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 2013  dicembre 02 Lunedì calendario

I morti per l’incendio della fabbrica di cinesi a Prato sono fino ad ora sette. Gli ustionati tre

I morti per l’incendio della fabbrica di cinesi a Prato sono fino ad ora sette. Gli ustionati tre. Una delle vittime ha cercato di salvarsi rompendo il vetro di una finestra. Ma ha trovato dall’altra parte delle sbarre. I vigili del fuoco hanno scavato per tutto il pomeriggio tra le macerie, con estrema cautela perché il fuoco, sotto, ha continuato a divampare, c’era la possibilità che vi fossero altre persone e che un intervento troppo deciso provocasse crolli o addirittura un moltiplicarsi delle fiamme. La fabbrica consiste in un grande capannone, al quale si arriva da una traversa di via Toscana. La zona è quella celebre del Macrolotto, la Chinatown pratese.

Cause del fuoco?
Non si sanno, per ora. Il sostituto procuratore Lorenzo Gestri aspetta la relazione dei vigili del fuoco. Omicidio colposo plurimo? Forse, e il forse riguarda il "colposo". Potrebbe essere stata una stufetta elettrica o una cicca di sigaretta. L’assessore alla Sicurezza, Aldo Milone, ha detto molte volte che in questi capannoni-fabbriche-dormitorio i cinesi fumano come matti, non importa se a pochi passi da loro è pieno di materiale infiammabile. Nella struttura andata a fuoco ieri si confezionavano abiti, pantaloni, magliette. Il materiale, come sempre, proveniva dalla Cina ed era di qualità scadente: sintetico e cellophane, roba altamente infiammabile. L’incendio è scoppiato di notte, mentre una decina di cinesi dormiva all’interno della stessa fabbrica. I padroni, ancora sconosciuti, avevano costruito dei loculi in cartongesso su una delle pareti e in ciascun loculo era ospitato, per la notte, un lavoratore. La cosa non deve destare meraviglia. Era notissima, è stata scritta dai giornali decine di volte, da ultimo in occasione del salvataggio di un cinese di nome Yan, lo scorso marzo, rimasto ustionato in un capannone simile a quello andato a fuoco ieri. Yan ha raccontato la sua giornata: 18 ore al giorno di lavoro in nero, dalle 7 del mattino all’una di notte, per circa un euro all’ora. Sei ore di sonno in un giaciglio fetido che gli avevano messo a disposizione in fabbrica.  

Prima di chiederle come mai contro tutto questo non si fa niente, devo domandarle come si sono accorti, ieri, di quello che stava succedendo.
Il carabiniere in pensione Leonardo Tuci, verso le 7 di ieri mattina, è passato in macchina da quelle parti e ha visto una colonna di fumo. «Mi sono avvicinato e ho visto che c’erano alcuni cinesi che mi venivano incontro piangendo e urlando. Sono corso verso il capannone e ho visto un uomo con un estintore in mano. Allora ne ho preso uno anch’io. Era stremato, anche per il freddo. Continuavo a sentire le loro urla».  

Adesso mi dica perché, pur essendo la situazione notissima, tutti hanno lasciato perdere: sindacati, forze dell’ordine, politici.
Ho l’impressione che da noi sia diventata ormai una tattica nazionale quella di girarsi dall’altra parte. Anche Scampia è una zona franca, e stanno tutti zitti. I cinesi sono una comunità protetta dalla loro patria, dalla quale nessuno degli immigrati qui, specie se di prima generazione, intende staccarsi. Qualche timido intervento dei vigili urbani, per esempio a Milano in zona Sarpi, per regolarizzare l’attività dei grossisti, provocò addirittura l’intervento del console e qualche grattacapo al governo.  

C’è di mezzo la loro mafia?
Anche. La mafia garantisce credito, si occupa di trasferire qui i lavoratori di laggiù, poi presiede alle rimesse. E sta in affari con gli imprenditori. Lo scorso maggio la Guardia di Finanza rese noti i dati dell’enorme flusso di denaro spedito clandestinamente dall’Italia alla Cina negli ultimi cinque anni: 4,5 miliardi di euro. In particolare da Prato partono alla volta di quel paese, secondo i finanzieri, 430 milioni di euro l’anno. Secondo quelli della commissione parlamentare d’inchiesta sulla Contraffazione, il nero sino-pratese arriva addirittura a un miliardo l’anno. I cinesi hanno messo in ginocchio il tessile cittadino, come avrà sentito dire anche lei. Il Macrolotto 1 è l’area industriale a sud della città: 600 mila metri quadri di capannoni, dove ancora nel 2001 lavoravano 38 mila italiani e si fatturavano cinque miliardi di euro l’anno. Oggi il fatturato del nostro tessile è sceso di un miliardo e 600 milioni, le aziende, che erano 5.800 nel 2001, oggi sono meno di 3.000, nel settore non lavorano più di 18 mila italiani. Le ditte cinesi sono 4.000 e impiegano almeno 30 mila connazionali. I cinesi vengono soprattutto dalle province orientali dello Zhejiang e del Fujian.  

Che si può fare?
La diplomazia, i sindacati, le forze dell’ordine, i politici dovrebbero, almeno in questo caso, smetterla di far finta di non vedere e di non sapere. Monica Castro, capogruppo di Forza Italia a Calenzano, propone di imporre per legge l’assunzione di una percentuale di italiani in ogni azienda cinese. Loro fanno lo stesso con le aziende italiane che hanno delocalizzato in Cina (tra queste ci sono anche fabbriche di pratesi). Un altro problema è l’integrazione. Se smettessero di essere una comunità tanto chiusa... Ma su questo punto qualcosa s’è mosso, un mese fa sul sito di Associna è partita una gran discussione provocata dal giovane informatico Sun Wen-Long, il quale ha scritto chiaro e tondo: l’Italia è casa nostra, dobbiamo integrarci sempre di più.