Il Venerdì di Repubblica, 7 novembre 2013
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Banksy, la street-art e un documentario a Disneyland
Il Venerdì di Repubblica, 12 novembre 2010
"L’arte richiede tanto ego ed egoismo da essere diventata una carriera per stronzi". "Sarebbe una vergogna se l’arte di strada finisse catturata nelle vetrine di un museo". "La street-art non è come altri movimenti artistici. Non riceve sovvenzioni, né è sponsorizzata". "Non credo che l’arte sia qualcosa di speciale, è solo una parte dell’industria dell’intrattenimento". "Ciò che si considerava trasgressivo, oggi viene controllato con la lente di ingrandimento dagli agenti del mercato".
Questo è Banksy. L’artista urbano più famoso di tutti i tempi. Nessuno sa chi sia, dove abiti né come lavori. Nemmeno se sia una persona o un collettivo. Da quando è diventato famoso, negli anni Novanta, il suo lavoro e quello di altri graffitari ha cercato di recuperare lo spazio della strada. Le sue creazioni sono arrivate nei musei e hanno risvegliato gli appetiti dei collezionisti.
Per Carlo McCormick, autore dell’eccellente libro Trespass (Taschen, 2010), l’uso dei graffiti era significativo del rapporto degli artisti con il selciato, con i muri, con il metallo che li circondava. Per McCormick, l’arte urbana ha a che fare con la conquista dello spazio della strada, con il bisogno di impadronirsi di un contesto che ci è stato rubato dalla pubblicità, dalle grandi marche e dall’arredo urbano. Le strade se le sono prese le multinazionali che trasmettono i loro messaggi regolarmente e usando degli automatismi. Il graffitaro rompe quel circolo vizioso usando mezzi semplici come uno spray e reclama l’appartenenza di quell’universo di cemento a una collettività diversa, a cui non importa un piffero dei messaggi lanciati dal grande fratello.
Ma quello che un giorno fu un sottosuolo ermetico e irriconoscibile, frequentato solo da quelli che lo praticavano e non adatto ai curiosi, è ora carne da collezione, e molti di quelli che furono dei pionieri nell’arte di appropriarsi di pareti, strade e vicoli combattono ora una battaglia assolutamente diversa sui muri dei musei.
"La street-art non è come altri movimenti artistici, non riceve sovvenzioni, né è sponsorizzata dai ricchi. Per questo sarebbe una vergogna se finisse come qualsiasi altra arte: catturata nelle vetrine di un museo o sui muri delle case di quelli che non avranno mai problemi di soldi". Chi si esprime così non è uno qualunque, ma Banksy in persona, che dopo mesi di insistenze ha risposto per e-mail ad alcune domande. "Troppa arte è esclusiva e deliberatamente difficile da capire, che sia espressionismo astratto o graffiti illeggibili in stile selvaggio" riflette l’artista.
Banksy è diventato famoso per i suoi stencils, che cominciarono ad apparire come mosche all’inizio degli anni Novanta. La storia dice che l’artista si unì ad alcuni colleghi nella Londra della fine degli anni Ottanta per bombardare la città dalle sue viscere, riempiendo la metropolitana di graffiti che rivendicavano un mondo diverso, meno limitato... o almeno, questa era l’idea. Banksy scelse presto per l’ala più politica dell’arte urbana, un’arte in costante interazione con la società, con cui cerca di stabilire un dialogo. Di fatto, le sue azioni più selvagge sono state le incursioni alla Tate Modern di Londra, dove appese i suoi quadri nelle esposizioni lasciando sconcertati i visitatori, o la sua ben pubblicizzata incursione a Disneyland, dove sistemò un pupazzo vestito come un detenuto di Guantanamo in uno dei punti più frequentati dai visitatori.
Nel 2005, si cimentò con uno degli ultimi simboli dell’imbarbarimento della situazione a Gaza e in Cisgiordania: il famoso muro della vergogna, la gigantesca struttura che circonda i palestinesi con pareti alte fino a otto metri.
"Non so" dice oggi "se sia possibile essere un "artista politico", l’arte richiede un tale ego, un tale egoismo da diventare una carriera che, alla fine, attira veramente solo gli stronzi. Forse sono più politico di altri artisti, ma questo non significa nulla, in realtà" sottolinea il graffitaro.
Le riflessioni di Banksy sull’arte lo hanno fatto diventare un personaggio scomodo, ricco ma scomodo. La cosa strana è che la sua invisibilità - nessuno sa se la sua biografia sia inventata, se sia davvero nato a Bristol, se esista davvero come individuo - ha ingigantito la sua reputazione.
Alla sua prima esposizione a Los Angeles, per esempio, ci fu una concentrazione mai vista di personaggi famosi per un evento del genere in un quartiere del ceto medio della città californiana: Brad Pitt, Angelina Jolie, Jude Law o Robert Downey Jr. si presentarono con il libretto degli assegni pronto e Banksy espose un elefante completamente dipinto (vero, ovviamente). Ora, sembra non ci sia artista di strada di prestigio che non desideri apparire sulle pareti di un museo o di una galleria (Kaws, Futura, Stash, Ron English, Jeremy Fish, Shepard Fairey - il suo mitico Obey, dopo il famoso Hope con il volto di Barack Obama, è una leggenda nel genere - Space Invader, Dave White o Os Gemeos, la lista è infinita), e non sono pochi ad affermare che così l’arte urbana è totalmente distorta, che questa decontestualizzazione è tossica, che ciò che è urbano non può essere fagocitato dai media senza perdere la sua ragion d’essere.
Di tutto questo e di altro parla l’ultimo progetto di Banksy, che ha suscitato non poche controversie da una parte all’altra dell’Atlantico. Si tratta di Exit through the gift shop, un documentario (anche se, come vedremo, anche nella definizione dell’opera si cela una controversia) che riflette con flemma e tonnellate di veleno sul mercato dell’arte in generale e di quella urbana in particolare. Exit through the gift shop non racconta assolutamente niente di Banksy, non è un film autobiografico, né ha minimamente intenzione di rivelare qualche particolare sull’artista di Bristol. È invece una riflessione, crudele come la vita stessa, sulla volatilità del mercato dell’arte e su come questo possa essere manipolato a volontà se si conoscono i tasti giusti.
Il documentario racconta la storia di Thierry Guetta, una specie di maniaco francese che registra tutto ciò che fa (per pura necessità, senza nessuna finalità artistica) finché non entra in contatto con l’arte urbana tramite suo cugino, il celebre Space Invader. Questo lo porta di genio in genio fino a Banksy, che gli suggerisce di prendere un’altra strada e di diventare artista, forse per toglierselo di torno, forse per fare da dottor Frankenstein.
Exit throught the gift shop (un riferimento molto poco velato a questa tattica dei musei di fare uscire i visitatori dal proprio negozio di articoli da regalo) respira con un ritmo strano. Sembra che sia tutto reale, ma al tempo stesso è impossibile non sentire che lo spettatore viene manipolato e non ricordare la frase di Truman Capote: "La differenza tra la realtà e la finzione è che la finzione deve essere coerente".
Di fatto, circolano su internet molti scritti secondo i quali il personaggio di Guetta è in realtà un’invenzione dello stesso Banksy, un’immensa presa in giro che serve all’artista britannico per smontare il mondo dell’arte e mostrarne le vergogne. Naturalmente, lui nega tutto, chi può impedirglielo?
"Il film è vero al cento per cento e non c’è nessuna marionetta. Per fortuna c’era una macchina da presa quando tutto questo è successo, perché ho pensato: "Sarebbe stato impossibile inventarsi una cosa simile". Eppure è quello che la gente pensa che io abbia fatto" replica Banksy.
Comunque sia, la situazione della street-art ai nostri giorni è poco diversa da quanto si vive in altre manifestazioni artistiche: la tentazione è troppo forte. Ciò che in altri tempi si considerava trasgressivo ora viene osservato con la lente di ingrandimento dai grandi agenti del mercato. Tutte le agenzie pubblicitarie del mondo sanno che lavorare con un artista di strada significa ottenere notorietà e prestigio, e ai volontari (ben pagati, sia chiaro) non manca il lavoro.
Per quelli che vivono estranei a ricompense e lealtà fittizie, la storia è totalmente diversa: alcuni hanno cominciato a mostrare la loro rabbia accusando Banksy e compagnia di essere dei venduti e rivendicando un ritorno alle origini, al lavoro di una volta. L’artista di Bristol risponde a modo suo: "Sai, fare graffiti è un’attività molto pericolosa, lavori di notte, circondato da ubriachi, da guardie... con il pensiero costante di non sapere che starà facendo la tua ragazza in quel momento... è pericoloso, molto pericoloso".
"L’arte richiede tanto ego ed egoismo da essere diventata una carriera per stronzi". "Sarebbe una vergogna se l’arte di strada finisse catturata nelle vetrine di un museo". "La street-art non è come altri movimenti artistici. Non riceve sovvenzioni, né è sponsorizzata". "Non credo che l’arte sia qualcosa di speciale, è solo una parte dell’industria dell’intrattenimento". "Ciò che si considerava trasgressivo, oggi viene controllato con la lente di ingrandimento dagli agenti del mercato".
Questo è Banksy. L’artista urbano più famoso di tutti i tempi. Nessuno sa chi sia, dove abiti né come lavori. Nemmeno se sia una persona o un collettivo. Da quando è diventato famoso, negli anni Novanta, il suo lavoro e quello di altri graffitari ha cercato di recuperare lo spazio della strada. Le sue creazioni sono arrivate nei musei e hanno risvegliato gli appetiti dei collezionisti.
Per Carlo McCormick, autore dell’eccellente libro Trespass (Taschen, 2010), l’uso dei graffiti era significativo del rapporto degli artisti con il selciato, con i muri, con il metallo che li circondava. Per McCormick, l’arte urbana ha a che fare con la conquista dello spazio della strada, con il bisogno di impadronirsi di un contesto che ci è stato rubato dalla pubblicità, dalle grandi marche e dall’arredo urbano. Le strade se le sono prese le multinazionali che trasmettono i loro messaggi regolarmente e usando degli automatismi. Il graffitaro rompe quel circolo vizioso usando mezzi semplici come uno spray e reclama l’appartenenza di quell’universo di cemento a una collettività diversa, a cui non importa un piffero dei messaggi lanciati dal grande fratello.
Ma quello che un giorno fu un sottosuolo ermetico e irriconoscibile, frequentato solo da quelli che lo praticavano e non adatto ai curiosi, è ora carne da collezione, e molti di quelli che furono dei pionieri nell’arte di appropriarsi di pareti, strade e vicoli combattono ora una battaglia assolutamente diversa sui muri dei musei.
"La street-art non è come altri movimenti artistici, non riceve sovvenzioni, né è sponsorizzata dai ricchi. Per questo sarebbe una vergogna se finisse come qualsiasi altra arte: catturata nelle vetrine di un museo o sui muri delle case di quelli che non avranno mai problemi di soldi". Chi si esprime così non è uno qualunque, ma Banksy in persona, che dopo mesi di insistenze ha risposto per e-mail ad alcune domande. "Troppa arte è esclusiva e deliberatamente difficile da capire, che sia espressionismo astratto o graffiti illeggibili in stile selvaggio" riflette l’artista.
Banksy è diventato famoso per i suoi stencils, che cominciarono ad apparire come mosche all’inizio degli anni Novanta. La storia dice che l’artista si unì ad alcuni colleghi nella Londra della fine degli anni Ottanta per bombardare la città dalle sue viscere, riempiendo la metropolitana di graffiti che rivendicavano un mondo diverso, meno limitato... o almeno, questa era l’idea. Banksy scelse presto per l’ala più politica dell’arte urbana, un’arte in costante interazione con la società, con cui cerca di stabilire un dialogo. Di fatto, le sue azioni più selvagge sono state le incursioni alla Tate Modern di Londra, dove appese i suoi quadri nelle esposizioni lasciando sconcertati i visitatori, o la sua ben pubblicizzata incursione a Disneyland, dove sistemò un pupazzo vestito come un detenuto di Guantanamo in uno dei punti più frequentati dai visitatori.
Nel 2005, si cimentò con uno degli ultimi simboli dell’imbarbarimento della situazione a Gaza e in Cisgiordania: il famoso muro della vergogna, la gigantesca struttura che circonda i palestinesi con pareti alte fino a otto metri.
"Non so" dice oggi "se sia possibile essere un "artista politico", l’arte richiede un tale ego, un tale egoismo da diventare una carriera che, alla fine, attira veramente solo gli stronzi. Forse sono più politico di altri artisti, ma questo non significa nulla, in realtà" sottolinea il graffitaro.
Le riflessioni di Banksy sull’arte lo hanno fatto diventare un personaggio scomodo, ricco ma scomodo. La cosa strana è che la sua invisibilità - nessuno sa se la sua biografia sia inventata, se sia davvero nato a Bristol, se esista davvero come individuo - ha ingigantito la sua reputazione.
Alla sua prima esposizione a Los Angeles, per esempio, ci fu una concentrazione mai vista di personaggi famosi per un evento del genere in un quartiere del ceto medio della città californiana: Brad Pitt, Angelina Jolie, Jude Law o Robert Downey Jr. si presentarono con il libretto degli assegni pronto e Banksy espose un elefante completamente dipinto (vero, ovviamente). Ora, sembra non ci sia artista di strada di prestigio che non desideri apparire sulle pareti di un museo o di una galleria (Kaws, Futura, Stash, Ron English, Jeremy Fish, Shepard Fairey - il suo mitico Obey, dopo il famoso Hope con il volto di Barack Obama, è una leggenda nel genere - Space Invader, Dave White o Os Gemeos, la lista è infinita), e non sono pochi ad affermare che così l’arte urbana è totalmente distorta, che questa decontestualizzazione è tossica, che ciò che è urbano non può essere fagocitato dai media senza perdere la sua ragion d’essere.
Di tutto questo e di altro parla l’ultimo progetto di Banksy, che ha suscitato non poche controversie da una parte all’altra dell’Atlantico. Si tratta di Exit through the gift shop, un documentario (anche se, come vedremo, anche nella definizione dell’opera si cela una controversia) che riflette con flemma e tonnellate di veleno sul mercato dell’arte in generale e di quella urbana in particolare. Exit through the gift shop non racconta assolutamente niente di Banksy, non è un film autobiografico, né ha minimamente intenzione di rivelare qualche particolare sull’artista di Bristol. È invece una riflessione, crudele come la vita stessa, sulla volatilità del mercato dell’arte e su come questo possa essere manipolato a volontà se si conoscono i tasti giusti.
Il documentario racconta la storia di Thierry Guetta, una specie di maniaco francese che registra tutto ciò che fa (per pura necessità, senza nessuna finalità artistica) finché non entra in contatto con l’arte urbana tramite suo cugino, il celebre Space Invader. Questo lo porta di genio in genio fino a Banksy, che gli suggerisce di prendere un’altra strada e di diventare artista, forse per toglierselo di torno, forse per fare da dottor Frankenstein.
Exit throught the gift shop (un riferimento molto poco velato a questa tattica dei musei di fare uscire i visitatori dal proprio negozio di articoli da regalo) respira con un ritmo strano. Sembra che sia tutto reale, ma al tempo stesso è impossibile non sentire che lo spettatore viene manipolato e non ricordare la frase di Truman Capote: "La differenza tra la realtà e la finzione è che la finzione deve essere coerente".
Di fatto, circolano su internet molti scritti secondo i quali il personaggio di Guetta è in realtà un’invenzione dello stesso Banksy, un’immensa presa in giro che serve all’artista britannico per smontare il mondo dell’arte e mostrarne le vergogne. Naturalmente, lui nega tutto, chi può impedirglielo?
"Il film è vero al cento per cento e non c’è nessuna marionetta. Per fortuna c’era una macchina da presa quando tutto questo è successo, perché ho pensato: "Sarebbe stato impossibile inventarsi una cosa simile". Eppure è quello che la gente pensa che io abbia fatto" replica Banksy.
Comunque sia, la situazione della street-art ai nostri giorni è poco diversa da quanto si vive in altre manifestazioni artistiche: la tentazione è troppo forte. Ciò che in altri tempi si considerava trasgressivo ora viene osservato con la lente di ingrandimento dai grandi agenti del mercato. Tutte le agenzie pubblicitarie del mondo sanno che lavorare con un artista di strada significa ottenere notorietà e prestigio, e ai volontari (ben pagati, sia chiaro) non manca il lavoro.
Per quelli che vivono estranei a ricompense e lealtà fittizie, la storia è totalmente diversa: alcuni hanno cominciato a mostrare la loro rabbia accusando Banksy e compagnia di essere dei venduti e rivendicando un ritorno alle origini, al lavoro di una volta. L’artista di Bristol risponde a modo suo: "Sai, fare graffiti è un’attività molto pericolosa, lavori di notte, circondato da ubriachi, da guardie... con il pensiero costante di non sapere che starà facendo la tua ragazza in quel momento... è pericoloso, molto pericoloso".
Toni García