Corriere della Sera, mercoledì 4 novembre 1992, 1 ottobre 2013
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Il tesoro di Barucci (articolo del 4/11/1992)
Corriere della Sera, mercoledì 4 novembre 1992
Venerdì scorso ha nominato i vertici delle banche pubbliche, che i leader dei partiti da sempre sgomitano per lottizzare. Lunedì ha consegnato al presidente del Consiglio Giuliano Amato l'attesissimo piano di privatizzazioni delle aziende statali, che fatturano quasi 200 mila miliardi, occupano 850 mila persone e stanno scatenando appetiti famelici. Ma sotto il controllo del ministro del Tesoro Piero Barucci si trovano anche l’immensa massa dei Bot e degli altri titoli di Stato, che generano il debito pubblico nazionale, nonché il rapporto con la Banca d'Italia per la gestione della lira, ancora in tensione dopo la tempesta dei cambi. E un potere enorme, che nessuno dei suoi predecessori al dicastero del Tesoro ha detenuto. E che, a fine giugno, quando fu varato il governo Amato, gli è caduto addosso imprevisto, tanto da fargli esclamare col suo accento toscano: «Ho ancora da capire cosa è accaduto e perché». Una frase che sarebbe andata benissimo anche nelle sue precedenti nomine, tutte a sorpresa: dalla presidenza del Monte dei Paschi di Siena, a quella dell'associazione dei banchieri italiani (Abi), come ad amministratore delegato del Credito Italiano. Con tali precedenti hanno un senso anche le voci di un suo arrivo alla Banca d’Italia, quando ci sarà l'addio del governatore Carlo Azeglio Ciampi. Una parte della Dc contrapporrebbe infatti Barucci al numero due di via Nazionale, Lamberto Dini, che viene dato in corsa insieme a Cesare Geronzi della Banca di Roma (come direttore generale), e alla candidatura dell’ex capo della Vigilanza Mario Sarcinelli. Eppure, solo nove anni fa, Barucci era un anonimo professore dell’università di Firenze. Certo, fu aiutato dal leader della sinistra dc Ciriaco De Mita. Ma è bastato questo a farlo emergere così in fretta? E com’è che è uscito indenne dalle crisi di rigetto che coincidono con il declino degli sponsor politici? Una storia molto italiana. Barucci è di Firenze, ha 59 anni e proviene da una famiglia povera. Il padre era carradore, cioè riparava le carrozzelle che portavano in giro i turisti. La madre faceva la lavandaia. Lui imparò presto tanti mestieri e a districarsi con i popolani del suo quartiere Le cure. Fece perfino il guardiano di pecore. La strada gli insegnò molto. La scuola lo portò al diploma di geometra, che gli consentì di impiegarsi e di laurearsi poi in economia e commercio (nel ‘59). Il suo sogno però era fare il giornalista sportivo. Ci provò al quotidiano dc Il Mattino di Firenze, seguendo l’atletica. Poi tentò alla Gazzetta dello sport. "Ma mi bocciò Giorgio Fattori", raccontò Barucci indicando come il destino, sotto forma dell’attuale presidente della Rcs, lo indusse a fare il professore. Era cattolico ("inquieto", specificava). Alla Dc lo avvicinò ulteriormente Maria Alessandri, che sposò nel ‘62. Si trasferì nella casa dei suoceri al Galluzzo, dove ebbe quattro figli maschi. E alla moglie, dal temperamento energico, molti amici della coppia attribuiscono la trasformazione di Piero, da fiorentino placido e un po’ timoroso, in uomo ambizioso e deciso a salire in alto. Questo nuovo Barucci, che il Nuovo Corriere Senese ribattezzerà poi «Dc.dipendente», nell’81 a Firenze passò preside alla facoltà di economia. Entrò nella casa editrice Le Monnier. Divenne consulente della Banca Toscana e dell’allora amministratore delegato Carlo Zini. E proprio Zini, quando nell’83 fu nominato Provveditore (numero uno operativo) del Montepaschi di Siena con l’appoggio di Giulio Andreotti, indicò il fido Barucci per la presidenza, che spettava alla sinistra dc di De Mita. «Senza una sponsorizzazione politica non sarei arrivato a quella poltrona», ammise con sincerità Barucci dopo la nomina del ministro del Tesoro Giovanni Goria, allora demitiano doc. Il Palio di Siena. Per statuto Zini al Montepaschi era il padrone assoluto. E Barucci fece il presidente d’immagine. Dava interviste, invitava ospiti al Palio, rilanciò l’accademia musicale Chigiana e sfogò la passione (sua e della moglie) per i viaggi. Le riunioni del vertice Montepaschi furono trasferite nelle capitali estere. La comitiva senese, con mogli e figli al seguito, entrò negli aneddoti del banking di Londra, di New York o di Mosca: la Gazzetta di Siena li definì ironicamente «Paschi tours». Leggeva sempre la Gazzetta dello sport con più interesse del Sole 24 ore. Seguiva il basket a Siena e al Madison square garden di New York, grazie ai frequenti viaggi in cui sfoggiava un decente inglese. Ma Barucci divenne anche l’ambasciatore del Montepaschi a Roma, dove incontrava i leader del Palazzo, il governatore, gli altri banchieri alle riunioni Abi. In questa associazione lanciò la fronda al presidente Giannino Parravicini e, nel giugno ’87, gli soffiò la poltrona, con l’appoggio della Dc e di Nerio Nesi, l’uomo del Psi alla Bnl. Con la discesa di De Mita, Barucci s’avvicinò al Grande centro di Antonio Gava. I giornali se ne accorsero appena il Montepaschi tentò di salvare i clienti della Cassa popolare stabiese, una banca che operava illegalmente nel collegio elettorale di Gava. Ma anche con Andreotti presidente del Consiglio e con Arnaldo Forlani segretario della Dc entrò presto in sintonia. Ad aiutarlo contribuì Franco Maria Malfatti, allora responsabile della Dc per le nomine in banche ed enti: un’amicizia stretta grazie alle rispettive mogli. Solo al Montepaschi Zini continuava a non dargli spazio. Così andò allo scontro. Barucci contestò l’acquisto dal finanziere Carlo Patrucco della Ticino assicurazioni, che in effetti si rivelò piena di buchi. Si schierò contro l’operazione Banca di Canicattì , da cui emerse una parcella miliardaria versata per l’intermediazione all’avvocato Dc Raimondo Maira. Ma scaturirono anche tanti altri incidenti, soprattutto quando la moglie Maria scese in campo contro quella del provveditore Zini. Il caso Credit. La tregua fu sancita nel ‘90, quando il ministro del Tesoro Guido Carli e il presidente del Consiglio Andreotti nominarono Barucci amministratore delegato del Credito italiano. Si gridò allo scandalo. Per la prima volta infatti un lottizzato, senza esperienza di gestione creditizia, diventava capo operativo di una banca da sempre in mano ai tecnici. Barucci esordì male, esponendosi in sede Abi nel salvataggio della Lombardfin di Paolo Mario Leati, che originò uno scandalo con risvolti penali. Ma, nei successivi due anni, ricevette anche consensi. Dove non vedeva chiaro delegava ai sottoposti. Si attirò critiche solo per i fidi all’Efim e alla Federconsorzi, che però erano problemi antichi e comuni un po’ a tutte le grandi banche. Quando Amato l’ha chiamato nel governo, studiava ancora da banchiere. Così , per non perdere posto e stipendio del Credit, s’è messo in aspettativa. Al Tesoro deve risanare la finanza pubblica. Ma il debito nazionale rischia ogni giorno di travolgerlo. Appena annunciò a sorpresa la privatizzazione del Credito Italiano, il ministro Giuseppe Guarino avanzò pubblicamente sospetti di insider trading. Le nomine nelle banche hanno lasciato in sella molti banchieri di partito e solo il nemico Zini rischia un imminente pensionamento (sarà un caso?). Ma è soprattutto con la svalutazione della lira che s’è trovato in crisi. Perché, dopo che la Banca d’Italia di Ciampi ha bruciato 50 mila miliardi di lire nell’inutile difesa del cambio, c’è un vero partito che imputa a Barucci e ad Amato la decisione di non svalutare in estate (per non rendere impopolare il loro governo). Nei quattro mesi da ministro, invece, Barucci è convinto di aver fatto abbastanza e bene. Nella Dc riscuote larghi consensi. Lui cita la trasformazione degli enti pubblici in società per azioni, il fondo d’ammortamento dei titoli di Stato, gli atti per il rilancio della Borsa, il piano privatizzazioni, l’aver tenuto fuori nuovi politici trombati dalle banche. Ma soprattutto rivendica che sta operando fidando solo sulla sua «indipendenza di giudizio». I suoi prossimi atti chiariranno meglio cosa intende.
Venerdì scorso ha nominato i vertici delle banche pubbliche, che i leader dei partiti da sempre sgomitano per lottizzare. Lunedì ha consegnato al presidente del Consiglio Giuliano Amato l'attesissimo piano di privatizzazioni delle aziende statali, che fatturano quasi 200 mila miliardi, occupano 850 mila persone e stanno scatenando appetiti famelici. Ma sotto il controllo del ministro del Tesoro Piero Barucci si trovano anche l’immensa massa dei Bot e degli altri titoli di Stato, che generano il debito pubblico nazionale, nonché il rapporto con la Banca d'Italia per la gestione della lira, ancora in tensione dopo la tempesta dei cambi. E un potere enorme, che nessuno dei suoi predecessori al dicastero del Tesoro ha detenuto. E che, a fine giugno, quando fu varato il governo Amato, gli è caduto addosso imprevisto, tanto da fargli esclamare col suo accento toscano: «Ho ancora da capire cosa è accaduto e perché». Una frase che sarebbe andata benissimo anche nelle sue precedenti nomine, tutte a sorpresa: dalla presidenza del Monte dei Paschi di Siena, a quella dell'associazione dei banchieri italiani (Abi), come ad amministratore delegato del Credito Italiano. Con tali precedenti hanno un senso anche le voci di un suo arrivo alla Banca d’Italia, quando ci sarà l'addio del governatore Carlo Azeglio Ciampi. Una parte della Dc contrapporrebbe infatti Barucci al numero due di via Nazionale, Lamberto Dini, che viene dato in corsa insieme a Cesare Geronzi della Banca di Roma (come direttore generale), e alla candidatura dell’ex capo della Vigilanza Mario Sarcinelli. Eppure, solo nove anni fa, Barucci era un anonimo professore dell’università di Firenze. Certo, fu aiutato dal leader della sinistra dc Ciriaco De Mita. Ma è bastato questo a farlo emergere così in fretta? E com’è che è uscito indenne dalle crisi di rigetto che coincidono con il declino degli sponsor politici? Una storia molto italiana. Barucci è di Firenze, ha 59 anni e proviene da una famiglia povera. Il padre era carradore, cioè riparava le carrozzelle che portavano in giro i turisti. La madre faceva la lavandaia. Lui imparò presto tanti mestieri e a districarsi con i popolani del suo quartiere Le cure. Fece perfino il guardiano di pecore. La strada gli insegnò molto. La scuola lo portò al diploma di geometra, che gli consentì di impiegarsi e di laurearsi poi in economia e commercio (nel ‘59). Il suo sogno però era fare il giornalista sportivo. Ci provò al quotidiano dc Il Mattino di Firenze, seguendo l’atletica. Poi tentò alla Gazzetta dello sport. "Ma mi bocciò Giorgio Fattori", raccontò Barucci indicando come il destino, sotto forma dell’attuale presidente della Rcs, lo indusse a fare il professore. Era cattolico ("inquieto", specificava). Alla Dc lo avvicinò ulteriormente Maria Alessandri, che sposò nel ‘62. Si trasferì nella casa dei suoceri al Galluzzo, dove ebbe quattro figli maschi. E alla moglie, dal temperamento energico, molti amici della coppia attribuiscono la trasformazione di Piero, da fiorentino placido e un po’ timoroso, in uomo ambizioso e deciso a salire in alto. Questo nuovo Barucci, che il Nuovo Corriere Senese ribattezzerà poi «Dc.dipendente», nell’81 a Firenze passò preside alla facoltà di economia. Entrò nella casa editrice Le Monnier. Divenne consulente della Banca Toscana e dell’allora amministratore delegato Carlo Zini. E proprio Zini, quando nell’83 fu nominato Provveditore (numero uno operativo) del Montepaschi di Siena con l’appoggio di Giulio Andreotti, indicò il fido Barucci per la presidenza, che spettava alla sinistra dc di De Mita. «Senza una sponsorizzazione politica non sarei arrivato a quella poltrona», ammise con sincerità Barucci dopo la nomina del ministro del Tesoro Giovanni Goria, allora demitiano doc. Il Palio di Siena. Per statuto Zini al Montepaschi era il padrone assoluto. E Barucci fece il presidente d’immagine. Dava interviste, invitava ospiti al Palio, rilanciò l’accademia musicale Chigiana e sfogò la passione (sua e della moglie) per i viaggi. Le riunioni del vertice Montepaschi furono trasferite nelle capitali estere. La comitiva senese, con mogli e figli al seguito, entrò negli aneddoti del banking di Londra, di New York o di Mosca: la Gazzetta di Siena li definì ironicamente «Paschi tours». Leggeva sempre la Gazzetta dello sport con più interesse del Sole 24 ore. Seguiva il basket a Siena e al Madison square garden di New York, grazie ai frequenti viaggi in cui sfoggiava un decente inglese. Ma Barucci divenne anche l’ambasciatore del Montepaschi a Roma, dove incontrava i leader del Palazzo, il governatore, gli altri banchieri alle riunioni Abi. In questa associazione lanciò la fronda al presidente Giannino Parravicini e, nel giugno ’87, gli soffiò la poltrona, con l’appoggio della Dc e di Nerio Nesi, l’uomo del Psi alla Bnl. Con la discesa di De Mita, Barucci s’avvicinò al Grande centro di Antonio Gava. I giornali se ne accorsero appena il Montepaschi tentò di salvare i clienti della Cassa popolare stabiese, una banca che operava illegalmente nel collegio elettorale di Gava. Ma anche con Andreotti presidente del Consiglio e con Arnaldo Forlani segretario della Dc entrò presto in sintonia. Ad aiutarlo contribuì Franco Maria Malfatti, allora responsabile della Dc per le nomine in banche ed enti: un’amicizia stretta grazie alle rispettive mogli. Solo al Montepaschi Zini continuava a non dargli spazio. Così andò allo scontro. Barucci contestò l’acquisto dal finanziere Carlo Patrucco della Ticino assicurazioni, che in effetti si rivelò piena di buchi. Si schierò contro l’operazione Banca di Canicattì , da cui emerse una parcella miliardaria versata per l’intermediazione all’avvocato Dc Raimondo Maira. Ma scaturirono anche tanti altri incidenti, soprattutto quando la moglie Maria scese in campo contro quella del provveditore Zini. Il caso Credit. La tregua fu sancita nel ‘90, quando il ministro del Tesoro Guido Carli e il presidente del Consiglio Andreotti nominarono Barucci amministratore delegato del Credito italiano. Si gridò allo scandalo. Per la prima volta infatti un lottizzato, senza esperienza di gestione creditizia, diventava capo operativo di una banca da sempre in mano ai tecnici. Barucci esordì male, esponendosi in sede Abi nel salvataggio della Lombardfin di Paolo Mario Leati, che originò uno scandalo con risvolti penali. Ma, nei successivi due anni, ricevette anche consensi. Dove non vedeva chiaro delegava ai sottoposti. Si attirò critiche solo per i fidi all’Efim e alla Federconsorzi, che però erano problemi antichi e comuni un po’ a tutte le grandi banche. Quando Amato l’ha chiamato nel governo, studiava ancora da banchiere. Così , per non perdere posto e stipendio del Credit, s’è messo in aspettativa. Al Tesoro deve risanare la finanza pubblica. Ma il debito nazionale rischia ogni giorno di travolgerlo. Appena annunciò a sorpresa la privatizzazione del Credito Italiano, il ministro Giuseppe Guarino avanzò pubblicamente sospetti di insider trading. Le nomine nelle banche hanno lasciato in sella molti banchieri di partito e solo il nemico Zini rischia un imminente pensionamento (sarà un caso?). Ma è soprattutto con la svalutazione della lira che s’è trovato in crisi. Perché, dopo che la Banca d’Italia di Ciampi ha bruciato 50 mila miliardi di lire nell’inutile difesa del cambio, c’è un vero partito che imputa a Barucci e ad Amato la decisione di non svalutare in estate (per non rendere impopolare il loro governo). Nei quattro mesi da ministro, invece, Barucci è convinto di aver fatto abbastanza e bene. Nella Dc riscuote larghi consensi. Lui cita la trasformazione degli enti pubblici in società per azioni, il fondo d’ammortamento dei titoli di Stato, gli atti per il rilancio della Borsa, il piano privatizzazioni, l’aver tenuto fuori nuovi politici trombati dalle banche. Ma soprattutto rivendica che sta operando fidando solo sulla sua «indipendenza di giudizio». I suoi prossimi atti chiariranno meglio cosa intende.
Ivo Caizzi