non poteva più considerarsi un’isola circondata da nemici intenzionati a distruggerla, ma l’avamposto della democrazia in Oriente. Dei coloni non c’è più bisogno – disse – essi anzi rappresentano un ostacolo sulla via della pace. Inoltre: nella Striscia di Gaza vivono un milione e 400 mila palestinesi che tra vent’anni saranno quasi tre milioni. Gli israeliani di Gaza – spiegò ancora – sono in tutto poco meno di novemila. I palestinesi sono poveri e, per un terzo, vivono in campi profughi. Al 60 per cento sono disoccupati. La metà ha meno di 14 anni. Come governare una situazione simile? Da tutti i punti di vista – concluse – è meglio andarsene, è meglio che nasca uno Stato palestinese, è meglio che Israele diventi più piccolo, ma resti un paese democratico. Il Likud si spaccò in due. Sharon fondò allora un altro partito, Kadima, «Avanti!». Con questo avrebbe vinto le elezioni in programma di lì a pochi giorni.  

Come mai tutto questo non ebbe poi alcun effetto sul processo di pace?
Per via dell’ictus. Sharon ebbe un primo attacco a dicembre, più leggero, poi un colpo devastante il 4 gennaio 2006. Entrò in coma e non ne uscì più per otto anni. Qualcuno, ieri, alla notizia della fine, ha commentato: «È morto per la seconda volta».  

Il grande guerrafondaio avrebbe favorito il processo di pace?
A gennaio c’erano le elezioni, e Sharon le avrebbe vinte. Con lui fuori gioco, invece, il partito Kadima andò in pezzi. Probabilmente sì, con lui vivo avremmo una situazione meno complicata laggiù. Sharon, scomparso a 85 anni, è forse la conferma che qualche volta vanno meglio, per le politiche di pace, i guerrafondai.