Europeo, n.9 1961, 21 novembre 2013
Tags : La morte di JFK
1961: processo a Jfk (art. del 1961)
Europeo, n.9 1961
Un anno fa, definendo le qualità che fanno un buon presidente degli Stati Uniti, lei, signor Lippmann, ha scritto che la principale era la facoltà di distinguere, in una data situazione, ciò che vi è di duraturo dal transitorio. Ritiene che John Kennedy possieda questa dote?
Credo che potrebbe averla, ma è presto per pronunciarsi.
Che cosa pensa di quanto ha fatto finora?
Grosso modo, non ha fatto che applicare la filosofia economica e la politica internazionale del presidente Dwight Eisenhower, senza mai spiegare all'opinione pubblica che potevano essere cambiate. E come se fossimo stati governati da una amministrazione Eisenhower di trent'anni più giovane. Kennedy ha cominciato seguendo le vecchie tracce. Ciò non significa che continuerà così. Credo che sarà obbligato, prima della fine dell'anno, a fare una scelta capitale, cioè a decidere se l'America può permettersi di mantenere un budget equilibrato nel senso in cui l'intendeva il presidente Eisenhower, ovvero di conservare un tasso economico d'espansione assai basso, o se il governo federale debba accelerare l'espansione con riduzioni d'imposte e misure del genere. Questo dovrà venire deciso nei prossimi mesi. Una delle debolezze di Kennedy è che non ha mai esposto il problema agli americani. Non ha mai spiegato che, se vogliamo vincere la Guerra fredda e fare meglio dei comunisti, l'economia americana deve fare uno sforzo in avanti e raggiungere una produzione superiore di 50 milioni di dollari a quella di quest'anno. Kennedy non l'ha mai detto ed è questa la ragione per cui la gente non ne sente l'urgenza. Non ha esposto agli americani una verità molto sgradevole, della quale non è responsabile: quella cioè che ci vede legati, nel mondo intero e soprattutto in Asia, con vincoli morali e giuridici che sono stati allacciati prima del suo arrivo al potere, quando eravamo la maggiore potenza militare del mondo. Passare dal primo posto a una posizione di parità è, per un Paese, una cosa dura, demoralizzante, difficile da confessare. Ma saremo costretti, comunque, a confessarla.
Perché Kennedy, che pare abbia fatto tanti discorsi, non ha spiegato tutto questo?
È un uomo molto intelligente, di spirito molto vivo. Legge svelto, capisce svelto, ma si annoia a spiegare. Non ha pazienza. Annuncia le sue decisioni senza esporre, punto per punto, le ragioni. Durante la sua campagna, si è dato per principale obiettivo quello di ristabilire il prestigio degli Stati Uniti all'estero.
Che cosa ha fatto, in questo senso, finora?
Non ha fatto praticamente niente, perché non è sicuro di se stesso. Non è stato eletto che grazie a una minima maggioranza; sa di non disporre, al Congresso, di una maggioranza sufficientemente solida per far passare misure importanti, e giudica che l'opinione pubblica non sia pronta ad accettare le decisioni che servirebbero a dare un nuovo prestigio all'America. Perché questo prestigio, in ultima analisi, non consiste più nella potenza militare, anche se dobbiamo essere forti. Non può consistere che sull'esempio che possiamo dare al mondo: l'esempio di una economia e di una società dinamiche, che affrontano decisamente i loro problemi.
Ciò che Kennedy domanda agli americani, attualmente, è di sostenere il suo programma d'aiuti ai Paesi stranieri. Forse non è la migliore annata per farlo, visto che il Laos, da noi molto aiutato, sta per passare al nemico, e la Corea del Sud, alla quale abbiamo dato un aiuto più massiccio ancora, ha rinunciato alla democrazia.
Gli Stati Uniti non possono più rifiutarsi di aiutare i Paesi stranieri proprio come l'uomo più ricco di una città non potrebbe rifiutarsi di contribuire alle spese della comunità. E sulla forma di questo aiuto che occorre discutere. È evidente che una grande parte del denaro che noi abbiamo dato al Laos non è servita che ad arricchire la classe dirigente e ad aumentare l'odio dei poveri per i ricchi. Abbiamo così preparato il terreno per la propaganda comunista. In altri Paesi abbiamo consacrato troppo denaro al mantenimento di eserciti che non hanno alcun valore militare, sul piano strategico, e che paghiamo unicamente affinché restino fedeli ai governi in carica e non cerchino di rovesciarli. Sono tragici errori. D'altra parte, se non vogliamo che il mondo sia inghiottito tutto intero dalla marea comunista, come ha annunziato Nikita Krusciov, è necessario che sussistano in tutte le regioni punti d'ancoraggio, cioè Paesi che diano la prova di come la prosperità e una certa giustizia sociale possano essere ottenute altrimenti che con i metodi comunisti. Ciò significa che dobbiamo concentrare le nostre energie e i nostri aiuti su qualche Paese-chiave. Quali sono? In Asia c'è l'India. In America Latina non Cuba ma il Brasile. In Africa, forse, la Nigeria. Non voglio dire che occorre abolire il nostro aiuto agli altri Paesi, aiuto che non serve, per la verità, ad altro che a pagarli perché stiano tranquilli. Ma nei Paesi-chiave occorre intensificarlo e andare sino in fondo. Non serve a niente lanciare una testa di ponte sopra il fiume, bisogna costruire il ponte tutto intero.
Lei va ancora più in là, in questo, del presidente Kennedy.
Il torto di Kennedy è di parlare agli americani come se l'aiuto ai Paesi stranieri fosse già per loro un fardello terribile. Non è un fardello per niente. Dovrebbe dire loro, data la gravità della situazione, che non si tratta che d'un primo acconto, molto piccolo, su ciò che dovranno pagare. Kennedy non vuole apparire all'opinione pubblica come uno che spende e spande. Ha ragione, giacché questa etichetta è un vero veleno politico. Ma sarà necessario che l'opinione pubblica evolva. Oggi, se un tizio prende un prestito dalla banca per costruire un cinematografo fa un investimento. Ma se il municipio spende del denaro per costruire una scuola è uno spreco. Il nostro governo è di fatto l'unico al mondo che ragiona così, il solo che non faccia distinzione tra gli investimenti pubblici e gli sprechi pubblici.
Lei ha incontrato Krusciov due volte in Russia, e l’ha visto negli Stati Uniti. Che impressione le ha fatto? C'è qualche uomo politico americano al quale potrebbe paragonarlo?
Mi fa pensare a un uomo del quale gli americani, sfortunatamente, non si ricordano molto bene: il governatore dello Stato di New York, Al Smith. Smith aveva una meravigliosa conoscenza intuitiva di ciò che pensava ciascun cittadino del suo Stato. Krusciov è così. Ha le antenne. È capace, come lo era Smith, di parlare alla gente degli argomenti più difficili, per esempio dell'economia, in un modo tanto vivo che tutti lo trovano acuto e interessante. E poi, soprattutto, Krusciov è un politico nato, che avrebbe fatto una grande carriera in qualsiasi Paese. Non è, come Stalin, una specie di despota orientale che lavora nell'ombra con i suoi agenti segreti. Kennedy e lui dovrebbero capirsi molto bene, perché sono entrambi politici nati.
Eppure si sono incontrati e non sembra che si siano accordati su molti punti.
Si sono perlomeno trovati d'accordo sulla coscienza del tremendo pericolo che corrono tutti e due, della catastrofe che si produrrebbe se si lasciassero scivolare a un punto morto oltre il quale non ci sarebbe altra scelta, per l'uno o per l'altro, che la capitolazione o una guerra suicida. È la sola cosa che abbiano in comune. Per il resto, non v’è dubbio che il problema centrale è quello della Germania e di Berlino. La soluzione di tutti gli altri litigi (Laos, esperimenti atomici, disarmo) è legata a quella del problema tedesco, che è al cuore della Guerra fredda. Se scoppierà la Terza guerra mondiale, sarà per Berlino. Krusciov mi disse: «Accetterei una Germania unificata se fosse comunista. Ma voi non raccertereste. E io non accetterei una Germania riunificata che rinunciasse al comunismo e divenisse come la Germania di Konrad Adenauer. Non vi è dunque alcun modo di riunificarla». È del medesimo avviso, su questo, del generale Charles de Gaulle e del premier Harold Macmillan, i quali ritengono che la riunificazione sia irrealizzabile. Nel medesimo tempo, a Berlino Ovest vi sono 2 milioni e mezzo di tedeschi che non sono comunisti, che anzi sono anticomunisti, e che noi abbiamo il dovere di proteggere contro ogni attentato alla loro libertà.
In che misura il leader sovietico Krusciov sarebbe disposto a negoziare su Berlino?
Posso solo dire che si dichiara desideroso di negoziare. Forse si smaschererebbe all'ultimo momento, ma credo che non bisogna tralasciare la possibilità di negoziare con l'Unione Sovietica un nuovo trattato che garantisca l'avvenire della Germania e di Berlino. Specificherebbe quali strade, quali corridoi aerei, quali canali dovrebbero rimanere aperti agli abitanti di Berlino Ovest, e verrebbe firmato dalle quattro potenze che occupano la Germania, oltre che dai governi delle due Germanie... questa sarebbe una difficoltà, poiché i tedeschi occidentali rifiutano di porre la propria firma vicino a quella dei tedeschi orientali. Il trattato dovrebbe prevedere il mantenimento a Berlino, per un certo tempo, di truppe inglesi, francesi e americane, in numero assai piccolo. Finché si troveranno là, sarà giusto che sia presente anche un contingente simbolico di truppe russe. Ciò che Krusciov più desidera, a mio avviso, è di dare uno statuto legale allo Stato orientale tedesco. Sa che noi non lo riconosceremo mai, ma stima che la firma di un trattato da parte della Germania orientale equivarrebbe a un riconoscimento de facto. (John Kennedy andò a Berlino nel 1963 e il 26 giugno pronunciò il celebre discorso «Ich bin ein Berliner»: fu il suo ultimo viaggio in Europa; il Trattato sullo stato finale della Germania fu firmato a Mosca il 12 settembre 1990, ndr).
Che cosa succederebbe, a suo avviso, se i russi rimettessero ai tedeschi dell'Est il controllo delle vie d'accesso a Berlino?
Krusciov, se ho ben compreso, non prevede di concludere un trattato di pace separato con la Germania orientale se non in ultima analisi. Non ne ha gran voglia. M'ha ripetuto una dozzina di volte: «Non voglio aggravare la tensione, e so che la firma di questo trattato avrebbe questo risultato. Tuttavia potrei essere obbligato a farlo». Gli ho chiesto perché fosse così premuto. Mi ha risposto: «Voglio che le frontiere della Germania, lo statuto di Berlino e la linea di demarcazione siano fissati da un trattato, prima che i generali hitleriani della Germania occidentale abbiano la bomba atomica. Finiranno con l'averla o perché gliela regalerete voi, o perché gliela darà la Francia. Vi sarà allora un terribile pericolo in Europa perché, se attaccheranno la Germania orientale e se questa non sarà protetta da nessun accordo internazionale, voi non interverrete e scoppierà una guerra che niente potrà arrestare. Ecco la ragione per cui occorre concludere un trattato, affinché le frontiere siano stabilite e il Paese che le attraversi militarmente sia riconosciuto come aggressore».
Che cosa possiamo fare?
Occorre subito rivedere la nostra posizione di partenza. Abbiamo ritenuto finora che la situazione a Berlino fosse la migliore possibile, dal nostro punto di vista, e che qualsiasi modifica dello statuto della città ci sarebbe stata sfavorevole, e che era necessario ancorarsi allo status quo. È la posizione del cancelliere Adenauer. L'altro punto di vista, che è il mio, è che la situazione a Berlino non sia buona. La città è in stato di crisi cronica: la Russia può, ogni volta che lo voglia, serrare un po' la vite a Berlino e distogliere l'attenzione da ciò che succede in Iran, a Cuba o altrove. È una situazione pericolosa per gli occidentali. Non credo che gli abitanti di Berlino Ovest siano contenti della loro condizione. Se lo fossero, perché ci domanderebbero senza sosta di giurare di nuovo che noi faremmo la guerra per Berlino? Ma essi non ne sono tanto sicuri. Piuttosto di rifiutare ogni modifica dello statuto attuale, nella pretesa che così si indebolirebbero le garanzie dei berlinesi, noi dovremmo dichiarare di essere pronti a modificarlo proprio per rinforzare queste garanzie. Sulla libertà di Berlino non possono avere luogo negoziazioni. Ma si può discutere sullo statuto giuridico della città.
Qual è la sua opinione sull'ultima proposta diplomatica dei russi, di affidare il controllo dell'Onu a un direttorio di tre Stati membri, un occidentale, un comunista e un neutrale, ciascuno dei quali avrebbe diritto di veto?
Domandai a Krusciov: «Perché tre persone?». Mi rispose: «Infatti volevamo dire due. L'importante è che tutto sia fatto per un accordo tra gli Stati Uniti e l'Urss. Introducemmo il terzo gruppo soltanto perché era lì».
Non si tratta di una minaccia per l'avvenire dell'Onu?
È una minaccia nella misura in cui Dag Hammarskjöld (segretario dell'Onu dal 1953 al 1961, quando morì in un oscuro incidente aereo durante una missione in Africa, ndr), che a mio avviso ha ancora due anni davanti a sé, non potrà più essere rieletto, né alcun altro uomo del suo genere. Se non arriveremo a un accordo con i russi, è certo che non vi sarà più un segretario generale e questa sarà ridotta a un'assemblea deliberante senza alcun potere di decisione (Kennedy definì Hammarskjöld «un grande uomo di Stato del nostro secolo»; dopo di lui venne eletto il birmano U Thant, il primo non occidentale, ndr).
Lei ha scritto che le difficoltà che incontrano gli Stati Uniti con De Gaulle vengono dal fatto che pensa che l'Europa non possa contare sull'aiuto dell'America per la propria difesa.
De Gaulle ritiene che le armi nucleari siano così letali che nessun Paese si assumerà il rischio d'essere distrutto per difenderne un altro. Ma se i sovietici utilizzassero le loro bombe contro gli Stati Uniti, dovrebbero distruggere le basi americane all'estero. Ecco la ragione per cui De Gaulle non vuole basi di missili americani in Francia. Vuole restare fuori dalla linea del fuoco. Nello stesso tempo, vuole che la Francia, con le bombe proprie, sia abbastanza pericolosa perché nessuno osi attaccarla. Ha paura di non essere protetto dagli Stati Uniti, ma teme altresì che questi scatenino una guerra nella quale la Francia si troverebbe coinvolta suo malgrado. È un fatto che non abbia una grande opinione dei nostri dirigenti militari e politici.
L'incontro di De Gaulle con Kennedy ha potuto modificare questa opinione?
Credo che il presidente Kennedy abbia fatto una impressione assai forte sul generale, e viceversa, tanto che le relazioni personali tra un capo del governo francese e un presidente americano non sono mai state così buone, dopo la Seconda guerra mondiale. Il generale De Gaulle credeva di battere contro un muro, e invece s'è trovato al cospetto di un uomo capace di comprendere le sue concezioni militari.
Una cosa che resta incomprensibile per molti americani è il fiasco cubano. Come poté venir presa una decisione così catastrofica dai militari, dai servizi segreti, dai consiglieri del presidente e dal presidente, stesso? (Tra il 17 e il 19 aprile 1961, gli Usa sostennero una fallimentare aggressione che prese il nome di Invasione della Baia dei Porci, ndr).
Credo che il semaforo verde sia stato dato, in questa faccenda, dai consiglieri più anziani dell'amministrazione, che erano già in carica, e che i giovani uomini portati da Kennedy con sé alla Casa Bianca non siano stati abbastanza energici, o abbastanza saggi, per controbilanciare la loro influenza. Ma Kennedy è un uomo che può apprendere, e la lezione di Cuba non sarà andata perduta per lui. L'invasione di Cuba è stata uno sbaglio e una stupidità. Era mal preparata, ma le sue conseguenze sarebbero state ancora più gravi se fosse riuscita, perché se i 1.400 uomini del corpo di spedizione avessero potuto insediarsi sulla spiaggia, vi sarebbe stata una interminabile guerra civile in cui tutto il mondo sarebbe intervenuto.
Che cosa possiamo fare, adesso, a proposito di Cuba?
Occorre cominciare a capire che Cuba, come ha detto il senatore James William Fulbright (democratico, fautore delle pacifiche relazioni internazionali, fu tra i sostenitori dell'Onu e si oppose alla guerra in Vietnam, ndr), è una spina nella nostra carne, ma non un pugnale nel nostro cuore. Nulla indica che esista la più piccola base militare sovietica a Cuba. Allen Dulles (direttore della Cia dal 1953, fu silurato da Kennedy proprio per il fallimento della missione nella Baia dei Porci; fece poi parte della Commissione Warren che indagò sull'assassinio del presidente, ndr) m'ha detto lui stesso, non molto tempo fa, che nessun aereo russo era stato utilizzato dai cubani contro gli invasori, ma soltanto vecchi apparecchi americani. Quanto ai razzi, perché i russi, che sono capaci di inviarli sulla Luna, avrebbero bisogno di installarli a 150 chilometri dalle nostre coste? L'autentica minaccia del castrismo è che riesca a risolvere, a Cuba, i problemi che non sono stati ancora risolti in molti Paesi dell'America Latina. È su questo terreno che noi dobbiamo cercare di fargli la concorrenza. Se Fidel Castro riesce all'interno, il suo esempio sarà molto più pericoloso di tutto ciò che potrà fare direttamente. È in questo senso che considero l'Alleanza per il progresso del presidente Kennedy come una gran buona cosa (era un programma politico-economico di cooperazione tra gli Stati Uniti e l'America Latina, annunciato il 13 marzo 1961, ndr).
Che cosa pensa della Cia? Una democrazia è in grado di organizzare servizi d'informazione e di spionaggio efficaci?
Lo spionaggio è una necessità per tutti i Paesi. Non è molto morale, ma non serve nascondere la faccia: esiste e deve esistere. L'errore, nel caso della Cia, è stato di assegnare a un organismo d'informazioni il compito di preparare un'operazione come quella dell'invasione cubana. Tutto è stato concentrato sulla testa di un solo uomo, il quale non sapeva più se doveva esporre la verità al presidente o dirgli invece ciò che doveva fare. Le due cose, informazione e determinazione della politica da seguire, dovrebbero essere separate.
Dopo il fiasco cubano, lei disse che i capi di stato maggiore dell'esercito e il direttore della Cia avrebbero dovuto essere sostituiti. Lo pensa ancora?
Sì. E credo che ciò verrà fatto. Penso che la Cia potrà essere soppressa e sostituita da diversi servizi specializzati.
Davanti ad alcuni giornalisti, Kennedy ha lasciato intendere che la pubblicazione di certe informazioni da parte della stampa aveva compromesso il successo dell'operazione cubana. Lei ritiene che la stampa debba imporsi, da se stessa, in frangenti simili, determinate restrizioni?
Il presidente Kennedy pensava alle informazioni pubblicate sui preparativi dell'invasione. Io ritengo che sia dovere della stampa rivelare questo genere di cose, perché penso che una democrazia come la nostra non deve avere campi di addestramento, uomini armati e forze navali segrete in Paesi stranieri, a dispetto dei trattati firmati e delle leggi in vigore.
Lei ha detto poco fa di essere favorevole a una negoziazione per Berlino, anche se dovesse implicare qualche concessione ai sovietici. Che cosa risponde a chi potrebbe accusarla di sostenere una politica di acquiescenza?
La mia risposta è che non si risolverà il problema di vita o di morte per l'umanità con aggettivi del genere. Non sono d'accordo con quelli che pensano che dobbiamo versare un po' di sangue, di tanto in tanto, per provare che siamo virili. Si tratta di problemi troppo gravi perché si possa ragionare in questo modo. E poi, soprattutto, io non amo i vecchi signori che pensano di scatenare guerre nelle quali sono i giovani a doversi battere.
Un anno fa, definendo le qualità che fanno un buon presidente degli Stati Uniti, lei, signor Lippmann, ha scritto che la principale era la facoltà di distinguere, in una data situazione, ciò che vi è di duraturo dal transitorio. Ritiene che John Kennedy possieda questa dote?
Credo che potrebbe averla, ma è presto per pronunciarsi.
Che cosa pensa di quanto ha fatto finora?
Grosso modo, non ha fatto che applicare la filosofia economica e la politica internazionale del presidente Dwight Eisenhower, senza mai spiegare all'opinione pubblica che potevano essere cambiate. E come se fossimo stati governati da una amministrazione Eisenhower di trent'anni più giovane. Kennedy ha cominciato seguendo le vecchie tracce. Ciò non significa che continuerà così. Credo che sarà obbligato, prima della fine dell'anno, a fare una scelta capitale, cioè a decidere se l'America può permettersi di mantenere un budget equilibrato nel senso in cui l'intendeva il presidente Eisenhower, ovvero di conservare un tasso economico d'espansione assai basso, o se il governo federale debba accelerare l'espansione con riduzioni d'imposte e misure del genere. Questo dovrà venire deciso nei prossimi mesi. Una delle debolezze di Kennedy è che non ha mai esposto il problema agli americani. Non ha mai spiegato che, se vogliamo vincere la Guerra fredda e fare meglio dei comunisti, l'economia americana deve fare uno sforzo in avanti e raggiungere una produzione superiore di 50 milioni di dollari a quella di quest'anno. Kennedy non l'ha mai detto ed è questa la ragione per cui la gente non ne sente l'urgenza. Non ha esposto agli americani una verità molto sgradevole, della quale non è responsabile: quella cioè che ci vede legati, nel mondo intero e soprattutto in Asia, con vincoli morali e giuridici che sono stati allacciati prima del suo arrivo al potere, quando eravamo la maggiore potenza militare del mondo. Passare dal primo posto a una posizione di parità è, per un Paese, una cosa dura, demoralizzante, difficile da confessare. Ma saremo costretti, comunque, a confessarla.
Perché Kennedy, che pare abbia fatto tanti discorsi, non ha spiegato tutto questo?
È un uomo molto intelligente, di spirito molto vivo. Legge svelto, capisce svelto, ma si annoia a spiegare. Non ha pazienza. Annuncia le sue decisioni senza esporre, punto per punto, le ragioni. Durante la sua campagna, si è dato per principale obiettivo quello di ristabilire il prestigio degli Stati Uniti all'estero.
Che cosa ha fatto, in questo senso, finora?
Non ha fatto praticamente niente, perché non è sicuro di se stesso. Non è stato eletto che grazie a una minima maggioranza; sa di non disporre, al Congresso, di una maggioranza sufficientemente solida per far passare misure importanti, e giudica che l'opinione pubblica non sia pronta ad accettare le decisioni che servirebbero a dare un nuovo prestigio all'America. Perché questo prestigio, in ultima analisi, non consiste più nella potenza militare, anche se dobbiamo essere forti. Non può consistere che sull'esempio che possiamo dare al mondo: l'esempio di una economia e di una società dinamiche, che affrontano decisamente i loro problemi.
Ciò che Kennedy domanda agli americani, attualmente, è di sostenere il suo programma d'aiuti ai Paesi stranieri. Forse non è la migliore annata per farlo, visto che il Laos, da noi molto aiutato, sta per passare al nemico, e la Corea del Sud, alla quale abbiamo dato un aiuto più massiccio ancora, ha rinunciato alla democrazia.
Gli Stati Uniti non possono più rifiutarsi di aiutare i Paesi stranieri proprio come l'uomo più ricco di una città non potrebbe rifiutarsi di contribuire alle spese della comunità. E sulla forma di questo aiuto che occorre discutere. È evidente che una grande parte del denaro che noi abbiamo dato al Laos non è servita che ad arricchire la classe dirigente e ad aumentare l'odio dei poveri per i ricchi. Abbiamo così preparato il terreno per la propaganda comunista. In altri Paesi abbiamo consacrato troppo denaro al mantenimento di eserciti che non hanno alcun valore militare, sul piano strategico, e che paghiamo unicamente affinché restino fedeli ai governi in carica e non cerchino di rovesciarli. Sono tragici errori. D'altra parte, se non vogliamo che il mondo sia inghiottito tutto intero dalla marea comunista, come ha annunziato Nikita Krusciov, è necessario che sussistano in tutte le regioni punti d'ancoraggio, cioè Paesi che diano la prova di come la prosperità e una certa giustizia sociale possano essere ottenute altrimenti che con i metodi comunisti. Ciò significa che dobbiamo concentrare le nostre energie e i nostri aiuti su qualche Paese-chiave. Quali sono? In Asia c'è l'India. In America Latina non Cuba ma il Brasile. In Africa, forse, la Nigeria. Non voglio dire che occorre abolire il nostro aiuto agli altri Paesi, aiuto che non serve, per la verità, ad altro che a pagarli perché stiano tranquilli. Ma nei Paesi-chiave occorre intensificarlo e andare sino in fondo. Non serve a niente lanciare una testa di ponte sopra il fiume, bisogna costruire il ponte tutto intero.
Lei va ancora più in là, in questo, del presidente Kennedy.
Il torto di Kennedy è di parlare agli americani come se l'aiuto ai Paesi stranieri fosse già per loro un fardello terribile. Non è un fardello per niente. Dovrebbe dire loro, data la gravità della situazione, che non si tratta che d'un primo acconto, molto piccolo, su ciò che dovranno pagare. Kennedy non vuole apparire all'opinione pubblica come uno che spende e spande. Ha ragione, giacché questa etichetta è un vero veleno politico. Ma sarà necessario che l'opinione pubblica evolva. Oggi, se un tizio prende un prestito dalla banca per costruire un cinematografo fa un investimento. Ma se il municipio spende del denaro per costruire una scuola è uno spreco. Il nostro governo è di fatto l'unico al mondo che ragiona così, il solo che non faccia distinzione tra gli investimenti pubblici e gli sprechi pubblici.
Lei ha incontrato Krusciov due volte in Russia, e l’ha visto negli Stati Uniti. Che impressione le ha fatto? C'è qualche uomo politico americano al quale potrebbe paragonarlo?
Mi fa pensare a un uomo del quale gli americani, sfortunatamente, non si ricordano molto bene: il governatore dello Stato di New York, Al Smith. Smith aveva una meravigliosa conoscenza intuitiva di ciò che pensava ciascun cittadino del suo Stato. Krusciov è così. Ha le antenne. È capace, come lo era Smith, di parlare alla gente degli argomenti più difficili, per esempio dell'economia, in un modo tanto vivo che tutti lo trovano acuto e interessante. E poi, soprattutto, Krusciov è un politico nato, che avrebbe fatto una grande carriera in qualsiasi Paese. Non è, come Stalin, una specie di despota orientale che lavora nell'ombra con i suoi agenti segreti. Kennedy e lui dovrebbero capirsi molto bene, perché sono entrambi politici nati.
Eppure si sono incontrati e non sembra che si siano accordati su molti punti.
Si sono perlomeno trovati d'accordo sulla coscienza del tremendo pericolo che corrono tutti e due, della catastrofe che si produrrebbe se si lasciassero scivolare a un punto morto oltre il quale non ci sarebbe altra scelta, per l'uno o per l'altro, che la capitolazione o una guerra suicida. È la sola cosa che abbiano in comune. Per il resto, non v’è dubbio che il problema centrale è quello della Germania e di Berlino. La soluzione di tutti gli altri litigi (Laos, esperimenti atomici, disarmo) è legata a quella del problema tedesco, che è al cuore della Guerra fredda. Se scoppierà la Terza guerra mondiale, sarà per Berlino. Krusciov mi disse: «Accetterei una Germania unificata se fosse comunista. Ma voi non raccertereste. E io non accetterei una Germania riunificata che rinunciasse al comunismo e divenisse come la Germania di Konrad Adenauer. Non vi è dunque alcun modo di riunificarla». È del medesimo avviso, su questo, del generale Charles de Gaulle e del premier Harold Macmillan, i quali ritengono che la riunificazione sia irrealizzabile. Nel medesimo tempo, a Berlino Ovest vi sono 2 milioni e mezzo di tedeschi che non sono comunisti, che anzi sono anticomunisti, e che noi abbiamo il dovere di proteggere contro ogni attentato alla loro libertà.
In che misura il leader sovietico Krusciov sarebbe disposto a negoziare su Berlino?
Posso solo dire che si dichiara desideroso di negoziare. Forse si smaschererebbe all'ultimo momento, ma credo che non bisogna tralasciare la possibilità di negoziare con l'Unione Sovietica un nuovo trattato che garantisca l'avvenire della Germania e di Berlino. Specificherebbe quali strade, quali corridoi aerei, quali canali dovrebbero rimanere aperti agli abitanti di Berlino Ovest, e verrebbe firmato dalle quattro potenze che occupano la Germania, oltre che dai governi delle due Germanie... questa sarebbe una difficoltà, poiché i tedeschi occidentali rifiutano di porre la propria firma vicino a quella dei tedeschi orientali. Il trattato dovrebbe prevedere il mantenimento a Berlino, per un certo tempo, di truppe inglesi, francesi e americane, in numero assai piccolo. Finché si troveranno là, sarà giusto che sia presente anche un contingente simbolico di truppe russe. Ciò che Krusciov più desidera, a mio avviso, è di dare uno statuto legale allo Stato orientale tedesco. Sa che noi non lo riconosceremo mai, ma stima che la firma di un trattato da parte della Germania orientale equivarrebbe a un riconoscimento de facto. (John Kennedy andò a Berlino nel 1963 e il 26 giugno pronunciò il celebre discorso «Ich bin ein Berliner»: fu il suo ultimo viaggio in Europa; il Trattato sullo stato finale della Germania fu firmato a Mosca il 12 settembre 1990, ndr).
Che cosa succederebbe, a suo avviso, se i russi rimettessero ai tedeschi dell'Est il controllo delle vie d'accesso a Berlino?
Krusciov, se ho ben compreso, non prevede di concludere un trattato di pace separato con la Germania orientale se non in ultima analisi. Non ne ha gran voglia. M'ha ripetuto una dozzina di volte: «Non voglio aggravare la tensione, e so che la firma di questo trattato avrebbe questo risultato. Tuttavia potrei essere obbligato a farlo». Gli ho chiesto perché fosse così premuto. Mi ha risposto: «Voglio che le frontiere della Germania, lo statuto di Berlino e la linea di demarcazione siano fissati da un trattato, prima che i generali hitleriani della Germania occidentale abbiano la bomba atomica. Finiranno con l'averla o perché gliela regalerete voi, o perché gliela darà la Francia. Vi sarà allora un terribile pericolo in Europa perché, se attaccheranno la Germania orientale e se questa non sarà protetta da nessun accordo internazionale, voi non interverrete e scoppierà una guerra che niente potrà arrestare. Ecco la ragione per cui occorre concludere un trattato, affinché le frontiere siano stabilite e il Paese che le attraversi militarmente sia riconosciuto come aggressore».
Che cosa possiamo fare?
Occorre subito rivedere la nostra posizione di partenza. Abbiamo ritenuto finora che la situazione a Berlino fosse la migliore possibile, dal nostro punto di vista, e che qualsiasi modifica dello statuto della città ci sarebbe stata sfavorevole, e che era necessario ancorarsi allo status quo. È la posizione del cancelliere Adenauer. L'altro punto di vista, che è il mio, è che la situazione a Berlino non sia buona. La città è in stato di crisi cronica: la Russia può, ogni volta che lo voglia, serrare un po' la vite a Berlino e distogliere l'attenzione da ciò che succede in Iran, a Cuba o altrove. È una situazione pericolosa per gli occidentali. Non credo che gli abitanti di Berlino Ovest siano contenti della loro condizione. Se lo fossero, perché ci domanderebbero senza sosta di giurare di nuovo che noi faremmo la guerra per Berlino? Ma essi non ne sono tanto sicuri. Piuttosto di rifiutare ogni modifica dello statuto attuale, nella pretesa che così si indebolirebbero le garanzie dei berlinesi, noi dovremmo dichiarare di essere pronti a modificarlo proprio per rinforzare queste garanzie. Sulla libertà di Berlino non possono avere luogo negoziazioni. Ma si può discutere sullo statuto giuridico della città.
Qual è la sua opinione sull'ultima proposta diplomatica dei russi, di affidare il controllo dell'Onu a un direttorio di tre Stati membri, un occidentale, un comunista e un neutrale, ciascuno dei quali avrebbe diritto di veto?
Domandai a Krusciov: «Perché tre persone?». Mi rispose: «Infatti volevamo dire due. L'importante è che tutto sia fatto per un accordo tra gli Stati Uniti e l'Urss. Introducemmo il terzo gruppo soltanto perché era lì».
Non si tratta di una minaccia per l'avvenire dell'Onu?
È una minaccia nella misura in cui Dag Hammarskjöld (segretario dell'Onu dal 1953 al 1961, quando morì in un oscuro incidente aereo durante una missione in Africa, ndr), che a mio avviso ha ancora due anni davanti a sé, non potrà più essere rieletto, né alcun altro uomo del suo genere. Se non arriveremo a un accordo con i russi, è certo che non vi sarà più un segretario generale e questa sarà ridotta a un'assemblea deliberante senza alcun potere di decisione (Kennedy definì Hammarskjöld «un grande uomo di Stato del nostro secolo»; dopo di lui venne eletto il birmano U Thant, il primo non occidentale, ndr).
Lei ha scritto che le difficoltà che incontrano gli Stati Uniti con De Gaulle vengono dal fatto che pensa che l'Europa non possa contare sull'aiuto dell'America per la propria difesa.
De Gaulle ritiene che le armi nucleari siano così letali che nessun Paese si assumerà il rischio d'essere distrutto per difenderne un altro. Ma se i sovietici utilizzassero le loro bombe contro gli Stati Uniti, dovrebbero distruggere le basi americane all'estero. Ecco la ragione per cui De Gaulle non vuole basi di missili americani in Francia. Vuole restare fuori dalla linea del fuoco. Nello stesso tempo, vuole che la Francia, con le bombe proprie, sia abbastanza pericolosa perché nessuno osi attaccarla. Ha paura di non essere protetto dagli Stati Uniti, ma teme altresì che questi scatenino una guerra nella quale la Francia si troverebbe coinvolta suo malgrado. È un fatto che non abbia una grande opinione dei nostri dirigenti militari e politici.
L'incontro di De Gaulle con Kennedy ha potuto modificare questa opinione?
Credo che il presidente Kennedy abbia fatto una impressione assai forte sul generale, e viceversa, tanto che le relazioni personali tra un capo del governo francese e un presidente americano non sono mai state così buone, dopo la Seconda guerra mondiale. Il generale De Gaulle credeva di battere contro un muro, e invece s'è trovato al cospetto di un uomo capace di comprendere le sue concezioni militari.
Una cosa che resta incomprensibile per molti americani è il fiasco cubano. Come poté venir presa una decisione così catastrofica dai militari, dai servizi segreti, dai consiglieri del presidente e dal presidente, stesso? (Tra il 17 e il 19 aprile 1961, gli Usa sostennero una fallimentare aggressione che prese il nome di Invasione della Baia dei Porci, ndr).
Credo che il semaforo verde sia stato dato, in questa faccenda, dai consiglieri più anziani dell'amministrazione, che erano già in carica, e che i giovani uomini portati da Kennedy con sé alla Casa Bianca non siano stati abbastanza energici, o abbastanza saggi, per controbilanciare la loro influenza. Ma Kennedy è un uomo che può apprendere, e la lezione di Cuba non sarà andata perduta per lui. L'invasione di Cuba è stata uno sbaglio e una stupidità. Era mal preparata, ma le sue conseguenze sarebbero state ancora più gravi se fosse riuscita, perché se i 1.400 uomini del corpo di spedizione avessero potuto insediarsi sulla spiaggia, vi sarebbe stata una interminabile guerra civile in cui tutto il mondo sarebbe intervenuto.
Che cosa possiamo fare, adesso, a proposito di Cuba?
Occorre cominciare a capire che Cuba, come ha detto il senatore James William Fulbright (democratico, fautore delle pacifiche relazioni internazionali, fu tra i sostenitori dell'Onu e si oppose alla guerra in Vietnam, ndr), è una spina nella nostra carne, ma non un pugnale nel nostro cuore. Nulla indica che esista la più piccola base militare sovietica a Cuba. Allen Dulles (direttore della Cia dal 1953, fu silurato da Kennedy proprio per il fallimento della missione nella Baia dei Porci; fece poi parte della Commissione Warren che indagò sull'assassinio del presidente, ndr) m'ha detto lui stesso, non molto tempo fa, che nessun aereo russo era stato utilizzato dai cubani contro gli invasori, ma soltanto vecchi apparecchi americani. Quanto ai razzi, perché i russi, che sono capaci di inviarli sulla Luna, avrebbero bisogno di installarli a 150 chilometri dalle nostre coste? L'autentica minaccia del castrismo è che riesca a risolvere, a Cuba, i problemi che non sono stati ancora risolti in molti Paesi dell'America Latina. È su questo terreno che noi dobbiamo cercare di fargli la concorrenza. Se Fidel Castro riesce all'interno, il suo esempio sarà molto più pericoloso di tutto ciò che potrà fare direttamente. È in questo senso che considero l'Alleanza per il progresso del presidente Kennedy come una gran buona cosa (era un programma politico-economico di cooperazione tra gli Stati Uniti e l'America Latina, annunciato il 13 marzo 1961, ndr).
Che cosa pensa della Cia? Una democrazia è in grado di organizzare servizi d'informazione e di spionaggio efficaci?
Lo spionaggio è una necessità per tutti i Paesi. Non è molto morale, ma non serve nascondere la faccia: esiste e deve esistere. L'errore, nel caso della Cia, è stato di assegnare a un organismo d'informazioni il compito di preparare un'operazione come quella dell'invasione cubana. Tutto è stato concentrato sulla testa di un solo uomo, il quale non sapeva più se doveva esporre la verità al presidente o dirgli invece ciò che doveva fare. Le due cose, informazione e determinazione della politica da seguire, dovrebbero essere separate.
Dopo il fiasco cubano, lei disse che i capi di stato maggiore dell'esercito e il direttore della Cia avrebbero dovuto essere sostituiti. Lo pensa ancora?
Sì. E credo che ciò verrà fatto. Penso che la Cia potrà essere soppressa e sostituita da diversi servizi specializzati.
Davanti ad alcuni giornalisti, Kennedy ha lasciato intendere che la pubblicazione di certe informazioni da parte della stampa aveva compromesso il successo dell'operazione cubana. Lei ritiene che la stampa debba imporsi, da se stessa, in frangenti simili, determinate restrizioni?
Il presidente Kennedy pensava alle informazioni pubblicate sui preparativi dell'invasione. Io ritengo che sia dovere della stampa rivelare questo genere di cose, perché penso che una democrazia come la nostra non deve avere campi di addestramento, uomini armati e forze navali segrete in Paesi stranieri, a dispetto dei trattati firmati e delle leggi in vigore.
Lei ha detto poco fa di essere favorevole a una negoziazione per Berlino, anche se dovesse implicare qualche concessione ai sovietici. Che cosa risponde a chi potrebbe accusarla di sostenere una politica di acquiescenza?
La mia risposta è che non si risolverà il problema di vita o di morte per l'umanità con aggettivi del genere. Non sono d'accordo con quelli che pensano che dobbiamo versare un po' di sangue, di tanto in tanto, per provare che siamo virili. Si tratta di problemi troppo gravi perché si possa ragionare in questo modo. E poi, soprattutto, io non amo i vecchi signori che pensano di scatenare guerre nelle quali sono i giovani a doversi battere.
Howard K. Smith