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 2013  novembre 07 Giovedì calendario

Ancora sul documentario di Banksy a Disneyland

Libero, 16 novembre 2011
L’arte contemporanea nasce con un difetto genetico: per essere dissacrante, ha bisogno di un contesto serio, il museo, in cui far emergere la sua carica eversiva. Se un’opera come la Fontana, meglio nota come l’orinatoio di Duchamp, invece di essere esposta in una galleria d’arte, fosse stata gettata sul ciglio di una strada, nessuno l’avrebbe notata. In questo senso tutta l’arte contemporanea, da Maurizio Cattelan a Anish Kapoor, è arte antica, concepita per essere esposta (e protetta) da uno spazio dedicato, sia esso il museo Guggenheim o una piazza del comune che l’ha commissionata. Caso completamente diverso è quello della Street Art, arte di strada, come si evince guardando il bel film Exit through the Gift Shop (Feltrinelli Real Cinema, dvd + libro 14,9 euro). Presentato nel 2010 al Festival di Berlino e al Sundance Film Festival, è diretto da Banksy, il misterioso artista di strada di Bristol, colui che è riuscito a trasformare i writers, o graffitari, da sociopatici imbrattamuri in rivali dei più quotati artisti contemporanei. Specialmente dopo la sua mostra del 2006, Barely Legal, in un magazzino abbandonato di Los Angeles, affollata dalle consuete, stordite celebrità hollywoodiane, le opere di Banksy e di altri artisti di strada cominciano a essere percepite come l’ultima incarnazione dell’arte occidentale, la più fresca e vitale. Il film è costruito come un mockumentary, un finto documentario. La voce narrante ci presenta tal Thierry Guetta, un francese trapiantato a Los Angeles che, dopo aver perso la madre a undici anni senza averla potuta vedere, sviluppa un’ossessione che lo porta a filmare qualunque cosa, scarichi del bagno compresi. Casualmente, in un viaggio a Parigi, Thierry si imbatte in un cugino che fa il writer, e si fa chiamare Space Invader (come i supereroi, ogni writer ha un suo nome di battaglia). Il nome viene dall’abitudine del cugino di dipingere su mattonelle e poster i «marzianini», mostriciattoli che nell’omonimo, leggendario videogame minacciano di invadere la Terra. Thierry segue Invader nelle sue scorribande notturne, sempre a rischio di essere intercettati non dalla contraerea terrestre, ma da una pattuglia di polizia. Dopo Invader conosce Zeus, un writer che gira con una calza leopardata in testa e disegna sui muri uno sgorbio filiforme con cilindro e stivali. Quindi è il turno dell’artista che ha disegnato la celebre immagine bicromatica di Obama, che ebbe successo determinante nella sua campagna presidenziale. Si chiama Shepard Fairey, un ex appassionato di skateboard convertitosi alla Street Art. Un modo più lucrativo per rimanere sulla strada. Shepard porta con sé Thierry, salgono sui tetti per appiccicare enormi rielaborazioni grafiche del volto di un famoso wrestler del passato, André The Giant, sotto le quali spicca la scritta minacciosa «Obey», obbedisci. Ma l’ossessione di Thierry è ovviamente Banksy, il più celebre dei writers, il provocatore che nel 2005 ha osato disegnare sul muro tra Israele e la Striscia di Gaza squarci con paesaggi tropicali, un salotto con finestra su scorcio alpino, una traccia da ritagliare con le forbici. Il documentario prende qui un tono celebrativo, anche se sarà facile per Banksy dire che è un’autoironica presa in giro dei meccanismi di marketing dell’arte. In effetti, dopo aver ricordato altre prodezze del fantomatico graffitaro, come la volta in cui si introdusse nella Tate Britain di Londra e appese alcune sue creazioni, come la fanciulla in stile raffaellita con maschera antigas, tra le venerabili tele della collezione permanente, un coro angelico annuncia finalmente l’incontro tra Thierry e Banksy. Il videoamatore ha persino l’onore di essere introdotto nel segretissimo studio dell’artista, dove gli vengono mostrati pacchi di banconote da dieci sterline con l’effigie di Lady Diana, usate in una performance in cui venivano gettate da un viadotto sulla folla. A detta di Banksy, sembra che qualcuno sia riuscito anche a comprarci un paio di birre. Ma il capolavoro del duo è il viaggio a Disneyland. Secondo il documentario, siamo ai tempi in cui uscivano le foto dei prigionieri del carcere di Guantanamo. Banksy, col suo zainetto, varca i cancelli di Disneyland seguito dal fido Thierry. Lo zainetto contiene un manichino gonfiabile che raffigura un detenuto di Guantanamo, con la tuta arancione e il cappuccio nero in testa. Dopo aver gonfiato il manichino, scavalca un recinto, si avventura tra i cactus, e lo piazza accanto al percorso delle montagne russe di Indiana Jones. Thierry filma tutto e scatta foto. Il trenino delle montagne russe passa una, due volte, a pochi metri dal bambolotto di Guantanamo. Impossibile non vederlo. E infatti, dopo pochi minuti, il treno viene fermato, tutte le montagne russe di Disneyland vengono bloccate. Con la paranoia del terrorismo islamico, è allarme nel parco di Topolino. Il racconto di Thierry al narratore che lo intervista, della sua cattura da parte della «security di Mickey Mouse» e dell’interrogatorio in stile FBI è, con ogni probabilità, una burla nella burla. E per quanto si possa avere simpatia per la Street Art, per un’arte che recupera umiltà e manualità, che non è fatta solo di idee cretine o video elaborati al computer e poi mostrati in un museo nuovo di zecca di qualche archistar con temperatura ambiente da obitorio di provincia, resta il vizio di fondo dell’arte contemporanea. Di non durare, di non essere fatta per competere con i grandi, né per essere realmente ammirata. Di non terrorizzare noi, ma Disneyland.
Giordano Tedoldi