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 2013  novembre 12 Martedì calendario

Nella mia lunga e tormentata esistenza


Tratto da Nella mia lunga e tormentata esistenza. 
Lettere da una vita 
di Indro Montanelli, a cura di Paolo di Paolo, Rizzoli, 2012

• «Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza / Indro Montanelli / giornalista / prende congedo dai suoi lettori ringraziandoli dell’affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito» (L’auto-necrologio dettato poche notti prima di morire alla nipote Letizia Moizzi).

• «Quando nacqui, il mio aspetto era tutt’altro che incoraggiante. Su uno scheletro lungo e gracilino posava una testa stretta, schiacciata sulla nuca, quasi completamente calva e a forma di pera che oscillava su un collo filiforme. Neanche in seguito son diventato un adone: il mio scheletro ha serbato tutta la sua lunghezza e gracilità, il collo si è mantenuto esile, e la testa, ora che si avvia di nuovo verso la seconda e definitiva calvizie, torna a denunziare la sua irregolare struttura. Però, se l’indulgenza verso me stesso non mi fa velo, non c’è neanche da far paragoni con le anomalie che mi affliggevano quando spalancai la bocca al primo vagito. Tutti coloro che mi hanno visto allora, compresa mia madre, che sarebbe la più interessata a negarlo, riconoscono che mi presentavo come un autentico mostro. Eppure, fui bene accolto: non soltanto dai miei genitori, che in me vedevano il primo figlio, destinato poi a restare unico, ma anche dai miei nonni e zii di cui rappresentavo il diciassettesimo nipote. Essi mi sballottarono dall’uno all’altro, mi portarono alla finestra per analizzarmi meglio, e alla fine sentenziarono: “È brutto, non c’è che dire, ma si vede che è figliòlo di su’ padre!”» (Luglio 1953, pubblicata con il titolo Il padre della «figlia del secolo», in I. Montanelli, Lettere a Longanesi e altri nemici, Longanesi, Milano 1955).

• «Il mio pellegrinaggio a Grenoble è stato bigio: scarso divertimento, scarso studio, scarso tutto. Una cosa sola ho imparato, che ai tuoi occhi deve avere una certa importanza: a odiare i francesi e a disprezzarli. Questi sudici non ci perdonano di esser costretti a ammirarci». (Lettera a Diano Brocchi, primi anni Trenta: gli anni dell’università, prima a Firenze, poi a Grenoble e a Parigi).

• «Di molti sentimenti che mi agitano mi piace dirti del più profondo: il timore che questo mio gesto di indisciplina – di cui oggi riconosco il torto e la gravità – possa essere interpretato come incomprensione fascista. Il mio incrollabile amore per il Duce lo conosci: ti dirò che i miei venticinque anni e il loro impeto mi han tradito. (Lettera del 1934 a Ruggero Minardi, informatore della polizia politica residente a Parigi, in cui si difende per una serie di articoli polemici se non caustici verso i francesi). 

• «Io continuo nel mio solito ritmo di vita oblioso; e, da un punto di vista egoistico, ne son soddisfatto. Ridotta la mia attività sessuale ad animalesca semplicità e la mia esistenza in genere ad un bilancio di dare e di avere fisiologico, lo spirito soffre tanto quanto gode il fisico. E io di un po’ di gioia vegetativa ne avevo diritto e bisogno» (Lettera a Diano Brocchi al ritorno in Italia).
 
• «Perché a un simile posto, che richiedeva una certa esperienza di quella truppa e di quel territorio senza strade, nemmeno viottoli né carte topografiche, avessero designato un sottotenentino di venticinque anni da pochi giorni catapultatosi da Parigi all’Asmara non l’ho mai capito, ma di lì a qualche settimana ringraziavo il Cielo che fosse capitato a me.» (Nel giugno del 1935 Montanelli parte volontario per l’impresa abissina ed entra nel XX Battaglione eritreo come comandante di compagnia con il grado di sottotenente).
 
• «Posso dirti che tornerò presto, con un merito di più acquistato a buon mercato» (Montanelli alla madre prima della partenza per l’Abissinia).

• «Quanto a scrivere un diario, è un’idea che forse metterò in pratica (anzi ho già cominciato), ma con altri intenti. Bisogna creare la leggenda della Colonia e della sua guerra, niente verismo, niente De Amicis, niente Galvano. Oggi più di prima, son convinto che bisogna lasciare al suo destino la triste Italia della letteratura amena. Gli uomini di qui devono giganteggiare. Anzi, vorrei qualche libro che trattasse, magari romanzandola, la storia dei nostri esploratori e pionieri africani (informarsi da Luchini, Istituto Fascista di Cultura, Firenze), soprattutto di Torelli. Ne ricaverò leggende e toglierò questi uomini alla piccola cronaca» (Lettera ai genitori dall’Abissinia).
 
• «Quanto alla mia vita di qui, non si può raccontare: disagi fisici non ce ne sono, malattie nemmeno; ma è una vita che tempra il morale, perché ti condanna a una solitudine senza scampo – e le inevitabili crisi e i rimpianti e le debolezze devi masticarle e superarle da solo perché questa è la legge d’Africa: essere uomini rispetto ai bianchi ed essere dèi rispetto ai negri. Quindi serietà, equilibrio, nessuna crisi di rabbia, energia nel comando, giustizia e severità nelle punizioni che sono continue» (Ai genitori, luglio 1935).

• «Ma, a proposito, che se ne dice costà? Qui non abbiamo né radio né giornali, siamo al buio di tutto. Qualcosa si deduce soltanto dal gran movimento d’ascari e d’ufficiali e dagli ordini che riceviamo. Ma l’Italia che fa? Ci guarda? Si rende conto che la nostra è la sua sorte? Oppure seguita a sollazzarsi per via Veneto? [...]» (Lettera ai genitori dall’Abissinia).
 
• «Vuole utilizzarmi? Niente contratto e niente obblighi né per me né per Lei. Se vuole, Le riservo l’esclusiva della mia firma per il periodo che Ella crede, dietro soltanto garanzia di un minimo di tre o quattro articoli al mese da retribuirmi volta per volta. (Lettera al direttore del Corriere della Sera Aldo Borelli dal fronte spagnolo).
 
• L’inquieto ventisettenne rientra in Italia. Le porte del «Corriere» non gli si aprono ancora. Preme di nuovo su Ugo Ojetti. «Lei può molto al «Corriere» gli scrive. Ma Ojetti – questo il giovane Indro non può saperlo – annota sulla lettera ricevuta, con una matita rossa: “Illuso”.

• Montanelli, in procinto di partire per l’Abbissinia, scrisse a Rudyard Kipling per cui aveva una venerazione. Kipling rispose di suo pugno con le sole parole: «God bless You». «La tenevo come un cimelio. Ma quando mi arrestarono, i tedeschi mi portarono via anche quello».

• «Anche tu comprendi che il mio mestiere è inconciliabile con la "nostra" vita e per questo ho preso a odiarlo. Devo uscire dal giornalismo. Del resto, meglio troppo presto che troppo tardi. Non si può far nulla di buono, quando lo si fa con sforzo, quando si parte non con l’ansia allegra di un’avventura che comincia, ma con la pena di qualcosa che si interrompe. Quando, invece di guardare avanti, a quello che ci aspetta, non si fa che guardare indietro, a quello che si è lasciato. Eppoi, non ce la faccio, Maggie. Non ho desiderio di te; ho bisogno di te. Questi giorni uguali, nemmeno il lavoro, quale lavoro, mi dà piacere» (Lettera a Margarethe Collins).
 
• «Lascerò il giornalismo, dicevo. Non è una decisione che prendo su due piedi e tu non devi averne timore. Lo lascerò solo quando avrò in mano, sicure, le carte di un altro giuoco: il che sarà per l’anno venturo. Io debutterò l’anno venturo con tre commedie. Di esse, due andranno bene e una andrà male. Avrò bisogno di aiutarmi ancora col giornalismo e lo farò, ma a scartamento ridotto e sempre in tua compagnia, preparando intanto altri tre o quattro lavori. Non ho niente di nuovo da dire sul teatro; cioè lo avrei, ma il giornalismo mi ha insegnato troppe tristi verità sul pubblico per consentirmi di tentare l’avventura. Diranno che faccio un teatro borghese. Verissimo. Diranno che faccio un teatro scarsamente italiano. Verissimo. Diranno che faccio più dell’industria che dell’arte. Verissimo. Il giudizio di dieci o cento competenti, non m’interessa. M’interessa solo il successo. Mi disprezzerai, per questo, anche tu? A volte me lo domando» (Lettera a Margarethe Collins).
 
• «Caro Direttore, spero che una cassetta di beccacce speditaVi ieri Vi sia giunta e che il suo giungere non abbia sconvolto il Vostro olfatto. […]» - Borelli risponde con un po’ di malizia: «Che le beccacce fossero morte nessuno potrebbe discuterlo, ma che siano state uccise da voi è una affermazione degna di arditezza giovanile consentanea alla vostra età, ma non alla mia. E adesso anziché continuare ad andare a caccia, cercate di mandarci degli articoli e non raccontate più al vostro Direttore delle bugie». - «Comprenderete benissimo che, dopo le perfide insinuazioni che avete fatto sulla mia dignità di cacciatore, non mi restava proprio che mandarvi altre beccacce. L’ho fatto e Vi confesso che non ne ho rimorso e Vi intimo anche che seguiterò a mandarvene sinché, esausto, non mi direte: “Sì, ci credo”. Ma per dimostrarvi che le beccacce non mi fanno dimenticare gli articoli, Vi mando anche un articolo, caso mai non Vi garbasse l’idea degli zingari. Ché se poi questa idea invece Vi garba, la «Romena» lasciatela per più tardi. Grazie di tutto e non maltrattatemi così turpemente perché, in fin dei conti, le beccacce non le uccido coi pallini avvelenati»  (Scambio di lettere tra Montanelli e il direttore del Corriere della Sera Borelli).

• «La rivoltella con cui vorrei suicidarmi si chiama Maria Mandeline Vrede, è una ragazza di ventidue anni, svedese di Finlandia, nipote del maresciallo Mannerheim, di grande e severa famiglia su cui, se lo ritenete necessario per il prestigio del giornale e nel mio interesse, potrete avere larghe informazioni da Coppini». (Stoccolma, 1939. Così Montanelli annuncia al direttore Borelli l’intenzione, mai concretizzatasi, di sposare – nonostante fosse impegnato con Margarethe – Maria Mandeline Vrede).
 
• «Fino a ieri mi sentivo male, rugginoso alle giunture del corpo e dell’anima, molle, sfiduciato. Oggi mi sento benissimo, ho la paprika al sedere, la testa chiara e la quasi certezza che tutto andrà bene [...]» (Così alla fidanzata Meggie descrive l’esperienza di inviato di guerra nei Balcani). 
 
• “Sinosite”, due operazioni al naso, una debilitante cura elettrica hanno portato Montanelli a condizioni fisiche del tutto precarie: «A un certo punto ho cominciato a non dormire più, a vederci poco e a non aver voglia di mangiare nemmeno quel poco che si trova. Il medico ha pronunziato il seguente verdetto: forte esaurimento nervoso, necessità di riposo e di sana alimentazione» (Ad Aldo Borelli. Helsinki, 20 agosto 1941).

• Durante la reclusione nel carcere di Gallarate chiede all’amico Cesarino Branduani i seguenti volumi de «Le Scie»: K. Barth, Pietro il Grande. Foch, Memorie. Guedalla, Il duca di Wellington. Harris, Vita e miracoli di G.B. Shaw. Meucci, Casanova. Panzini, Il conte di Cavour. Taliani, Vita del cardinale Gasparri. Zweig, Magellano. Aggiunge: «Se non muoio, te li pago, altrimenti te li pagheranno i miei eredi. Grazie» (Gallarate, 25 febbraio 1944).
 
• Altre cose di cui ha bisogno in carcere: «Denaro (molto), sigarette, fiammiferi, vettovaglie e libri. Poiché è estremamente difficile far entrare roba, bisogna che essa sia portata a piccolissimi intervalli e che non sia ingombrante. Per le vettovaglie chiedo: niente pane, ma uova sode, cioccolato, salumi, burro, un po’ di zucchero, torrone: roba condensata, insomma. Per i libri andrebbero bene quelli della collezione «La zattera» di Bompiani (tascabili). […] Un pettine ed un asciugamano» (A Gaetano Greco-Naccarato, Gallarate, fine febbraio 1944).

• «La sera fui interrogato dallo stesso commissario che mi aveva picchiato. Era più gentile. Fu una presa di contatto introduttiva e generica. Avevano saputo che ero giornalista, ufficiale, ex volontario e decorato. Mi chiesero le mie opinioni politiche. Esse furono: “Dal 1938 non appartengo più al Pf. Sono liberale ma non ho svolto nessuna attività in seno al partito omonimo. Ho considerato un giorno di lutto nazionale quello dell’alleanza fra Italia e Germania; ugualmente catastrofico per noi e per voi il nostro intervento in guerra. Considero l’8 settembre come un evento vergognoso e necessario. Come Ufficiale sono fedele al Re. E, siccome il Re è in guerra con voi, anch’io mi considero in guerra con voi. Se l’8 settembre avessi rivestito l’uniforme non mi sarei arreso. Non odio la Germania. Riterrei catastrofica per il mio Paese una sua completa vittoria, così come una sua completa sconfitta. Dopo l’8 settembre ho avuto più volte la tentazione di arruolarmi nelle bande, ma vi ho sempre rinunziato: vorrei combattere come soldato; ma, non potendolo, rinunzio a combattervi come bandito”. Essi trascrissero e io firmai [...]. (Ad Alberto Doddoli, Gallarate, 1944).
 
• «Il mio morale è certamente ottimo, ma l’unico modo di rovinarmelo è di mandarmi dei libri come questo. Il Gatto! E che me ne frega, a me, dei gatti?» (A Gaetano Greco-Naccarato, San Vittore (Milano), giugno 1944).

• “Maggiolino”, il soprannome con cui chiama la fidanzata Maggie.
 
• Montanelli pianifica la fuga dal carcere: «Una cosa potete fare: andare con questa mia dal direttore amministrativo del «Corriere», Palazzi, pregarlo di consegnarti quanti più marchi tedeschi può e mandarmeli in modo che li abbia lunedì mattina. Potrebbero esserci preziosi. Mandami anche qualche migliaia di lire» (A Gaetano Greco-Naccarato, San Vittore (Milano), 12 giugno 1944).
 
• «Se continui a mandarmi roba a questo ritmo, in infermeria ci andrò davvero. Tu ed H. siete due assi. Non si sono mai visti a San Vittore dei galeotti con zuppa inglese» (A Gaetano Greco-Naccarato, San Vittore (Milano), giugno 1944).
 
• «Che cosa scrissero i giornali quando fui arrestato? Mandamene i campioncini. Mi divertirò» (A Gaetano Greco-Naccarato, San Vittore (Milano), giugno 1944). 

• Così spiega a Piero Parini, allora prefetto di Milano, l’equivoco relativo al suo «tradimento» del fascismo: «Io tradii nel 1938. Fu in quell’anno che io, spontaneamente, rinunziai alla tessera, alla qualifica e al giuramento di fascista[...] Sono rimasto non fascista sino al ’40, quando diventai categoricamente antifascista. Cosa di cui non feci mistero nemmeno in sede ufficiale. Richiamato da Pavolini allora Ministro della Cultura, mi difesi dall’accusa di antifascista militante (che infatti era falsa, poiché non militavo in nessun partito), ma riconobbi francamente la mia disapprovazione per l’alleanza tedesca, per la guerra che avremmo perduta e, in particolare, per le direttive sulla propaganda. Richiamato da Senise, ribadii, anche sotto minaccia di confino, queste mie opinioni. Come vede, non potevo essere più esplicito» (fine giugno 1944, San Vittore, Milano).
 
• «Forse Lei ignora, Eccellenza, che cosa significa sapere la propria moglie in galera (sotto la seguente accusa: “Conoscendo le opinioni del marito, non lo denunziava”) nelle mani di una polizia che non si stancava di ripeterle: “Suo marito sarà fucilato domani. Abbiamo arrestato a Innsbruck suo padre e sua madre. Suo padre è morente per lo choc subito”». ( A Piero Parini, fine giugno 1944, San Vittore, Milano)

• Numero di matricola di Montanelli in carcere: 2054. 

• «Quando io mi trovavo a Gallarate la partita sembrava definitivamente perduta. Questo, per lo meno, era stato comunicato ufficialmente dai nostri aguzzini a Maggie: e cioè che io sarei stato accoppato e lei condannata a trent’anni» (Lettera al padre Sestilio Montanelli, s.d. [autunno 1944]). 
 
• «C’è stato – e va ricordato – un telegramma di Buffarini Guidi che, a nome del Duce, chiedeva ai tedeschi la mia fucilazione. E quando in Italia si è sparsa la notizia del mio arrivo qui, pare che il pagliaccio sia andato su tutte le furie, come se non avesse altri guai a cui pensare» (A Sestilio Montanelli, s.d. [autunno 1944] dalla Svizzera dove si è rifugiato dopo la fuga dal carcere).
 
• «Come ti ho detto il più grande aiuto ci viene, come al solito, dalla Chiesa. [...] Visto all’opera dall’8 settembre a questa parte, mi accorgo che il Clero è l’unica cosa veramente seria e onesta che sia rimasta nel nostro paese» (A Sestilio Montanelli, Davos, 15 gennaio [1945]).
 
• Una delle prime puntate della fortunata serie di “Incontri” fu dedicata a Giovanni Guareschi: «Se tu fossi un ministro o un accademico d’Italia, dovrei mettermi alla ricerca di aneddoti che ti riguardano. Ma, grazie a Dio, sei un collega e conto sul tuo aiuto. Vorrei, in due o tre cartelline dattilografate, un Guareschi inedito, protagonista di episodi patetici e divertenti – a piacere – di cui io possa vantarmi di essere stato complice o testimone. E spero che me lo manderai. Penserei io, poi, a trasformare l’autoritratto in ritratto; e, prima di passarlo a Longanesi, te lo mostrerei. Ti va?  (A Giovanni Guareschi, Roma, 14 agosto 1952).
 
• «Sai cosa mi raccontò Peppo Novello, tuo compagno di prigionia in Germania? Ecco qui le sue testuali parole: “Guareschi, nel Lager, fu, sia pure involontariamente, un collaborazionista dei tedeschi. Egli infatti aveva costruito una sedia che, nelle sue intenzioni, doveva servire all’uso cui di solito son destinate le sedie. Ma i tedeschi, appena la videro, la sequestrarono, e per molto tempo non se ne seppe più nulla. Solo alla fine veniamo a conoscere l’orrenda verità. Su quella sedia venivano messe le vittime della Gestapo, quando con nessun’altra tortura si riusciva a farle confessare. Nessuno resisteva alla sedia di Guareschi, che solo per dimenticanza non venne esibita a Norimberga a riprova della crudeltà dei metodi usati dai carnefici nazifascisti...”. Vergogna, Giovannino!...» (A Giovanni Guareschi, in «Candido», 22 febbraio 1953).
 
• «Caro Cecchi, non avevo mai patito e sudato tanto, per un Incontro, come per il Tuo. Accidenti alle persone serie e che non offrono appigli alla caricatura! Ma l’aver sudato e patito non deve indurti a far complimenti; e, se questo scampolino di prosa non Ti piace, non stare neanche a rimandarmelo: straccialo pure, e Ti giuro che ne ho fatto una copia sola. Ci troverai parole che non hai pronunziato, ma che il mio fiutaccio, nel quale incondizionatamente fido, mi dice che avresti potuto pronunziare e che ad ogni modo non Ti compromettono di certo. Lo fo spesso, anzi lo fo sempre, perché ho della verità un concetto aristotelico, e preferisco scrivere un ritratto vero con aneddoti falsi che un ritratto falso con aneddoti veri: il che, come sai, può benissimo capitare. Insomma, sarò contento se mi promuovi; ma non mi avrò punto a male, se mi bocci» (A Emilio Cecchi, Roma, 10 dicembre 1952).
 
• «Caro Curzio, una signora mia amica che ascolta la radio mi ha riferito che l’altra sera, intervistato a proposito di una statua che avevi ordinata e che ora non vuoi più comprare, hai esclamato: «Ma questa somiglia a Indro Montanelli». Non so di che statua si tratti. Ma credo sia quella in legno di Dazzi che, m’han detto, ti raffigura nudo, con un cane che ti sale su per il corpo fino a coprirti le vergogne, e con una chiappa scollata per via del caldo. Ora a me l’idea che uno scultore, partito con l’idea di raffigurare il tuo nudo, abbia finito per modellarne uno simile al mio, non mi dispiace, e ci sto. Accetto, guarda, anche il cane. Ma la chiappa scollata, perdio, te la tieni tu, perché io non la voglio. Le mie chiappe, caro signore, sono accollatissime: tanto accollate da escludere qualunque «insinuazione». Perentoriamente quindi t’invito a fare il chiaro su questa losca faccenda, perché non è mai successo nella storia che le chiappe d’un fucecchiese fossero in balia d’un maledetto pratese come te. Tuo, Madonna bona» (A Curzio Malaparte, marzo 1954).

• Montanelli è in vacanza in montagna e scrive al direttore amministrativo del Corriere Giuseppe Colli: «Qui si pone un problema amministrativo di una certa delicatezza e gravità, che solo Lei, o meglio ancora la Sua coscienza, può risolvere. [..] Da quando cioè mi sono visto piombare quassù il Gran Mago [il direttore del Corriere Mario Missiroli] che, con le sue abitudini di pipistrello, si rifiuta di andare a letto la sera alle undici come tutti gli altri cristiani e, non trovando nessuno disposto ad ascoltare le sue elucubrazioni sul liberalismo, sul Risorgimento, su Hegel e sulla «apertura a sinistra», se la rifà su di me, obbligandomi a lavori forzati notturni. Come la mettiamo, caro Colli, questa faccenda? [...] E non mi contraddica perché Lei sa benissimo che non esagero. Ogni sera guardo con invidia rientrare dalle loro avventure sulla roccia gli scalatori, infinitamente meno stanchi di me che, mentre essi conquistavano salubremente le crode, ho dovuto arrampicarmi, dietro al Gran Mago, sulle vette molto più ardue dell’Idealismo, dello Spiritualismo, del Calvinismo e di non so quali altre diavolerie. Devo farlo gratis?» (A Giuseppe Colli, Cortina d’Ampezzo, 21 agosto 1955).
 
• Montanelli su Leo Longanesi: «Mai visto un rabdomante di talenti come lui».
 
• Durante la sua permanenza a New York scrive a Edmund Stevens: «Sono rimasto parecchio tempo in ammirazione di fronte a questa scala, con grande stupore di Giorgio, che oramai ci è abituato. Egli mi ha detto ch’essa serve a mettere in salvo la gente nei casi, che qui si verificano spesso, d’incendio. E ci credo. Ma, caro Edmund, essa serve anche a un’altra cosa: a dimostrare che voialtri americani avete raccontato, col vostro cinematografo e con la vostra letteratura, una grossa bugia: quella della malavita. Quale malavita ci può essere in un paese dove le case hanno le scale esterne, sulle quali, di notte, qualunque ladro può salire e penetrare dentro gli appartamenti con tutta facilità e disinvoltura? […] La sera che arrivai, prima di coricarmi, andai a chiudere la finestra della camera, che dava proprio su un pianerottolo di quella scala. Ma, guardando fuori, vidi che in tutti gli altri appartamenti invece le tenevano aperte. Ora la tengo aperta anch’io. E, appena sono in letto, mi metto a ripensare, un po’ con umorismo, ma un po’ anche con rabbia, a tutti i film americani che ho visto, pieni di ladri abilissimi e di rapinatori spietati che, per penetrare nelle case altrui, fanno ricorso a complicatissime strategie [...] Qui, dove in una casa altrui, attraverso le scale esterne e le finestre aperte, riuscirei a entrare anch’io che, in vita mia, ho rubato soltanto i barattoli di marmellata nella dispensa di mia nonna, la quale mi ci sorprendeva ogni volta. (A Edmund Stevens, s.d., [1953-1954?]).
 
• «Gl’italiani, a proibir loro il Peccato, cadono nel Vizio».
 
• «Sul piano morale, la Liberazione ha sostituito una classe dirigente di piccoli viziosi a una di grandi peccatori. Non ci abbiamo guadagnato». 

• Cariche rifiutate da Montanelli in carriera: Direzione del Corriere della Sera, candidatura alla Camera e al Senato, Senatore a vita, Cavaliere del Lavoro.

• Queste le ragioni del rifiuto della direzione del Corriere: «Sono un disordinato assolutamente refrattario al lavoro di team e animato da uno spirito d’indipendenza che spesso sconfina nella riottosità: non conosco remore di cautela e di diplomazia; non credo che riuscirei a imporre la disciplina per il semplice motivo che non l’ho mai rispettata io stesso; detesto la routine, non sono disposto a rinunziare alla mia spregiudicatezza, come invece dovrei se la responsabilità della mia firma coinvolgesse quella del «Corriere», e infine penso di godere già presso i lettori – il cui giudizio è l’unico che mi stia a cuore – di una considerazione cui i galloni direttoriali non potrebbero nulla aggiungere. Non è quindi per disinteresse e umiltà, ma per orgoglio e tornaconto, che non ambisco a cucirmeli sulla manica» (A Mario e Giulia Maria Crespi, Milano, 23 dicembre 1967).

• Nel ’72, poco prima che Buzzati morisse, l’amico Indro gli parlò del nuovo giornale che aveva in mente: «Sorrideva, quando gli ultimi giorni gli portavo in clinica le notizie più confortanti (e false): che avevamo trovato il finanziamento, ch’eravamo in trattative con la tipografia, che il tale veniva con noi, e il talaltro, e il talaltro. Ma chissà di che sorrideva: nel suo sorriso l’angelico e il diabolico si confondevano spesso, e del tutto naturalmente». (A Dino Buzzati, Roma, 14 maggio [?]).
 
• Pare che gli elogi funebri scritti da Montanelli portassero fortuna ai destinatari: «Quando, una settimana fa, Spadolini mi commissionò il tuo elogio funebre, mi accinsi a scriverlo con vero entusiasmo. Era infatti avvenuto che l’anno scorso la stessa ordinazione mi era stata fatta per Ansaldo, che i bollettini medici davano per spacciato e che, appena ebbi consegnato l’articolo, migliorò di colpo. Passano alcuni mesi, e Spadolini mi chiede un profilo di Salazar, che risultava in fin di vita. Lo scrivo, lo mando, e il giorno dopo leggo che Salazar, anche se inceppato, è fuori pericolo. Passano altri mesi, e Spadolini mi affida la biografia di Umberto, agonizzante. Raccolgo in furia i dati, ci mescolo i ricordi, butto giù un fascicolo di roba, e Umberto parte per Cascais, perfettamente ristabilito. Ecco perché ho scritto il tuo elogio funebre con tanto entusiasmo. Sentivo che a ogni rigo ti allungavo la vita di un anno. E siccome sono cinque cartelle fitte fitte, ne hai abbastanza per seppellire non solo me, ma anche Spadolini che ha appena messo i denti del giudizio. Rileggendole, ti confesso che mi dispiace un po’ di non poterle pubblicare. E forse dispiacerà anche a te, quando le leggerai» (A Giuseppe Prezzolini, s.d. [1969]).
 
• «Voglio però ricordare, a Giorgio e a te, un piccolo «precedente». Parecchi anni fa io venni alla Mondadori a offrire la mia collana storica, allora agl’inizi. Il Presidente mi accolse con urli di gioia, poi mi consegnò a degli uffici amministrativi, i quali cominciarono a sollevare incagli e a escogitare marchingegni così capziosi che due giorni dopo firmai da Rizzoli. Da allora, ogni volta che c’incontravamo, il povero Arnoldo mi diceva: “Mi mangio le mani”. E credo che avesse buoni motivi di farlo. State attenti: potrebbe succedervi ancora» (A Mario Formenton, Roma, 15 novembre 1973).
 
• Fin dal primo numero del Giornale, Montanelli apre il suo filo diretto con i lettori. Uno di questi, nel ’76, gli segnala un episodio sintomatico. «La maestra ha chiesto di portare in classe un giornale per leggere insieme gli articoli... Mio figlio ha portato “il Giornale” che leggiamo a casa. La maestra si è rifiutata di leggerlo dicendo che è “fascista”».
 
• «Ma a proposito di peso, caro Giovanni, devo darti un dispiacere. Sia tu che Craxi, diventati adepti della moda dell’uomo scattante e in forma, vi siete sottoposti a infernali diete alimentari e, ma qui non ti ci vedo, a estenuanti esercizi fisici. Ebbene, Craxi ce l’ha fatta, è dimagrito. Tu non sei riuscito a modificarti la stazza. Hai sostenuto che ciò non è vero perché, in base a dati in tuo possesso, Craxi sarebbe smagrito di 18 chili mentre tu ne hai persi ben 22. E pertanto, nella battaglia della ciccia, saresti il vincitore. Non metto in discussione il tuo tonnellaggio né i chili di lonze e trippe che Craxi è riuscito a scrollarsi di dosso. Ma i 18 chili che Bettino ha perduto, si vedono tutti. I tuoi 22, no. Anzi, mi par quasi che tu sia leggermente ingrassato. Cosa vuoi che ti dica: se agli altri il successo dà alla testa, a te dà alla pancia. Rassegnati» (A Giovanni Spadolini, Milano, [dicembre?] 1985).

• «Cosa sarebbe la mia vita senza «il Giornale»? Una lunga giornata piena di sbadigli e di malinconie. Col «Giornale», è un seguito di arrabbiature e di delusioni, ma il buio arriva con la sensazione di avere fatto il pieno: il pieno di errori e di sciocchezze, se vuoi, ma il pieno» (A Giuseppe Prezzolini, Milano, 4 giugno 1981). 
 
• Montanelli ha insegnato filologia italiana («materia che non so») all’Università di Tartu in Estonia.
 
• «Una moglie comunista, prima è comunista, e poi (molto poi) è moglie» (Ad un lettore del Giornale).
 
• «Scalfari ed io abbiamo questo in comune: che non sappiamo mai bene se siamo più amici quando facciamo gli amici o quando facciamo i nemici».
 
• «Caro Manlio, cominciamo con le cose più serie. La Fiorentina ha pareggiato a Udine, e questo non va bene. Io non l’ho ancora vista coi miei occhi. Vorrei farlo domenica 19 quando incontrerà l’Inter a Firenze. Ma ho paura di tornare scornato» (Incipit di una lettera a Cancogni, Milano, 7 ottobre 1980).
 
• «Ora tu rimani per me il più grande scrittore contemporaneo. Come uomo e come amico, devo dirti che sei stato una delusione totale e che sento di non avere meritato. Ti auguro, caro Anthony, tutta la fortuna che non meriti» (Ad Anthony Burgess, Milano, marzo 1981).

• «La direzione di un giornale non la si ottiene né la si esercita per investitura. La si guadagna sul campo. Io so benissimo di non essere un gran direttore. Ma credo che nessun direttore abbia servito il proprio giornale con la dedizione e la passione e l’umiltà con cui lo servo io, e senza mai servirmene per qualche utile o vantaggio personale. Non è stato un sacrificio. Tutto questo ha avuto il suo compenso» (A Enzo Bettiza, Milano, 25 febbraio 1983, che chiese a Montanelli l’investitura a suo successore come direttore al Giornale).

• «Caro Silvio, ti ho sognato. Ma era un incubo. Mi vedevo chiuso dentro una macchina blindata da cui non potevo più uscire, e tu da fuori mi facevi le boccacce. Stavolta non mi sono limitato a pensare: ti ho anche parlato. Ma la decenza mi vieta di riprodurre le mie parole» (A Silvio Berlusconi, Milano, 16 maggio 1983).
 
• «Caro Silvio, nell’arte dell’imprenditoria, della fantasia, dell’immaginazione, dell’audacia, dello spettacolo, di tutto, tu sei un genio e io un coglione. Nell’arte della polemica, il genio sono io e tu il coglione» (A Silvio Berlusconi, Milano, 16 maggio 1983).
 
• «Considero il tuo ingresso nella vita politica una iattura soprattutto per te; e siccome non sono un servo sciocco come quelli di cui ti sei servito in televisione per denigrarmi ho creduto che fosse mio dovere dirtelo, e lo credo ancora» (A Silvio Berlusconi, Milano, gennaio 1994).

• Ma alla Stanza dei suoi ultimi anni era legato in modo particolare. «Se qualcuno mi chiedesse: «Cosa vorresti che, dopo di te, di te rimanesse?», risponderei senza esitare: «Questi colloqui». 
 
• «Quelli che girano nelle mie tasche mi sono abbastanza indifferenti. Quest’atteggiamento, lo so bene, non è una prova di saggezza: è un lusso. Per essere superiori al denaro, infatti, bisogna averne. E io ne ho quanto basta; anzi, di più» (A Eleonora Bassi, in «Corriere della Sera», 4 settembre 1999).
 
• «Mi reputo fortunato di non aver avuto figli (parlo, s’intende, di quelli legittimi; di altri non so), perché sono convinto che non sarei stato un buon padre. Non lo sarei stato anzitutto a causa del mio mestiere, che alla vita di famiglia si presta poco, e del mio modo di concepirlo e di praticarlo. Io sono uno di quei giornalisti, per i quali il giornalismo è una passione esclusiva e divorante che non lascia posto ad altri impegni. Tutte le mie vicende sentimentali – e non me ne sono mancate – sono sempre state condizionate da questa mia vocazione alla vita randagia, e quando non riuscivano ad accordarvisi duravano poco, anche se molto spesso la loro prematura fine mi faceva soffrire. Questo però appartiene alla mia autobiografia che non scriverò mai, e quindi non può insegnare nulla a nessuno. Ciò che invece può riguardare qualcuno, se non tutti, è il problema della educazione che avrei cercato di dare a mio figlio se avessi trovato il tempo di dargliene una. Certamente avrei cercato d’infondergli il rispetto dei valori, nei quali io stesso sono stato allevato, e mi sono fatto uomo. E in tal caso, delle due, l’una. O ci sarei riuscito (ma ne dubito), e in tal caso avrei fatto di lui uno spostato perché i valori nei quali sono stato allevato io, e sui quali poggiano tutte le mie regole morali (belle o brutte, e buone o cattive che siano) sono ormai fuori corso e costituiscono, per chi le segue, soltanto un impaccio. O non ci sarei riuscito, e in tal caso di mio figlio avrei fatto, nella migliore delle ipotesi, un estraneo; nella peggiore, un nemico» (A Eligio Di Fani, in «Corriere della Sera» , 23 gennaio 2000).
 
• «Anch’io, eutanasista convinto, sono altrettanto convinto che la volontà dell’infermo non basta. Lo dico per esperienza personale. Avendo sofferto di crisi depressive – che sono di vario tipo, ma un tratto lo hanno tutte in comune: la disperazione, cioè la perdita di ogni speranza – sono stato varie volte sfiorato, e più che sfiorato, dalla tentazione del suicidio. In questo caso è giusto che i medici curanti ne neghino i mezzi» (A Lorenzo Gori, in «Corriere della Sera», 15 maggio 2000).

• «Lascerò scritto (e anche di questo mi pare di avere il diritto) che voglio essere cremato immediatamente per prevenire qualsiasi uzzolo di autopsia. O mi si vorrà negare anche la disponibilità del mio cadavere?» (A Lorenzo Gori, in «Corriere della Sera», 15 maggio 2000).
 
• «Io forse sarò ricordato, quando avrò preso congedo da questo mondo, da qualcuno dei miei lettori, non certamente dai loro figli. So di avere scritto sull’acqua. Ma ciò non mi ha impedito di continuare a scrivere, impegnandomi tutto in quello che scrivo. E se lei trova o cerca qualcosa da invidiarmi, è solo questo che può trovare: la gioia di scrivere sempre le cose in cui, nel momento in cui le scrivo, credo, anche se non ne rimarrà nulla, come sicuramente avverrà. Ecco l’unica gioia che ci è consentita, come promesso dall’unica scuola di pensiero di cui valga la pena seguire i precetti: lo stoicismo» (Ad Antonio Balistreri, in «Corriere della Sera», 24 giugno 2001).

• «La porta di questa Stanza rimarrà aperta fino al giorno, anzi fino al minuto in cui avrò la forza fisica e intellettuale di accogliervi il lettore e di rispondergli. Il giorno in cui non potrò più farlo, vorrà dire non che sto per morire, ma che sono già morto, nel senso che desidero esserlo». L’ultima Stanza appare sul «Corriere della Sera» il 4 luglio 2001, neanche venti giorni prima della sua morte.
(a cura di Daniele Assorati)