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 2014  gennaio 07 Martedì calendario

Biografia di Ruggero Jucker

• Milano 1966 (~). Imprenditore del catering, il 20 luglio 2002, a Milano in via Corridoni, alle 4.30 del mattino, uccise a coltellate e squartò la fidanzata Alenya Bartolotto. Il 21 gennaio 2013 è uscito dal carcere: «Condannato nel 2003 in primo grado a 30 anni con il rito abbreviato, grazie al patteggiamento, ancora possibile in appello, e a un diverso bilanciamento tra attenuanti e aggravanti, nel 2005 si vide ridurre la pena a 16 anni di carcere e tre di casa di cura. L’indulto del 2006 e la “liberazione anticipata” (tre mesi ogni anno scontato) garantita a tutti i reclusi che non violano la buona condotta, hanno fatto precipitare il conto totale a soli 10 anni e mezzo, con il tribunale di sorveglianza che ha annullato il trattamento post carcere perché l’ex imprenditore del catering si è sottoposto a cure psichiatriche in cella» (Giuseppe Guastella) [Cds 14/2/2013].  
• «(…) Ricco e amante del bello. Bella, e vitale, era lei, la fidanzata dal profilo delicato, studentessa e commessa di buona famiglia come ottima e storica era quella di lui. Poppy, il figlio di Mimmino e di Lalla, nomignoli che usano nell’alta società e ingentiliscono l’austero cognome svizzero-tedesco. Il nome di lei veniva da un villaggio pirenaico circondato di albicocchi e vigneti. Dieci anni. Non hanno cancellato nulla di una scena che ancora fa tremare il sangue alle più dure tra le pellacce di cuoio della questura. Che fece inginocchiare durante un sopralluogo, e farsi il segno del cristiano, e pregare, pure un magistrato che aveva affondato le mani nella notte della Repubblica come Guido Salvini. Via Filippo Corridoni 41, due ore all’alba di sabato 20 luglio 2002. Ruggero Jucker e Alenya Bortolotto. La notte dell’orrore. Memorie e ferite ancora vive. Ruggero il rampollo, ramo cadetto di una famiglia di collezionisti dei migliori autori contemporanei, aveva 36 anni all’epoca. La vita, oltre ai soldi e al gusto, gli aveva dato tutto. Aveva lavorato col padre nell’azienda di impianti idraulici, poi la madre, regina del catering di lusso nei quartieri alti, lo aveva mandato a studiare cucina a New York. A Milano, in via Sottocorno, aveva aperto la J Zuppe, ristorazione vegetariana di tendenza. Aveva conosciuto Alenya, 26 anni, al Wp Store dove gli Jucker andavano a fare acquisti. Commessa part time, studentessa di Scienze politiche. Due case. Quella in corso Concordia di papà Robertino, manager e amico di pezzi grossi di Forza Italia (da Michele Saponara che sarà l’avvocato di parte civile a Marcello Dell’Utri), e quella di via Bazzoni di Patrizia Rota, braccio di un manager assicurativo. Murielle, 23 anni, è la goccia d’acqua della sorella, le distingue solo la cascata di dreads sulle spalle. Alenya e Poppy. Legame solido, dura da un anno e mezzo, l’appartamento di lui in via Melzo è in ristrutturazione e sarà il loro nido. Per ora c’è l’appartamento di via Corridoni, nel cuore del loro agiato quadrilatero, pieno di libri e di coltelli orientali, le pareti gialle e l’ottocentesco tavolone in legno (ma con le ruote), l’enorme frigo metallico e il letto a baldacchino, le polaroid di lui e lei sulla credenza e i leoni in pietra, il manifesto di McCarthy (un cuoco con uno spiedino sanguinolento in mano) e il giardinetto interno, le frasi di Pasolini (“Adulto? Mai”) al muro e i libri estremi di fotografi giapponesi che riprendono le torture sulle donne. Segnali. Alenya da un paio di settimane con un velo di tristezza sugli occhi. “Come fosse sul punto di piangere”, la ricorderà una barista del quartiere. Ruggero più che inquieto. Quella freddezza gentile ed educata aveva cominciato a partorire scatti d’ira e frasi sconnesse. Il neurologo da cui lo aveva portato la madre Lalla aveva prescritto litio. Da New York era tornato Dario, il fratello minore avvocato presso lo studio Carnelutti. Il catering da preparare per un evento Vodafone aveva sovralimentato lo stress. Venerdì 19 luglio, dopo aver cenato con padre e fratello in viale Premuda, Poppy citofona ai Bortolotto in corso Concordia. Sono le 22. Alenya scende, a piedi vanno verso via Corridoni. Durante il tragitto racconta il sogno di mamma Patrizia: un nipote, un figlio, il loro. A casa, lui si fa una doccia, insieme fumano una canna e vanno a letto. Quando Ruggero Jucker si sveglia è nervosissimo. Ringhia, insulta, minaccia. Alenya va verso il telefono fisso, lui glielo strappa di mano. Poi scarta l’ultimo regalo di un amico, un coltello da sushi istoriato con ideogrammi. Alenya corre in bagno ma la porta non ha chiave e la finestra ha le inferriate. Sono le 3. La prima coltellata è alla schiena, ne seguiranno quaranta. Pezzi di cadavere gettati nel giardinetto. E poi silenzio, per un’ora. In cui Ruggero mette gli indumenti sporchi in lavatrice, telefona (lo diranno i tabulati) al fratello, vaga. Poi la scena finale: il rampollo Jucker si aggrappa al cancello interno urlando “sono Osama Bin Laden”, esce nudo sul marciapiede e ulula “sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”, ai vicini che si affacciano motteggia “un, due, tre, buonasera”. Quando una volante lo porta via, risponde placido: “Mi saluti la mamma e il papà”. Segue lo sgomento. Seguono le pietrate alla vetrina della zupperia in via Sottocorno: mai più riaperta, c’è un “affittasi” ancora oggi. Seguono le perizie, gli interrogatori, i processi, le analisi sul rapporto madre-figlia, la fredda lettera di scuse degli Jucker ai Bortolotto, Ruggero che non sa spiegare quel furore su “Alenya, poverina, lei non c’entra nulla”» (Massimo Pisa) [Rep 27/7/2012].
• «(...) Un’ora e mezzo dopo è in strada, nudo, sporco di sangue e grida: “Sono Bin Laden”. Confessa al primo interrogatorio. “Non ricordo il numero di colpi che ho dato. Tanti. Il primo alla spalla, e ho fatto cose irripetibili? Anzi, se c’è bisogno posso ripeterle?”. La capacità di intendere e di volere di Jucker, diranno gli psichiatri, è in quella notte di luglio “grandemente scemata”. Due sapienti attribuiscono quella assassina crudeltà a una patologia “prepsicotica”. Gli psichiatri scrivono che l’assassino descrive il suo delitto “senza un’espressione, se non meramente formale, di pietà verso la vittima”. In Jucker “non c’è accenno di rimorso vero o pena interiore”. Egli appare incapace di “un giudizio moralmente autosanzionatorio”. Il processo di primo grado è in questo bivio. È pazzo, Jucker? E quanto è pazzo? È tanto folle da non poterlo dire responsabile del delitto? Il giudizio è salomonico. Ruggero Jucker è “seminfermo di mente”. La sua patologia non può giustificare però il disumano sadismo dell’assassinio (ha “eviscerato” Alenya mentre era ancora viva, scrivono gli anatomopatologi). Trenta anni di carcere, sembrano ai giudici una pena equa. Le acque si confondono e si intorbidano. Gli avvocati di Jucker chiedono di “patteggiare”. Patteggiamento vuol dire che accusa e difesa si accordano per una pena da infliggere all’imputato. È uno scambio. L’imputato si dichiara colpevole. L’accusa riduce la pretesa punitiva. Si fa in fretta perché non c’è dibattimento (e non c’è pubblicità). In questo caso, il patto prevede di considerare Ruggero Jucker matto quanto crudele, contrariamente al primo giudizio che lo ha considerato più crudele che matto. In equilibrio (equivalenti) le aggravanti e le attenuanti, l’omicidio non è più “aggravato”, ma ”semplice”. Massimo della pena, 24 anni. Un terzo della pena (8 anni) cade per la disponibilità della difesa ad accettare il rito abbreviato. 24 anni diventano 16. (...)» (Giuseppe D’Avanzo) [Rep 19/1/2005].
• «(...) Rimarrà per sempre un omicidio senza movente. (...) Nessuno sarà in grado di spiegare ai genitori di Alenya cosa realmente accadde la notte del 20 luglio 2002. Né perché. Sono molti i punti oscuri del caso Jucker destinati a rimanere tali. “Perché l’imputato ha ucciso? Perché ha infierito sul corpo della giovane fidanzata? Capire il movente di questo delitto è ben più importante che stabilire una pena”. Ecco ciò che Guido Salvini, il giudice del primo grado, scriveva nella sentenza che condannava l’imputato a 30 anni di carcere. Si intuiva, tra le righe del provvedimento, che Salvini si sentiva in dovere nei confronti dei parenti di Alenya di dare una spiegazione a un omicidio così feroce. (…) Gli inquirenti non sono riusciti a chiarire la dinamica dell’omicidio, né cosa sia successo tra Ruggero e Alenya nelle ore precedenti il delitto. Non hanno capito se ci sia stato un litigio o una discussione che ha messo in crisi l’uomo. Gli esperti non hanno chiarito che cosa si sia scatenato nella mente di Jucker né quale fosse il motivo del malessere che aveva tanto allarmato la madre di Jucker nei giorni precedenti il delitto. L’uomo ha parlato di un’esperienza traumatica che sarebbe avvenuta in due discoteche milanesi, l’Hollywood e in un locale di via Marziale, quattro giorni prima dell’omicidio, ma non ha mai detto che cosa sia davvero successo. La notte del delitto Ruggero e Alenya, erano a letto, nella casa dell’uomo, in centro a Milano. Erano soli. L’unica persona che avrebbe potuto fornire una spiegazione di quei fatti, di quel delitto, del movente e di tutto ciò che non è mai stato chiarito è Jucker. Ma lui non ha mai voluto parlare (...) Gli unici brandelli di verità sono quelli che emergono dall’interrogatorio (il primo e unico) sostenuto davanti al gip Piero Gamacchio due giorni dopo l’omicidio. In quell’occasione, però, Jucker era ancora confuso, non ricordava nulla dell’omicidio, al magistrato aveva confessato il delitto: “Ho fatto cose irripetibili, l’ho uccisa e praticamente di più” aveva detto rifiutandosi poi di dare altri particolari della dinamica. (…) La verità di quel che accadde quella notte resta un mistero nascosto nella mente di Jucker» (Annalisa Camorani) [Rep 19/1/2005].