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 2013  novembre 21 Giovedì calendario

Le malattie dei presidenti

Corriere della Sera, sabato 5 gennaio 2013
Ci auguriamo con tutto il cuore che Hillary Clinton superi indenne e senza conseguenze i problemi legati al suo stato di salute. E che nel 2016 possa con la sua candidatura rendere di nuovo avvincente e storica la corsa alla Casa Bianca. Eppure, se dovesse vincere come sondaggi ed esperti oggi predicono, Madame Secretary sarebbe sì la prima donna a occupare ufficialmente lo Studio Ovale, ma non la prima a guidare gli Stati Uniti.
Accadde tra il 1919 e il 1921, dopo che Woodrow Wilson, il presidente che per primo immaginò una governance politica mondiale con la Società delle Nazioni, fu colpito da un doppio ictus, che lo rese quasi completamente inabile. La gravità del suo impedimento venne celata a tutti, al pubblico, al Congresso, allo stesso vicepresidente Thomas Marshall. Wilson venne isolato nella East Wing e solo sua moglie Edith, il capo dello staff Joseph Tumulty e il suo medico personale Cary Crayson lo videro da quel giorno. Portavano dentro documenti e temi, ne uscivano con delle decisioni, quasi tutte influenzate dalla signora Edith. La quale, qualche anno dopo, quando il marito si era parzialmente ristabilito, ebbe a dire: «Non capisco perché voi uomini dobbiate fare tante storie in proposito. Io non ho mai avuto problemi a governare il Paese mentre Woodrow era malato».
Quello di Wilson rimane naturalmente un caso estremo. Ma le cartelle cliniche dei presidenti americani hanno ancora in tempi recentissimi costituito un territorio off-limits alla trasparenza, che pure si vuole cifra irrinunciabile di una piena democrazia. Non che altrove in Occidente gli standard siano più elevati: François Mitterrand si era appena insediato all'Eliseo, nel maggio 1981, quando il suo archiatra gli rivelò che aveva un cancro alla prostata. «Non bisognerà dire nulla, questi sono segreti di Stato» affermò solenne il neopresidente. E andò avanti per altri quattordici anni: i francesi e il mondo lo seppero solo dopo che uscì dall'Eliseo, pochi mesi prima della morte.
Ma tornando all'America e senza bisogno di indietreggiare fino alle crisi depressive di Abraham Lincoln, all'apnea ostruttiva notturna di William Howard Taft o all'alcolismo di Ulysses S. Grant, il generale che sconfisse i Confederati e poi venne eletto alla Casa Bianca, la storia del ventesimo secolo è piena di patologie presidenziali, anche molto gravi, nascoste alla pubblica conoscenza.
Lo sapevano tutti che Franklin D. Roosevelt aveva la poliomelite (o più verosimilmente la sindrome di Guillain-Barré, malattia del sistema nervoso periferico). Anzi, questo ne aveva umanizzato la figura. I media erano rispettosi, esistevano solo due o tre foto di lui in sedia a rotelle. Quello che nessuno seppe mai fu l'aggravarsi progressivo del male a partire dagli anni Quaranta, segnati da cardiopatia, ipertensione, bronchiti acute, polmoniti ricorrenti. Dopo la Conferenza di Teheran, nel 1943, il crollo di Roosevelt fu totale. Eppure il medico della Casa Bianca, Ross McIntire, rassicurò il pubblico americano e gli permise di correre per il quarto mandato nel 1944. A Yalta, pochi mesi dopo l'ennesima rielezione, il presidente del New Deal era un relitto, intervenne poco nella discussione e forse anche per questo, con scorno di Churchill, fu piuttosto accomodante verso Stalin.
John F. Kennedy non fu arrendevole verso il comunismo. Ma c'è voluto mezzo secolo dopo l'assassinio di Dallas, per conoscere in pieno l'ampiezza e la gravità dei suoi mali, che furono sempre scrupolosamente nascosti, per tenerne vivo il mito della «torcia passata a una nuova generazione di americani». Si sapeva del suo mal di schiena, tenuto a bada con iniezioni quasi quotidiane, ma solo nel 2003 la bella biografia di Robert Dallek ci ha rivelato che Kennedy soffriva del morbo di Addison, una grave insufficienza della ghiandola surrenale che richiedeva due trattamenti giornalieri di steroidi, più pillole di sale, dosi di cortisone e testosterone. Ancora, il giovane presidente della Nuova Frontiera ingeriva quantità massicce di antidolorifici, narcotici come Demerol e Metadone, ansiolitici, barbiturici per dormire, in tutto almeno otto diverse medicine al dì. Eppure, concludeva Dallek, tutte queste droghe non limitarono mai la sua capacità di assolvere i molti doveri della presidenza.
Chi invece ebbe qualche difficoltà fu Ronald Reagan. Tutti ricordiamo the Gipper salutare guascone dalla finestra del George Washington University Hospital, dopo l'attentato che quasi gli costò la vita nel 1981: «Spero che il chirurgo non sia un democratico», era riuscito a dire col suo solito humour prima di entrare in sala operatoria. Ma il pubblico americano non seppe mai che nei mesi successivi Reagan fu operativo soltanto per un'ora al giorno e che le foto e i filmati, dove il presidente veniva mostrato sempre pieno di vigore, erano accuratamente scelti dai suoi spin doctor. Fu Bob Woodward, nel suo libro Veil, a squarciare appunto il velo su un presidente lucido soltanto per pochi tratti della giornata. Ed eravamo appena agli inizi di una presidenza che è giustamente passata alla Storia. Il figlio Ron ha addirittura sostenuto la tesi che suo padre abbia mostrato già nel primo mandato alla Casa Bianca i segni iniziali del morbo di Alzheimer, la malattia che il Grande Comunicatore annunciò di avere alcuni anni dopo la fine della presidenza.

Paolo Valentino