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 2014  gennaio 07 Martedì calendario

Il corriere di Eugenio Torelli Viollier (articolo del 28/12/1873)

Illustrazione Italiana, sabato 28 dicembre 1873
Questo corriere vien fuori nella settimana da Natale Capo d’anno; eppure deve cominciare tristamente. Nino Bixio è morto! È morto in un’isola dell’Oceano Indiano, di cholera, si dice. Dopo aver validamente contribuito alla libertà ed all’indipendenza d’Italia, cercava fortuna su que’ mari lontani: dopo aver dato ai figli una patria, voleva dar loro un patrimonio. La morte ha reciso in erba i suoi progetti.
Era della stoffa, di cui gli antichi facevano gli eroi. Mi ricordo d’averlo veduto una volta ad Alessandria, ov’egli comandava la sua divisione. Erano le otto del mattino, e faceva un freddo da spaccare le pietre. - Alessandria, fra le città del Piemonte, è forse la più fredda. M’ero appena levato di letto e dalla finestra della mia camera d’albergo guardando la via, vidi passare un uomo a cavallo, con un fanciullo a cavalcioni sul davanti della sella. -«Che gusto, dissi al cameriere d’andare a passeggiare a cavallo con questo freddo. - È il generale Bixio, mi rispose, e non va a passeggiare, ne torna. Ogni mattina esce all’alba, con uno de’ suoi figli, sopra un cavallo indiavolato, e va a galoppare in piazza d’armi sulla neve. Non c’è anima viva che s’arrischi a quell’ora in quel deserto. Nessuno capisce come padre e figlio possano tornar vivi».
Erano tutti così i Bixio; fiera gente, fatta per portar le pesanti armature del medio evo, e per dare e ricevere que’ terribilissimi fendenti descritti dal Tasso e dall’Ariosto. Il fratello di Nino, che fece fortuna in Francia e morì pochi anni fa, valicava il Cenisio a piedi, in abito da estate. Nel 1848, durante le famose giornate di giugno, ricevé nel petto una palla che lo passò da parte a parte, e guarì. Poco tempo dopo, ebbe un duello alla pistola con Thiers, ed un’altra palla in non so quale altra regione del corpo, e guarì ancora. Nino, d’altra parte, sfidò i pericoli della terra ed i pericoli del mare, le palle de’ fucili e la febbre gialla, il fuoco e l’acqua. Luogotenente generale e senatore del regno dopo una vita avventurosissima, egli aveva diritto al riposo: eppur no, a cinquant’anni volle ricominciare la vita. Era di quegli uomini che, dopo aver compiuto le dodici fatiche d’Ercole, domandavano: dov’è la tredicesima?
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Udii una volta sola Bixio parlare alla Camera, e mi piacque quel suo modo di parlare spiccio e rude, privo d’ogni sussiego, d’ogni velleità retorica. Quando la prima volta v’entrò, un deputato d’umor faceto disse: «Ecco l’Orco». Andò a sedere all’estrema sinistra, sulla Montagna. Quella sua faccia abbronzata, su venti campi di battaglia, i suoi capelli folti ed irti, le sue sopracciglia aggrottate, sotto le quali i suoi occhi vivacissimi mandavano lampi, fecero supporre a più d’uno dei suoi onorevoli colleghi, che il generale dovesse, invece di parole, gettar fuoco dalla bocca. S’aggiunga ch’egli aveva la riputazione d’uomo irascibile e feroce. Si raccontavano strani aneddoti sui suoi atti di violenza; né crocchi della destra lo si chiamava l’antropofago Bixio e si diceva ch’egli soleva accompagnare ogni ordine dato ai suoi volontari con un colpo di revolver.
Prese la parola la prima volta il 16 marzo 1861, a proposito d’una petizione « per allontanare i Francesi da Roma, » e tosto dié un segno della sua indole. Voltosi ad alcuni deputati, che avevano formato un crocchio, egli disse con ira: «Prego i signori deputati di cicalar un po’ meno quando si leggono le petizioni!».
Ma il discorso che fece non fu su questo tuono. Fu anzi conciliante, arguto, condito di buonsenso e di militare e marinaresca schiettezza. Dopo d’allora parlò spesso, e quasi sempre bene. «Mentre Bixio parla, – scriveva un biografo sette o otto anni fa, – si direbbe che una mano misteriosa batta la carica sotto il suo banco, e le sue parole e le sue frasi par che sfilino al passo di corsa dei garibaldini di Marsala».
La prudenza, il buonsenso, il patriottismo di Bixio apparvero luminosamente in quella famosa tornata del 18 aprile 1861, in cui scoppiò violento l’antagonismo fra Cavour e Garibaldi. Garibaldi proferì contro il grande ministro parole oltraggiose ed ingiuste, che misero lo scompiglio nella Camera e fecero pericolare la fortuna d’Italia. Bixio disse allora cose nobilissime e difese il ministro contro il suo generale. «Io sono – egli esclamò – fra coloro che credono alla santità dei pensieri che hanno guidato il generale Garibaldi in Italia, ma appartengo anche a quelli che hanno fede nel patriottismo del conte di Cavour. Domando dunque che nel nome santo di Dio si faccia un’Italia al disopra di partiti!». Una tempesta d’applausi rispose a queste parole. A Bixio si deve principalmente se quella giornata non ebbe fatali conseguenze. 
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I principi della vita di Bixio furono umili. Cominciò dall’esser mozzo a bordo d’una nave mercantile; poi fu sette anni marinaio della marina sarda. Era nato povero, povero rimase com’egli stesso ebbe a dire un giorno alla Camera. Discutendosi un giorno la legge della guardia nazionale, e volendosi escluderne i nullatenenti, egli combatté quest’esclusione: «Anch’io, disse, sono un nullatenente; non vorrei perciò essere escluso dalla guardia nazionale.» Ma se sdegnò la ricchezza per sé, la volle pé figli, e per questo, e per quel bisogno d’attività, di venture, di pericoli, che lo travagliava, si pose all’impresa che lo ha condotto a morire prematuramente.
Secondo certe informazioni, sarebbe morto a Sumatra. Sarebbe strano. Trenta o quarant’anni fa, egli vide un’altra volta quell’isola lontana. Era bordo d’una nave mercantile, che naufragò in vista di quell’isola. I naufraghi furono raccolti dagli indigeni, che offrirono loro questo dilemma: «O adottate la nostra religione o vi vendiamo schiavi…» Ora, fra le cerimonie dell’iniziazione alla religione sumatrese, c’era la circoncisione, e Bixio ed i suoi compagni vi si rifiutarono energicamente. Furono quindi venduti ad Europei, e presto tornarono in libertà.
Era destino che l’isola di Sumatra dovesse riuscir fatale a Bixio. Un naufragio prima, il colera poi: strani fuochi del caso, – seppur queste cose non dipendono che dal caso.
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Non è senza sgomento che ho veduto ne’ giorni passati elevarsi in un angolo del mio studio una montagna di liari. L’anno passato non riuscì ad essere che una collina , quest’anno è una vera montagna, e se la va di questo passo, fra qualche anno potrà fare concorrenza al Gran Sasso d’Italia ed al Monte Bianco. Questo monte formato dalle strenne e dagli almanacchi del 1874. Non c’è giornale, non c’è tipografia, non c’è litografia, che non mandi fuori la sua strenna del suo almanacco. Rossi, verdi, gialli, turchini e paonazzi, sono la affastellati volumetti d’ogni sesto c’è la magnifica Strenna Italiana del Ripamonti Carpano accanto al modesto Almanacco de mariti, c’è la strenna veneziana, l’Almanacco delle Famiglie, l’Annuario Storico di Mauro Macchi, l’Almanacco Igienico del Mantegazza, l’Album di chimica agraria del Selmi e l’almanacco agrario del prof. Cantoni, l’Almanacco indipendente di Arnaldo degli Arnaldi, l’Almanacco del libero pensiero del sig. Luigi Stefanoni, l’Almanacco del libero muratore, l’Almanacco finanziario, che insegna a vivere in pace con l’agente delle tasse, la Strenna del fischietto, la Strenna lombarda… Basta così?
Dopo un elenco così lungo, i lettori non esigeranno, spero, ch’io discorre a loro di tutto ciò che si contiene entro quelle copertine multicolori. Ho sfogliato tutti quelli libercoli, ma non ne ho letto che uno: l’Almanacco d’un eremita del sig. Antonio Caccianiga.
Il Caccianiga è un vero eremita, ma un eremita al modo del sig. De Jouy, che s’intitolava: L’hermite de la chaussée-d’Antin . Nella sua solitudine egli vive in comunicazione di spirito co’ suoi contemporanei. Egli somiglia al topo che si chiuse in un formaggio, ma con la differenza che mentre il topo romito non voleva sapere delle cose di questo mondo, egli, viceversa, se ne occupa con zelo ed ha a cuore la sorte de’ suoi simili, travagliati dalla bufera, «che mai non resta, » della vita cittadina. È il quarto anno che vien fuori l’Almanacco dell’eremita Caccianiga, ed aggiunge nuovi ammaestramenti a quelli già dati, scritti con quella forma arguta e bonaria di cui fu maestro «il buonomo Riccardo». Lo compri chi ama le cose buone dette bene, lo dia a leggere alle sue donne ed ai suoi figli e non avrà buttato via i suoi danari.
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Passeggiando la sera in Galleria Vittorio Emanuele, vedrete andare su e giù un vecchietto, col cappello calcato sugli occhi, sepolto il collo nel bavero del punch. Lo accompagnano sempre due o tre persone che lo ascoltano con attenzione, e quasi bevono le sue parole, e di tratto in tratto danno in una risata. Se i vostri occhi si fermeranno sul volto di quel vecchio, vedrete, sotto la tesa del cappello, scintillare due occhi vispi, e sopra al bavero del punch vedrete una bocca, i cui denti hanno già cominciato l’ultimo San Michele, e sulla quale aleggia un sorriso malizioso e corbellatorio. È quello il signor Eugenio Camerini, il cui nome fu tante volte ripetuto nei giornali di Roma e di Milano durante la settimana passata.
L’ottimo uomo non aveva mai sognato di far tanto rumore. Camerini è un uomo  d’altri tempi: in un secolo in cui ognuno ambisce far parlare di sé, e certuni non danno un passo senza mettere in moto le trombe e le campane del giornalismo, egli non aspira che a passare inosservato, confuso nella folla, perduto in un angolo. Fino a pochi anni fa, Camerini non volle mai firmare i suoi scritti: soleva scegliere i pseudonimi più opachi, e quando s’accorgeva che il segreto era stato scoperto s’affrettava mutar il suo fauxnez. Avete letto Monsieur Lecoq di Gaboriau? Ebbene, Camerini era il Monsieur Lecoq della letteratura.
Così si spiega come la fama di questo ingegno che accoppia la grazia francese della forma alla sodezza dell’erudizione tedesca, sia rimasta molti anni circoscritta fra’ professori ed i giornalisti. Finalmente, tre o quattro anni fa, tremando, pubblicò col suo nome un volume stampato dal Barbera col titolo di Profili letterari. Poi, vinto lo sgomento che gl’incuteva la pubblicità, pose il suo nome in fronte alla Divina Commedia illustrata da Dorè, e alla Biblioteca classica del signor Sonzogno,  della quale egli è l’ordinatore ed il commentatore.
Da tredici anni, Eugenio Camerini occupava il posto di segretario presso l’Accademia scientifico-letteraria di Milano. Era annesso a questo ufficio uno stipendio modesto, che gli bastava per vivere. Malumori sorti fra lui e il prof. Ascoli, nuovo preside dell’Accademia, lo hanno spinto a dar le sue dimissioni in un modo un po’ brusco, e del ministro della pubblica istruzione le accettate. L’onorevole Mazzoleni, alla Camera, se n’è lagnato: il governo, ha egli detto, dovrebbe pensarci due volte prima di privarsi dei servigi d’un uomo del valore di Camerini. Io mi guarderò bene dall’entrare nella discussione delle ragioni che hanno disgustato Camerini. Se ne è già parlato troppo, e con poco frutto. Nessuno, credo, ci ha colpa. La parola più giusta è stata detta da un professore dell’Accademia:-In Italia, abbiamo due cause di disordine nelle amministrazioni pubbliche: abbiamo uomini investiti di uffici inferiori alla loro capacità, ed uomini i cui uffici superano la loro capacità. Camerini era fra’ primi: alla lunga doveva nascere ciò che è nato.
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Ne’ giornali inglesi e francesi si continua ancora a discorrere  della catastrofe della Ville du Havre e del Lock Earn. Si discute sui modi d’ovviare in avvenire a disgrazie simili, e si domanda che le navi siano munite di fanali più potenti di quelli che ora possiedono.
Questa discussione mi ha fatto tornare alla memoria alcune belle pagine di quel bellissimo libro ch’è Promenade autour du monde del barone di Hubner, pubblicato alcuni mesi fa. La traversata dell’oceano Atlantico, dall’Inghilterra a Nuova York, durante la maggior parte dell’anno, a pericoli che pur sarebbe facile evitare. Per rendere il viaggio breve, i piroscafi battono una linea traversata dal gulf stream, corrente d’acqua calda, che incontrando le fredde acque ed i ghiacci scendenti dal polo, produce nebbie densissime. Chi è a poppa non vede la prora. È impossibile rilevare il meridiano, giacché non si vede il sole, nell’orizzonte. Ad annunziar la sua presenza alle navi che si trovano negli stessi paraggi, non riuscendo i fanali a squarciare la nebbia, il piroscafo mandò un fischio, un fischio lungo il stridente, e di giorno e di notte i viaggiatori odono quel lugubre grido, finché, dissipata la nebbia, non è cessato il pericolo.
Bisogna ne’ marinai una vigilanza incredibile, nel capitano e nei timonieri un’intelligenza ed un’esperienza quasi sovrumane, per evitar gli urti, giacché tutte le navi battono la stessa linea, che è la più breve. I giornali inglesi ed americani notano il giorno dell’ora d’ogni partenza ed ogni arrivo, e nessun piroscafo vuol restare indietro agli altri. È una gara di velocità, una corsa di fantini: bisogna arrivare il primo a Nuova York, a rischio d’andar a picco a mezza via. In sostanza l’Oceano non è che un lungo e stretto corridoio scuro, nel quale si corre all’impazzata.
È dunque necessario, se si vogliono evitare nuove disgrazie, che gli Stati Uniti e la Gran Brettagna esercitino una vigilanza più diretta sulla rotta dei piroscafi, e non affidino senza controllo la vita di migliaia di passeggeri all’avidità delle società di navigazione.
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Dalla traversata dell’Oceano passando a viaggi meno lontani e meno pericolosi, dirò che, giorni fa, sono andato da Milano a Lecco, sulla nuova linea ferroviaria testè costrutta. L’alta Italia va rapidamente completando la rete delle sue ferrovie. Fra non molte settimane, sarà inaugurato un altro tronco: quello che da Cremona conduce a Mantova, e già se ne domandano altri.
Al Lecco, il municipio diè alle persone invitate ad inaugurare la linea una splendida collezione, e quando si fu al momento de’ brindisi, dopo aver applaudito all’opera compiuta, si disse: «vogliamo ora un’altra linea: vogliamo una linea che da Lecco vada a Sondrio, e da Sondrio allo Spluga, e passi le Alpi». E tutti a battere le mani. È questo un antico voto delle popolazioni che stanno sulla destra riva del Lario.
Molti altri brindisi furono fatti, e si parlò di libertà, di industria, di fratellanza, di benessere politico sociale, di progressi d’ogni sorta a cui si aspira, e tutti erano animati dalla più serena fiducia. Avevo vicino a me un vecchio, e sapendo che i vecchi sono, in generale laudatores temporis acti, gli domandai: «Che gliene pare? si stava meglio ai suoi tempi? – oh no! Rispose con un sospiro, e solo mi spiace di esser venuto al mondo troppo presto». – Mi parve che una lagrima cadesse nel suo bicchiere di Sciampagna. Era un vegeto e forte campagnagnuolo, ed era forse la prima volta, nella sua vita, ch’egli annacquava il vino!
Eugenio Torelli Viollier

(Questo testo è stato digitalizzato

da Daniele Bentivoglia)