La Repubblica, 16 novembre 2013
Tags : Banksy a New York
Banksy, il graffittaro fantasma che manda in tilt New York
La Repubblica
L’aria gonfia di pioggia e il vento che scompiglia le nuvole nere sopra il cielo di Manhattan non fermano l’inseguimento dei cacciatori. Sono centinaia e continuano ad aumentare, divisi in gruppi di amici o isolati, armati di smartphone e macchine fotografiche pattugliano giorno e (soprattutto) notte le strade di New York. Si appostano in silenzio oppure corrono da una parte all’altra rumorosi, inseguendo il tam tam del web. La loro preda è il più celebrato e misterioso graffittaro (definizione stretta) del mondo: l’inglese Banksy, che dal primo ottobre ha trasformato la città in una galleria d’arte. Il progetto si chiama “Better out than in”, meglio fuori che dentro, secondo una frase di Cezanne: «Nessun dipinto fatto in studio vale quanto uno all’aperto». Ogni giorno, l’artista posta la foto e il luogo approssimativo della sua creazione sul sito e sull’account Instagram e Twitter come se fosse un catalogo multimediale di una mostra. Nemmeno la sua poliedrica fantasia poteva immaginare quello che sarebbe avvenuto: una mania collettiva con giornali e trasmissioni tv mobilitate in dirette quotidiane. Un esercito che comprende appassionati di graffiti, cronisti, poliziotti in borghese e writer alleati o rivali, tutti immersi in una gigantesca caccia al tesoro tanto da diventare una performance dentro la performance.
Il debutto avviene ad Allen Street che sta nel Lower East Side, una delle zone preferite da Banksy. Il disegno originale, due ragazzini vestiti da monelli primi Novecento, è quasi completamente cancellato ma la processione non si ferma. Paul, è sulla sessantina, abita qui. «Era bellissimo»: dice con un sorriso ammiccante. Lo interrogano: «Ma hai visto chi l’ha fatto?». Lui esita, poi risponde: «No, purtroppo no. Di sicuro è stato tra mezzanotte e le due, sono sceso con il cane due volte quella notte».
La folla ondeggia verso Ludlow street, a pochi isolati di distanza. Dentro un cortile protetto da un’inferriata alta due metri, chiusa con un grosso lucchetto intatto c’è uno splendido disegno che corre tra il muro e un’auto abbandonata: un cavallo imbizzarrito sopra degli uomini urlanti. L’ispirazione è il bombardamento di civili in Iraq dove morirono anche due giornalisti della Reuters e diffuso da Wikileaks. Jimmy è uno dei writer più noti di New York, è qui dopo un lungo corteggiamento via e-mail: «Non è il mio vero nome », dice per proteggere la privacy. Capelli lunghi, camicia a scacchi racconta: «Lui si muove con altri due collaboratori, è sempre presente alla realizzazione del graffito. È stato qui l’anno scorso per due mesi, ha studiato le location e ha deciso dove avrebbe colpito. Vedi? Ha usato quella scala antincendio per passare: tutti noi abbiamo imparato a scavalcare questi ostacoli. La velocità è fondamentale ».
Il New York Daily News da due giorni mostra un’immagine: un uomo sulla quarantina, bianco, una tuta blu sporca di vernice che cammina: «È lui», dice chi ha scattato la foto, ma non ci sono conferme. Lui sa di essere cercato ma sa anche di non poter mancare l’appuntamento quotidiano: «Significherebbe che è stato arrestato e quindi lui allarga la mappa dei suoi interventi», spiega ancora Jimmy. Sul sito di Banksy, da ieri, appare questo messaggio: «Chi ha messo un dispositivo per rintracciare il camion, sappia che sta seguendo un auto a noleggio del Queens». Perché lui usa anche furgoni che allestisce a piacere: l’ultimo mostra una serie di animali. A fianco di ogni opera c’è un numero di telefono, risponde una voce maschile che illustra il senso di quello che si vede. L’artista non deve sfuggire solo agli uomini della “Vandalism Task Force” della polizia ma anche dalla furia di altri writer, che non gradiscono il suo arrivo in città. Uno di loro, Omar, partecipa alla caccia e se arriva prima dei fan entra in azione e sporca l’opera originale. Altri lavorano di scalpello e grattano via la vernice. A East New York, uno degli ultimi angoli bui di Brooklyn, un gruppo di ragazzi afroamericani copre il muro con cartoni. per vedere quel che c’è sotto servono 20 dollari: «Siamo stufi di tutti questi bianchi che vengono nel nostro quartiere per curiosare, decine di taxi in poche ore. Nessuno si interessa dei nostro problemi».
Banksy non parla. Attraverso un suo collaboratore risponde ad alcune domande del Village Voice: «Farò cose elaborate ed altre più semplici: è un progetto in movimento, voglio vedere come reagisce la città. New York pensa che siamo cattivi, voglio dimostrare che non è così. Certo avrei potuto andare anche a Pechino o Mosca, ma la pizza non è buona come qui».
L’aria gonfia di pioggia e il vento che scompiglia le nuvole nere sopra il cielo di Manhattan non fermano l’inseguimento dei cacciatori. Sono centinaia e continuano ad aumentare, divisi in gruppi di amici o isolati, armati di smartphone e macchine fotografiche pattugliano giorno e (soprattutto) notte le strade di New York. Si appostano in silenzio oppure corrono da una parte all’altra rumorosi, inseguendo il tam tam del web. La loro preda è il più celebrato e misterioso graffittaro (definizione stretta) del mondo: l’inglese Banksy, che dal primo ottobre ha trasformato la città in una galleria d’arte. Il progetto si chiama “Better out than in”, meglio fuori che dentro, secondo una frase di Cezanne: «Nessun dipinto fatto in studio vale quanto uno all’aperto». Ogni giorno, l’artista posta la foto e il luogo approssimativo della sua creazione sul sito e sull’account Instagram e Twitter come se fosse un catalogo multimediale di una mostra. Nemmeno la sua poliedrica fantasia poteva immaginare quello che sarebbe avvenuto: una mania collettiva con giornali e trasmissioni tv mobilitate in dirette quotidiane. Un esercito che comprende appassionati di graffiti, cronisti, poliziotti in borghese e writer alleati o rivali, tutti immersi in una gigantesca caccia al tesoro tanto da diventare una performance dentro la performance.
Il debutto avviene ad Allen Street che sta nel Lower East Side, una delle zone preferite da Banksy. Il disegno originale, due ragazzini vestiti da monelli primi Novecento, è quasi completamente cancellato ma la processione non si ferma. Paul, è sulla sessantina, abita qui. «Era bellissimo»: dice con un sorriso ammiccante. Lo interrogano: «Ma hai visto chi l’ha fatto?». Lui esita, poi risponde: «No, purtroppo no. Di sicuro è stato tra mezzanotte e le due, sono sceso con il cane due volte quella notte».
La folla ondeggia verso Ludlow street, a pochi isolati di distanza. Dentro un cortile protetto da un’inferriata alta due metri, chiusa con un grosso lucchetto intatto c’è uno splendido disegno che corre tra il muro e un’auto abbandonata: un cavallo imbizzarrito sopra degli uomini urlanti. L’ispirazione è il bombardamento di civili in Iraq dove morirono anche due giornalisti della Reuters e diffuso da Wikileaks. Jimmy è uno dei writer più noti di New York, è qui dopo un lungo corteggiamento via e-mail: «Non è il mio vero nome », dice per proteggere la privacy. Capelli lunghi, camicia a scacchi racconta: «Lui si muove con altri due collaboratori, è sempre presente alla realizzazione del graffito. È stato qui l’anno scorso per due mesi, ha studiato le location e ha deciso dove avrebbe colpito. Vedi? Ha usato quella scala antincendio per passare: tutti noi abbiamo imparato a scavalcare questi ostacoli. La velocità è fondamentale ».
Il New York Daily News da due giorni mostra un’immagine: un uomo sulla quarantina, bianco, una tuta blu sporca di vernice che cammina: «È lui», dice chi ha scattato la foto, ma non ci sono conferme. Lui sa di essere cercato ma sa anche di non poter mancare l’appuntamento quotidiano: «Significherebbe che è stato arrestato e quindi lui allarga la mappa dei suoi interventi», spiega ancora Jimmy. Sul sito di Banksy, da ieri, appare questo messaggio: «Chi ha messo un dispositivo per rintracciare il camion, sappia che sta seguendo un auto a noleggio del Queens». Perché lui usa anche furgoni che allestisce a piacere: l’ultimo mostra una serie di animali. A fianco di ogni opera c’è un numero di telefono, risponde una voce maschile che illustra il senso di quello che si vede. L’artista non deve sfuggire solo agli uomini della “Vandalism Task Force” della polizia ma anche dalla furia di altri writer, che non gradiscono il suo arrivo in città. Uno di loro, Omar, partecipa alla caccia e se arriva prima dei fan entra in azione e sporca l’opera originale. Altri lavorano di scalpello e grattano via la vernice. A East New York, uno degli ultimi angoli bui di Brooklyn, un gruppo di ragazzi afroamericani copre il muro con cartoni. per vedere quel che c’è sotto servono 20 dollari: «Siamo stufi di tutti questi bianchi che vengono nel nostro quartiere per curiosare, decine di taxi in poche ore. Nessuno si interessa dei nostro problemi».
Banksy non parla. Attraverso un suo collaboratore risponde ad alcune domande del Village Voice: «Farò cose elaborate ed altre più semplici: è un progetto in movimento, voglio vedere come reagisce la città. New York pensa che siamo cattivi, voglio dimostrare che non è così. Certo avrei potuto andare anche a Pechino o Mosca, ma la pizza non è buona come qui».
Massimo Vincenzi