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 2013  novembre 16 Sabato calendario

Lo show di Banksy che mette in crisi il sistema dell’arte

Il Giornale
Strano che il dibattito in­torno a Banksy alla fine si riduca alla liceità delle sue imprese, con una netta divisione tra supporter e detrattori, tra chi lo considera un genio dell’arte e chi un im­brattamuri perseguibile dalla legge. Occorrerebbe spingersi più in là, a cominciare dal luogo di provenienza del misterioso in­glese: Bristol, città che negli anni ’90 fu un punto di riferimento della musica elettronica alterna­tiva. Non bastasse, fa fede la scrit­ta pubblicata sul suo sito che cita Paul Cézanne, secondo cui qual­siasi pittura realizzata all’ester­no ha più valore di un quadro nel­lo studio. Come ai tempi dell’Im­pressionismo e del Postim­pressionismo il teatro dell’ar­te è l’intera cit­tà, e Banksy di­pinge en plein air , a New York invece che a Parigi. Nonostante la globalizzazio­ne abbia rivo­luzi­onato la ge­ografia dell’ar­te, Manhattan resta il palco­scenico dove un artista rice­ve la consacra­zione. Banksy non sceglie i mu­sei, le gallerie e neppure quelle forme di intrattenimento colto che si chiamano workshop, resi­denze o open studio, tanto gradi­ti al pubblico selezionato ma ben poco incisivi nella realtà. Semplicemente si è preso New York per un mese (e siamo anco­ra in attesa del botto finale, se ci sarà) disseminando la sua parti­colarissima Street Art­ che ha po­che p­arentele con le forme stori­cizzate degli anni ’ 80, Basquiat e Haring in testa- per le strade, sot­to i ponti, al centro e in periferia.
Il meccanismo di azione è piut­tosto simile a quello dei Rave Par­ty (ancora gli anni '90); di più, l’impatto è moltiplicato dalla re­te, lo strumento con il quale Banksy ha ottenuto fama e con­senso vero. Il gioco è semplice: il 1 ottobre Banksy è sbarcato a New York dipingendo due figu­re di ragazzini che afferrano una bomboletta dal cartello «Graffiti is a Crime». In pochi minuti la fo­to dell’intervento è stata postata sul suo sito, accessibile in tempo reale in qualsiasi parte del mon­do, mentre il sindaco Michael Bloomberg cominciava a scate­nargli i Ghostbuster anti Street incaricati di cancellare imme­diatamente quei disegni che per lui non sono arte, anzi costitui­scono un abuso contro la pro­prietà pubblica e privata. Il 5 otto­bre Banksy ha fatto girare per tut­ta la città un camion convertito in giardino mobile. Due giorni dopo su un muro di Brooklyn ha appiccicato un palloncino a for­ma di cuore incerottato, parodia dell’opera milionaria di Jeff Ko­ons. L’artista inglese ha mescola­to i suoi interventi più celebri di figure in bianco e nero con instal­lazioni e performance, come quella dell’11 ottobre, un ca­mion che trasporta gli animali al macello colmo di irriverenti e te­neri peluche, immagine che de­ve parecchio alle sculture di Mike Kelley.
La beffa più clamorosa, solo in parte riuscita, è l’allestimento di una bancarella a Central Park do­ve un anziano s­ignore propone­va opere autografe del nostro ad appena 60 dollari. In pochi le hanno comprate, perché l’arte portata fuori dal contesto non ha più valore, e quindi prevale il ti­more di buttar via i soldi per un ta­rocco. Banksy ha poi giocato con il clown di McDonald, citando in­direttamente Bruce Nauman, e infranto il tabù delle Twin Towers. Ha installato, era il 18 ot­tobre, due dipinti sotto un ponte di West 24th Street presidiati da un guardiano. Ha replicato una sfinge di Giza in pietra nei Que­ens e invitato al Luna Park un ma­nichino vestito come la morte.
In attesa del possibile megae­vento nella notte di Halloween, e al netto del can can mediati­co, con questa sua mostra nel­l’open space di NYC, Banksy si è dimostrato un artista davvero intrigante.
Luca Beatrice