Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  novembre 27 Mercoledì calendario

Biografia di Giancarlo Capaldo

• Napoli 22 marzo 1947. Magistrato. Procuratore aggiunto di Roma. Un libro: Roma mafiosa. Cronache dell’assalto criminale allo Stato (Fazi, 2013).
• «Un distinto signore con i capelli tutti bianchi, occhi chiari e modi affabili, ha un ufficio pieno di quadri (copie, si capisce) di Gauguin e Monet (perché ama i pittori impressionisti) e, se potesse, infilerebbe nel lettore del suo computer un cd con le ouverture e le sinfonie di Mendelsshon, ma non può perché siamo al primo piano dell’edificio C del palazzo di giustizia di Roma, un parallelepipedo di cemento armato ormai disfatto (…), e lui, il dottor Capaldo è uno dei tre procuratori aggiunti, insomma uno dei vertici della Procura più importante d’Italia, un magistrato che ha indagato su molte pagine nere della storia repubblicana, dall’eversione nera al sequestro di Emanuela Orlandi, dalla banda della Magliana agli scandali (recenti) di Finmeccanica e Telecom fino ad arrivare al caso Telecom-Fastweb (…); che ha diretto in passato la Dda ed è appena tornato a occuparsi di mafie a Roma» (Giuseppe Corsentino) [Affaritaliani.it 7/11/2013].
• «Era un giudice ragazzino, mandato di corsa da Roma a Biella per seguire le inchieste sui sequestri di persona messi a segno dalla banda dei sardi. Fatti del 1972 (...) Non ha dimenticato quella stagione in cui essere magistrati significava rischiare la vita. Si ritrova famoso dopo quasi quarant’anni di carriera perché è il pubblico ministero che sta rivoluzionando il “porto delle nebbie”: mai si erano viste nella capitale tante inchieste scomode per il sistema politico e tutte dirette dalla stessa persona. Dalle trame della nuova P2 di Verdini, Dell’Utri e Carboni al riciclaggio miliardario di Fastweb e Telecom Sparkle, fino a toccare il colosso degli armamenti Finmeccanica. Capaldo e la squadra di pm della Direzione distrettuale antimafia che lo aiuta stanno ribaltando un’immagine di immobilismo e ossequio del potere, con fondali sabbiosi dove ogni fascicolo scottante finiva per incagliarsi. Dalla seconda metà degli anni Ottanta per un decennio istruttorie clamorose si spengono nel silenzio degli uffici di Piazzale Clodio. Ma in quel periodo Capaldo è altrove: lavora nelle stanze del governo, al ministero della Giustizia e a Palazzo Chigi. Undici anni come tecnico, una lunga esperienza che gli ha permesso di conoscere bene la macchina burocratica al servizio della politica. E che gli hanno dato l’esperienza del palazzo, fondamentale per guidare le indagini che fanno paura alla maggioranza parlamentare, ai boiardi di Stato della tecnologia bellica, ai cassieri del denaro sporco e a quella parte di magistratura troppo vicina ai giochi di partito. Ha indossato la toga nella notte della Repubblica, quando aveva solo venticinque anni. A Biella si occupa dell’omicidio del vicequestore Francesco Cusano, ucciso il primo settembre 1976 da due brigatisti rossi. A Roma gli tocca l’indagine più difficile: la strage di Acca Larentia, tre giovani attivisti assassinati davanti alla sede del Fronte della Gioventù. All’epoca c’era una guerra senza frontiere per le vie della capitale: rossi contro neri, senza quartiere. Nel giugno 1980 un commando neofascista ammazza il giudice Mario Amato e Capaldo si offre di portare avanti il lavoro sui Nuclei armati rivoluzionari aperto dal collega. Così viene costituita una squadra di cui fanno parte Loris D’Ambrosio, Pietro Giordano, Michele Guardata e Alberto Macchia. È uno dei primi esperimenti di pool e Capaldo, a 33 anni il più anziano della partita, ne diventa coordinatore. In quei momenti drammatici nasce anche l’amicizia con Loris D’Ambrosio, da diversi anni consigliere giuridico del Quirinale, a cui ancora oggi è legatissimo. Il metodo di Capaldo è vincente: il suo team mette nell’angolo l’eversione nera, decimata dalle retate e dal pentimento di leader neofascisti tra cui Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Ma il giovane pm e la sua famiglia sono costretti a una vita blindata e così, dopo avere chiuso le inchieste sui Nar, per allentare la tensione ottiene di essere trasferito al tribunale civile dove rimarrà fino al 1987. Una sorta di camera di compensazione che gli è servita per tornare in pista, questa volta nel gabinetto di Virginio Rognoni, ministro della Giustizia del sesto governo Fanfani. In via Arenula si ferma due anni. Arriva presto un nuovo esecutivo e Rognoni è sostituito da Giuliano Vassalli. La serietà di Capaldo e il suo modo di lavorare lo portano in rotta di collisione con il nuovo capo di gabinetto Filippo Verde. I due si scontrano e Capaldo decide di andar via. Verde alcuni anni dopo verrà travolto dalle accuse di corruzione: arrestato è stato poi prosciolto dalla Cassazione per prescrizione dei reati. All’epoca a Palazzo Chigi c’è Ciriaco De Mita e Capaldo viene chiamato a riorganizzare l’ufficio legislativo. Quando l’esecutivo viene affidato nel 1993 al presidente Carlo Azeglio Ciampi, per lui si decide la nomina a capo dipartimento dell’ufficio amministrativo. C’è subito sintonia fra Capaldo e Ciampi. E così l’ex giudice istruttore esperto in terrorismo aiuta la vecchia burocrazia a traghettare dalla prima alla seconda Repubblica. Nel palazzo del governo rimane fino al 1998, e lavora sia con Berlusconi che con Prodi. Ma la voglia di tornare a indossare la toga è forte: abbandona le sale lussuose di Palazzo Chigi per riprendere posto sulle scrivanie a volte sgangherate e tristi della procura di Roma. Ormai gli anni di piombo sono il passato ma Capaldo torna a seguire le indagini sui gruppi insurrezionalisti. A Roma vengono fatti esplodere pacchi bomba in uffici pubblici e davanti alle caserme. Gli anarchici non sono più una vaga galassia, lontana per mentalità, abitudini e frequentazioni da altri gruppi che combattono contro le istituzioni. Il pm scopre un’organizzazione strutturata con una sua specifica strategia che non può essere considerata eversiva a tutti gli effetti. L’inchiesta si conclude con decine di condanne. (...) Ma sin dal rientro a piazzale Clodio la parte più consistente del suo lavoro riguarda i cosiddetti reati della pubblica amministrazione: tangenti e affini. Ancora una volta il segreto è fare squadra: collabora con Giovanni Bombardieri assieme al quale seguirà i casi più importanti, e poi con Rodolfo Sabelli e Francesca Passaniti. Lo descrivono come uno stakanovista: il primo ad arrivare la mattina, l’ultimo a chiudere la porta. Evita le telecamere e spesso depista i giornalisti per difendere il segreto sui procedimenti. Non ama i teoremi. Le grandi inchieste di cui (...) tutto il Paese discute partono da piccole indagini su una serie di rapine. Sembra di seguire il gocciolio di una minuscola sorgente, che poco alla volta si trasforma in fiume impetuoso. In pratica, dagli accertamenti sugli assalti a uffici postali e supermercati Capaldo e Bombardieri sono arrivati ad occuparsi del colosso Finmeccanica, che fattura tredici miliardi l’anno e produce gli aerei più sofisticati del pianeta. Il primo passaggio di quel torrente sporco è stata la scoperta di un sistema di tangenti che ha creato un buco da ottanta milioni di euro nelle casse della sanità pubblica del Lazio: è lo scandalo di Lady Asl, al secolo Anna Giuseppina Iannuzzi, che pagava politici, funzionari e cardinali e otteneva dalla Regione rimborsi per terapie mai realizzate. Un’indagine che nel 2007 ha fatto finire agli arresti il sottosegretario alla Difesa del governo Prodi provocando il primo brivido all’esecutivo di centrosinistra ma contemporaneamente ha stroncato le ambizioni di diversi pezzi grossi del centrodestra laziale. E che ha gettato nel panico il sottobosco affaristico della capitale, spiazzato dalle retate ordinate dagli uffici dell’ormai ex “porto delle nebbie”. Ma è proprio dal gomitolo di intrallazzi della malasanità che riparte il filo, una traccia che si infila nel giro miliardario tra truffa e riciclaggio della gang di Gennaro Mokbel e delle sue sponde al vertice di Fastweb e Telecom Sparkle. Quelle intercettazioni seguono in diretta l’elezione del senatore Nicola Di Girolamo con i voti della ’ndrangheta. Emergono le frequentazioni e gli investimenti di personaggi usciti dai giri più duri dell’estremismo di destra per entrare in affari persino con Finmeccanica. Ma spuntano anche le registrazioni in cui Mokbel sostiene di aver aiutato, anche economicamente, gli ex terroristi neri Francesca Mambro e Valerio Fioravanti. È come la chiusura di un cerchio: lo stesso Capaldo li aveva fatti processare venti anni prima, assieme ai killer dei Nar che avevano assassinato il suo collega Amato. Mambro e Fioravanti hanno raccontato di avere festeggiato l’omicidio con ostriche e champagne mentre il telegiornale mostrava il corpo del giudice con ai piedi scarpe lise e bucate. Un’immagine che Capaldo non ha mai dimenticato» (Lirio Abbate) [Esp 29/7/2010].