12 novembre 2013
Tags : Nicolò Amato
Biografia di Nicolò Amato
• Messina 20 gennaio 1933. Ex magistrato. Avvocato. Fu a capo del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) al tempo degli attentati a Falcone e Borsellino (1992), poi divenne l’avvocato di Vito Ciancimino, sospetti da lui sempre respinti che abbia partecipato alla trattativa fra Stato e mafia per la revoca del 41 bis.
• «Massimo Ciancimino (...) figlio dell’ex sindaco mafioso (...) il teste principale di questa inchiesta, ha consegnato un ricordo ben preciso al pm Nino Di Matteo: “(...) Amato diventò l’avvocato di mio padre. Il suo nome fu suggerito e imposto da uomini delle istituzioni (...) All’epoca, la cosa ci sembrò molto strana in famiglia, mio padre aveva fior di avvocati. Lui disse: ‘Bisogna fare così’ (...) Ricordo che andavo spesso nello studio dell’avvocato Amato, per consegnare o prendere delle buste chiuse”. L’appunto di Nicolò Amato al ministro della Giustizia Conso, che il 6 marzo ’93 ufficializzava una decisa contrarietà al 41 bis, è (...) al centro delle attenzioni anche della Procura di Caltanissetta, che indaga sulle stragi Falcone e Borsellino. (...) Amato precisa: “Della trattativa tra Stato e mafia non so nulla. Il fatto che l’allora ministro Conso non rinnovò 140 decreti di 41 bis nel novembre ’93 l’ho appreso solo in questi giorni. Io me ne andai a giugno dal Dap”. Amato nega di avere avuto “suggeritori”, nega soprattutto di essersi consultato con l’allora ministro dell’Interno Mancino. L’ex direttore del Dap rivendica piuttosto di aver chiesto in quel documento “una serie di misure, come la registrazione dei colloqui tra i detenuti mafiosi – spiega – se fossero state attuate per tempo avrebbero evitato altre stragi”. Amato conclude: “Il 41 bis l’ho introdotto io, d’accordo con Claudio Martelli, nell’estate 1992”. Ma queste ultime parole non sono piaciute affatto all’ex ministro della Giustizia: “Non è vero che elaborammo insieme il 41 bis – taglia corto Martelli – non avanzo alcun sospetto, ma una cosa la voglio contestare: di aver elaborato il decreto Falcone con Amato (...) Lui era contrario al 41 bis, tant’è che non firmò il decreto di trasferimento dei boss a Pianosa e all’Asinara. A farlo dovette essere il ministro, cioè io”» (Salvo Palazzolo) [Rep 16/11/2010].
• «“L’emanazione di questi decreti era certamente giustificata dalla necessità di dare alla criminalità mafiosa, anche all’interno delle carceri, dopo le terribili stragi di Capaci e di via D’Amelio, una risposta severa”, scriveva il 6 marzo 1993 l’allora direttore dei penitenziari italiani Nicolò Amato in un appunto destinato al ministro della Giustizia Conso, subentrato da poche settimane a Claudio Martelli. Si riferiva al regime di “carcere duro” introdotto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento, e aggiungeva: “Ma non vi è dubbio che la legge chiaramente configura il ricorso a questi decreti come uno strumento eccezionale e temporaneo, appunto emergenziale”. L’inasprimento della reclusione dei boss, insomma, per il responsabile dell’amministrazione penitenziaria doveva essere a termine: “Il regime che essi esprimono non può essere protratto indefinitamente — scriveva Amato —, assurgendo a normale regime penitenziario. Non si giustifica al di fuori delle eccezionali situazioni che lo motivano”. Erano passati nove mesi dagli eccidi che avevano trucidato Giovanni Falcone e sua moglie, Paolo Borsellino e gli agenti delle rispettive scorte. Amato, già magistrato e futuro avvocato (anche di mafiosi come Madonia, Angelo Siino e l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino), considerato vicino all’area craxiana del Partito socialista, evidentemente valutava che non ci fossero altri imminenti pericoli. “Appare giusto e opportuno — proponeva al ministro — rinunciare ora all’uso di questi decreti, salvo ricorrervi successivamente nella malaugurata, deprecabile ipotesi di un ripresentarsi delle situazioni eccezionali che li giustificano”. Solo a questo punto il direttore delle carceri citava le perplessità che — dice lui — aveva ascoltato un mese prima nella riunione del Comitato nazionale per l’ordine pubblico e la sicurezza, dal capo della polizia Parisi e del ministro dell’Interno Mancino (limitatamente, quest’ultimo, alle prigioni napoletane). Poi tornava alle sue opinioni. C’erano due strade: non confermare i decreti alla scadenza annuale, “ovvero revocarli subito in blocco”. L’opinione di Amato è netta: “Mi permetterei di esprimere una preferenza per la seconda soluzione (cioè l’immediata revoca, ndr), perché rappresenterebbe un segnale forte di uscita da una situazione emergenziale e di ritorno a un regime penitenziario normale”. La proposta può essere letta come un passo indietro dello Stato nella speranza che lo stesso facesse anche l’antistato mafioso. Ma sono possibili anche altre interpretazioni. Dopo aver consegnato queste considerazioni al ministro della Giustizia, nel giugno ’93 Amato fu rimosso dall’incarico. A luglio, scaduti i primi “41 bis”, il governo li rinnovò, e tra il 27 e il 28 luglio scoppiarono le bombe mafiose di Roma e Milano (a maggio c’era stato l’attentato di Firenze). A novembre il ministro Conso non rinnovò altri 140 decreti, e Cosa nostra tornò a tacere. Tutto questo ha a che fare con l’ipotetica trattativa tra lo Stato e i boss su cui s’è tornati a indagare a Firenze, a Palermo e a Caltanissetta? L’ex ministro Giovanni Conso ha (...) detto di no, e anche Nicolò Amato nega qualunque patto: “Non ne sapevo e non ne so niente”, spiega dicendosi “indignato dai sospetti” e rivendicando la sua concezione umanitaria del carcere: “Io sono arrivato nel 1983 e tra le prime cose abolii l’articolo 90”, antesignano del “41 bis” introdotto per i terroristi» (Giovanni Bianconi) [Cds 16/11/2010].
• Nel 2012 ha pubblicato un libro, I giorni del dolore. La notte della ragione. Stragi di mafia e carcere duro (Armando editore), in cui parla, tra l’altro, della sua rimozione dalla direzione del Dap il 4 giugno 1993. «Io proponevo di sostituire l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, quello sul carcere duro appunto, con una legge che rendesse obbligatorio il controllo audio e la registrazione dei colloqui dei detenuti, per impedire sul serio le comunicazioni dei mafiosi con l’esterno. Era l’unica norma efficace, che poi fu introdotta nel 2002, 9 anni dopo la mia proposta. In più suggerivo le videoconferenze per evitare il “turismo giudiziario” dei detenuti che dovevano partecipare ai processi in giro per l’Italia, con tutto ciò che ne conseguiva in termini di sicurezza. Anche questa norma è stata introdotta nel 2001. Si sono adeguati con un po’ di ritardo ai miei consigli» (a Giovanni Bianconi) [Cds14/3/2012].