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 2013  novembre 21 Giovedì calendario

Jfk: «Ich bin ein Berliner» (art. del 2/6/2013)

Corriere della Sera, domenica 2 giungo 2013
«Non avremo più un altro giorno come questo finché vivremo», disse John F. Kennedy a Ted Sorensen, il fidato collaboratore che scriveva quasi tutti i suoi discorsi, sull'aereo che da Berlino li portava in Irlanda. Era la sera del 26 giugno 1963. Sorvolando la città del Muro, il presidente americano era ancora in uno stato di esaltazione per la straordinaria esperienza vissuta qualche ora prima. Mezzo milione di berlinesi lo aveva acclamato e applaudito come se fosse un nuovo Messia. «Sembrava il secondo avvento», avrebbe scritto Arthur Schlesinger nelle sue memorie. Era stato un delirio collettivo così estremo da preoccupare perfino il vecchio cancelliere Adenauer, il quale aveva chiesto sottovoce a Dean Rusk, il segretario di Stato americano, ricevendone un rassicurante sorriso: «Questo significa che la Germania un giorno potrebbe avere un nuovo Hitler?».
Sulla Rudolph Wilde Platz, davanti al Rathaus Schöneberg, il municipio che ospitava il Senato di Berlino Ovest da quando la città era stata divisa, Kennedy aveva pronunciato quello che sarebbe diventato il suo discorso più celebre.
Un esempio ineguagliato di eloquenza pubblica, concluso da quattro parole, pronunciate in tedesco con l'accento bostoniano: Ich bin ein Berliner, io sono un berlinese. Un capolavoro retorico, che avrebbe cambiato per sempre il vocabolario della solidarietà a un popolo minacciato. Fu una promessa d'impegno dagli effetti psicologici dirompenti su una popolazione di fatto ostaggio della minaccia totalitaria: il giovane leader del mondo libero rassicurava i berlinesi che non erano soli sulla frontiera più esposta della Guerra fredda.
Otto Schily, futuro ministro socialdemocratico dell'Interno, nel 1963 aveva trent'anni e quel giorno si arrampicò su un lampione per vedere e ascoltare il presidente americano. «Kennedy — ricorda Schily — per noi era una speranza, incarnava tutte le cose che ci affascinavano degli Stati Uniti: una figura carismatica, capace di suscitare in noi giovani le stesse emozioni che avevamo provato per James Dean. Ma la costruzione del Muro aveva provocato delusione, rabbia e risentimento verso l'Occidente che sembrava abbandonarci. Pensavamo che fosse l'inizio della fine. A Schöneberg, Kennedy seppe parlare alla nostra anima ferita. Con quella frase, ci disse che era uno di noi. Per questo lo applaudimmo in delirio».
Cinquant'anni dopo la nuova Berlino, capitale di una Germania riunificata e tornata egemone in Europa, ricorda quel passaggio cruciale della sua vicenda, con mostre, conferenze, proiezioni cinematografiche. Di più, toccherà proprio al presidente americano che più si è ricollegato alla mistica di John Kennedy dare particolare solennità alle celebrazioni: il 19 giugno, una settimana prima dell'anniversario, Barack Obama, di ritorno dal vertice del G8 in Irlanda del Nord, parlerà nella capitale tedesca insieme ad Angela Merkel.
Eppure, il caso e l'intuizione giocarono un ruolo importante in quella mattina di mezzo secolo fa. Non era esattamente quello, infatti, il discorso che i consiglieri avevano preparato per Kennedy. Nell'idea della Casa Bianca, la visita in Europa aveva lo scopo di bypassare i governi alleati e rivolgersi direttamente alle popolazioni europee, per creare consenso intorno ai negoziati con Mosca sulla non-proliferazione nucleare e allo stesso tempo dare assicurazioni sulla volontà americana di difendere i Paesi della Nato da un'eventuale aggressione sovietica. Ma l'abbraccio contagioso dei berlinesi e il clima di entusiasmo, che aveva trovato per le strade al suo arrivo in città, convinsero Kennedy a parlare a braccio e a non rispettare il copione della diplomazia, che metteva in guardia da ogni inutile provocazione verso il Cremlino. Come ha spiegato lo storico Andreas Daum nel suo Kennedy in Berlin, «il presidente sentì di dovere qualcosa alla gente di Berlino, che lo aveva accolto come un liberatore».
Così Kennedy scelse per la piazza un tono più duro, puntò l'indice contro il mondo comunista, indicò il Muro come «prova del suo fallimento», ripetendo come un mantra l'invito «che vengano a Berlino» a quanti, nel mondo, coltivavano ancora residue illusioni sulla vera natura del comunismo. Fu un rischio calcolato, vedremo più avanti la ragione, che tuttavia non mancò di allarmare il più diretto collaboratore del presidente, il consigliere per la sicurezza nazionale McGeorge Bundy. Come ci raccontò Robert Lochner, l'interprete di Kennedy in quella visita, Bundy, appena finito il discorso, si avvicinò infatti al leader americano e gli disse: «Mr President, I think you went a bit too far», signor presidente penso che lei si sia spinto un po' troppo in là. E molto preoccupato apparve anche il borgomastro, Willy Brandt, che ascoltò Kennedy con la faccia di pietra: poche settimane dopo il futuro cancelliere aveva già in programma un discorso, che a posteriori sarà considerato come il primo mattone della Ostpolitik.
In realtà, poche ore dopo il trionfo della Rudolph Wilde Platz, Kennedy avrebbe confermato la sua «strategia della pace» in un intervento molto più misurato alla Frei Universität, dove fra le altre cose dichiarò: «Quando compaiono possibilità di riconciliazione, noi occidentali vogliamo sia chiaro che non nutriamo alcuna ostilità nei confronti di nessun popolo o sistema, a condizione che ognuno decida il proprio destino senza interferire con la libertà di scelta degli altri».
Ma la storia non ha mai registrato questo discorso. Fu la celebre frase a rimanere scolpita. E fu Kennedy in persona a pensarla, I am a citizen of Berlin, con Lochner a tradurgliela, scrivendola in stampatello in un foglietto. «Grammaticalmente corretta», insiste l'interprete, contro chi obietta che la frase avrebbe dovuto suonare Ich bin Berliner, non volendo il verbo sein, essere, alcun articolo se seguito da sostantivo. E quanto alla facile ironia, cui indulse soprattutto la stampa americana, che un Berliner, sulla Sprea, è anche un bombolone ripieno di marmellata, i berlinesi non fecero equivoci, né prima, né dopo. Capirono perfettamente e furono onorati e rassicurati di scoprire come loro concittadino d'elezione il presidente degli Stati Uniti d'America, il Paese che difendeva, con la loro, la libertà di tutti.
Paolo Valentino
Paolo Valentino