Panorama, venerdì 24 agosto 2012, 30 settembre 2013
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Saga della famiglia Riva (articolo di Panorama del 24/8/2012)
Panorama, venerdì 24 agosto 2012
A un certo punto inizia a parlare Calisto Tanzi. I testimoni non si ricordano le esatte parole del fondatore della Parmalat, ma il senso dell’intervento era questo: «Noi imprenditori» diceva rivolgendosi ai membri della giunta della Confindustria «dobbiamo modernizzarci, usare la borsa, fare più finanza...». Finito il discorso, una voce lo gela: «Non sono d’accordo». È Emilio Riva, uno che di solito parla poco. Tanzi replica irritato, ma con tono fermo Riva lo zittisce così: «Vede, signor Tanzi, se io la prendo per i piedi e la scrollo, dalle sue tasche esce tanta, tanta carta. Se invece prende me per i piedi, dalle mie tasche escono tanti, tanti soldi. Ecco qual è la differenza tra noi due».
La scena risale alla metà degli anni Novanta e scolpisce alla perfezione il carattere di un uomo che, senza tanti grilli per la testa, fedele a un modello industriale molto, fin troppo tradizionale, è ancora lì, con il suo gruppo siderurgico, a guardarci dall’alto dei 10 miliardi di fatturato, dei 36 stabilimenti nel mondo, dei quasi 22 mila dipendenti. Nessuno parlava di Riva mentre Tanzi finiva travolto dai suoi castelli di carte, nessuno si ricordava di lui mentre i Falck dalla vita mondana chiudevano gli altiforni di Sesto San Giovanni o il Lucchini dei salotti buoni vendeva gli impianti ai russi della Severstal. Grandi dinastie dell’acciaio cancellate dalla cronaca economica e lui sempre lì, sempre più grande. Inquisito, ma lì.
Se non ci fossero stati gli scontri che periodicamente lo hanno visto protagonista a Cornigliano, per l’inquinamento provocato dagli ex impianti Italsider a Genova, o per il disastro ambientale dell’Ilva di Taranto, probabilmente a nessuno verrebbe in mente che qui in Italia abbiamo il quarto imprenditore siderurgico d’Europa. Stare sotto il pelo dell’acqua, del resto, è la sua regola. Insieme al lavorare duro, usare il denaro con parsimonia, cogliere le occasioni. Ora, nella sua casa di Milano, dove è agli arresti domiciliari per la vicenda Ilva, sicuramente si sta rodendo il fegato. Anche perché da questa storia qualche dubbio sulla gestione del gigante d’acciaio sarà venuto pure a lui.
La saga della famiglia inizia nel 1954: Emilio Riva, nato nel 1926 a Milano e figlio di un commerciante in scarti ferrosi, avvia con il fratello Adriano un’attività di commercio di rottami, che vende ai siderurgici bresciani. Trasporta i pezzi di ferro su un vecchio camion Dodge. Ma già nel 1957 inizia a produrre acciaio a Caronno Pertusella, a nord di Milano. L’adozione, prima dei concorrenti, della colata continua diventa la più importante fonte di vantaggio competitivo della nuova impresa. Riva diventa il re del tondino, cresce e mette da parte i soldi per accaparrarsi un’acciaieria dietro l’altra.
«Non compro mai quando va bene, compro quando va male» spiega Emilio in una delle rarissime interviste. Negli anni Settanta è già arrivato all’estero, con acquisizioni in Spagna e Francia. Poi la crisi mondiale dell’acciaio investe la siderurgia pubblica europea. Riva ne approfitta subito: entra nella gestione di Cornigliano, compra un impianto nell’ex Germania Est e quindi, nel 1995, si aggiudica l’Ilva di Taranto. Il gruppo diventa enorme, lo stile non cambia. «Quando l’Ilva si chiamava Italsider» ricorda un imprenditore di Taranto, che lavorava per lo stabilimento siderurgico «i grandi manager pubblici venivano qui in città con una sfilza di auto blu e un codazzo di segretarie. Grandi parole in un convegno e via, tornavano a Roma. Quando invece incontrai per la prima volta uno dei figli di Riva, accadde all’interno dello stabilimento: arrivò a bordo di una vecchia Panda di servizio». «La presenza della famiglia sugli impianti produttivi, a contatto con tecnici e operai» dice un manager del gruppo «è una costante. Una cultura del lavoro che deriva dalla figura di Emilio, adottata poi da figli e nipoti».
La famiglia è molto importante per i Riva. «Il pranzo di Natale ha un valore simbolico forte» racconta un collaboratore di Emilio, che ha sei figli, due femmine e quattro maschi. Il più grande, Fabio, è il vero numero due del gruppo; Claudio, dal carattere spigoloso, è uscito dalle attività siderurgiche e segue quelle armatoriali; Nicola, finito agli arresti con il padre, è l’uomo della produzione; e Daniele guida lo stabilimento di Genova. In azienda lavorano pure i nipoti Angelo e Cesare. E le femmine? Riva preferisce tenere lontane le donne dall’azienda: le figlie fanno altro, le nuore sono invitate a non salire ai piani superiori della sede milanese dove ci sono gli uffici dei mariti. Ma saranno delle donne, le «donne di Cornigliano», a fargli rimangiare la promessa che lui a Genova non avrebbe mai chiuso l’altoforno. Due anni dopo la chiusura ammetterà: «Riconosco che nel centro di Genova un altoforno e una cokeria non possono esistere».
Se l’obiettivo è diventare più grandi («Ho sempre aperto e comprato fabbriche e non ne ho mai chiusa una» si vanta Riva), il metodo per realizzarlo poggia su alcuni punti fermi: una gestione efficiente affidata prima di tutto ai figli e ai tecnici di provata fiducia, niente top manager da business school. Poi attenzione maniacale ai costi: se ancora oggi Emilio, stipendiato come se fosse un qualsiasi dirigente, si attarda in ufficio, è lui che spegne le luci al terzo piano del quartier generale in fondo a viale Certosa, Milano.
Ed è proprio grazie alla capacità di mettere fieno in cascina che il gruppo riesce a resistere anche nei momenti più difficili. Come quello che stiamo vivendo ora: si produce di meno ma si riempiono comunque i piazzali di acciaio, pronti a venderlo quando l’economia tornerà a tirare, sbaragliando ancora una volta gli avversari. Intanto Riva si tiene buona la politica con finanziamenti ai partiti, di destra e di sinistra, e con l’acquisto di una quota nell’Alitalia dei «patrioti», mentre versa denari alla parrocchia di Tamburi, il quartiere più colpito dall’inquinamento dell’Ilva di Taranto, e forse, come sembrano testimoniare le ultime intercettazioni telefoniche, anche tangenti per addomesticare i risultati delle analisi ambientali. Disposto a tutto pur di continuare a fare acciaio. In silenzio.
Con i dipendenti alterna paternalismo e durezza: numerose le cause per comportamenti antisindacali. Ma anche attestati di stima e di ammirazione da parte dei lavoratori e dei fornitori. Certi giornalisti vengono manipolati, forse anche pagati, come rivelano le intercettazioni. Lo stile della casa lo fa intuire il giovane Emilio, omonimo del nonno, che parlando col padre Fabio dopo un incontro con Nichi Vendola suggerisce: «Facciamo un comunicato stampa fuorviante tanto per “vendere fumo”, dicendo che va tutto bene e che l’Ilva collabora con la regione».
Il patriarca rilascia poche interviste. E, quando si lascia convincere da una società di comunicazione ad aprire le porte dell’Ilva di Taranto a un giornalista, se ne pente immediatamente. Accade nel 2006, quando Panorama spedisce un suo inviato per raccontare come funziona la più grande fabbrica d’Europa. L’inviato, Angelo Pergolini, non può fare a meno di annotare l’alta incidenza di infortuni (oggi molto diminuiti) e scrive: «Quando tira vento, e a Taranto lo scirocco soffia spesso e forte, dai parchi (e dai nastri trasportatori che li collegano al porto) si alzano nuvole impalpabili, coprono il rione Tamburi, periferia di case popolari cresciuta parallelamente allo stabilimento da cui è divisa solo da un muro; scendono sugli edifici fatiscenti della città vecchia; si posano sulle vetrine eleganti di via D’Aquino, cuore dello shopping e dello struscio. Lasciano ovunque la stessa scia grigia e velenosa, penetrano dappertutto: polmoni compresi». Dopo la pubblicazione del reportage, la società di relazioni pubbliche viene licenziata.
Il fatto di essere diventato il 23esimo produttore mondiale di acciaio fa di Riva un bravo imprenditore? Margherita Balconi, docente nella facoltà di ingegneria dell’Università di Pavia, è un’esperta del settore. Autrice fra l’altro del libro La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato (Edizioni Il Mulino), la professoressa ha scritto in particolare un volume per il gruppo: Riva 1954-1994. Il percorso imprenditoriale della famiglia Riva. Il suo giudizio è abbastanza critico: «Fino all’acquisto dell’Ilva Riva è stato soprattutto un abile gestore di impianti e un imprenditore capace di cogliere l’opportunità di acquistare stabilimenti in crisi e di trasferirvi i propri metodi molto efficaci di gestione aziendale. È stato anche uno dei primi siderurgici in Europa ad avviare un importante processo di internazionalizzazione. Ma l’acquisizione, estremamente coraggiosa, dell’acciaieria di Taranto ha spinto il gruppo su di un terreno tutto nuovo».
Secondo Balconi, gestire uno stabilimento di quelle dimensioni, specializzato nel campo dei laminati piani di qualità, avrebbe comportato dei metodi di gestione diversi da quelli che avevano costituito la forza dei Riva. Le altre imprese europee che gestivano grandi impianti a ciclo integrale (in particolare la francese Usinor, oggi acquistata dalla Mittal) capivano l’importanza, per esempio, di fare ricerca e di investire per ottenere tipi di acciaio sempre più sofisticati. Una delle prime cose che invece ha fatto Riva dopo l’acquisto è stata allontanare dallo stabilimento i ricercatori del Centro sviluppo materiali (Csm) che stavano conducendo ricerche su un impianto pilota molto innovativo: tre giorni e poi fuori, senza neanche lasciare finire gli esperimenti. Con il metodo Riva i conti sono migliorati, ma la qualità no. Tanto è vero che l’Ilva serve ancora il mercato automobilistico, ma non rifornirebbe più l’acciaio per le carrozzerie (che deve essere visivamente perfetto). «E a quanto pare non fa parte della loro cultura innovare in funzione dei miglioramenti ambientali » commenta Balconi.
Alcuni sostengono che dietro l’uscita di Claudio dall’Ilva ci sia stato uno scontro proprio sul tema della qualità: il figlio ne voleva di più, il padre non era d’accordo. Ora forse Emilio dovrà cambiare idea, mentre l’azienda tratta con la Siemens per introdurre tecnologie più moderne e pulite. Anche nelle famiglie d’acciaio si può aprire una crepa.
A un certo punto inizia a parlare Calisto Tanzi. I testimoni non si ricordano le esatte parole del fondatore della Parmalat, ma il senso dell’intervento era questo: «Noi imprenditori» diceva rivolgendosi ai membri della giunta della Confindustria «dobbiamo modernizzarci, usare la borsa, fare più finanza...». Finito il discorso, una voce lo gela: «Non sono d’accordo». È Emilio Riva, uno che di solito parla poco. Tanzi replica irritato, ma con tono fermo Riva lo zittisce così: «Vede, signor Tanzi, se io la prendo per i piedi e la scrollo, dalle sue tasche esce tanta, tanta carta. Se invece prende me per i piedi, dalle mie tasche escono tanti, tanti soldi. Ecco qual è la differenza tra noi due».
La scena risale alla metà degli anni Novanta e scolpisce alla perfezione il carattere di un uomo che, senza tanti grilli per la testa, fedele a un modello industriale molto, fin troppo tradizionale, è ancora lì, con il suo gruppo siderurgico, a guardarci dall’alto dei 10 miliardi di fatturato, dei 36 stabilimenti nel mondo, dei quasi 22 mila dipendenti. Nessuno parlava di Riva mentre Tanzi finiva travolto dai suoi castelli di carte, nessuno si ricordava di lui mentre i Falck dalla vita mondana chiudevano gli altiforni di Sesto San Giovanni o il Lucchini dei salotti buoni vendeva gli impianti ai russi della Severstal. Grandi dinastie dell’acciaio cancellate dalla cronaca economica e lui sempre lì, sempre più grande. Inquisito, ma lì.
Se non ci fossero stati gli scontri che periodicamente lo hanno visto protagonista a Cornigliano, per l’inquinamento provocato dagli ex impianti Italsider a Genova, o per il disastro ambientale dell’Ilva di Taranto, probabilmente a nessuno verrebbe in mente che qui in Italia abbiamo il quarto imprenditore siderurgico d’Europa. Stare sotto il pelo dell’acqua, del resto, è la sua regola. Insieme al lavorare duro, usare il denaro con parsimonia, cogliere le occasioni. Ora, nella sua casa di Milano, dove è agli arresti domiciliari per la vicenda Ilva, sicuramente si sta rodendo il fegato. Anche perché da questa storia qualche dubbio sulla gestione del gigante d’acciaio sarà venuto pure a lui.
La saga della famiglia inizia nel 1954: Emilio Riva, nato nel 1926 a Milano e figlio di un commerciante in scarti ferrosi, avvia con il fratello Adriano un’attività di commercio di rottami, che vende ai siderurgici bresciani. Trasporta i pezzi di ferro su un vecchio camion Dodge. Ma già nel 1957 inizia a produrre acciaio a Caronno Pertusella, a nord di Milano. L’adozione, prima dei concorrenti, della colata continua diventa la più importante fonte di vantaggio competitivo della nuova impresa. Riva diventa il re del tondino, cresce e mette da parte i soldi per accaparrarsi un’acciaieria dietro l’altra.
«Non compro mai quando va bene, compro quando va male» spiega Emilio in una delle rarissime interviste. Negli anni Settanta è già arrivato all’estero, con acquisizioni in Spagna e Francia. Poi la crisi mondiale dell’acciaio investe la siderurgia pubblica europea. Riva ne approfitta subito: entra nella gestione di Cornigliano, compra un impianto nell’ex Germania Est e quindi, nel 1995, si aggiudica l’Ilva di Taranto. Il gruppo diventa enorme, lo stile non cambia. «Quando l’Ilva si chiamava Italsider» ricorda un imprenditore di Taranto, che lavorava per lo stabilimento siderurgico «i grandi manager pubblici venivano qui in città con una sfilza di auto blu e un codazzo di segretarie. Grandi parole in un convegno e via, tornavano a Roma. Quando invece incontrai per la prima volta uno dei figli di Riva, accadde all’interno dello stabilimento: arrivò a bordo di una vecchia Panda di servizio». «La presenza della famiglia sugli impianti produttivi, a contatto con tecnici e operai» dice un manager del gruppo «è una costante. Una cultura del lavoro che deriva dalla figura di Emilio, adottata poi da figli e nipoti».
La famiglia è molto importante per i Riva. «Il pranzo di Natale ha un valore simbolico forte» racconta un collaboratore di Emilio, che ha sei figli, due femmine e quattro maschi. Il più grande, Fabio, è il vero numero due del gruppo; Claudio, dal carattere spigoloso, è uscito dalle attività siderurgiche e segue quelle armatoriali; Nicola, finito agli arresti con il padre, è l’uomo della produzione; e Daniele guida lo stabilimento di Genova. In azienda lavorano pure i nipoti Angelo e Cesare. E le femmine? Riva preferisce tenere lontane le donne dall’azienda: le figlie fanno altro, le nuore sono invitate a non salire ai piani superiori della sede milanese dove ci sono gli uffici dei mariti. Ma saranno delle donne, le «donne di Cornigliano», a fargli rimangiare la promessa che lui a Genova non avrebbe mai chiuso l’altoforno. Due anni dopo la chiusura ammetterà: «Riconosco che nel centro di Genova un altoforno e una cokeria non possono esistere».
Se l’obiettivo è diventare più grandi («Ho sempre aperto e comprato fabbriche e non ne ho mai chiusa una» si vanta Riva), il metodo per realizzarlo poggia su alcuni punti fermi: una gestione efficiente affidata prima di tutto ai figli e ai tecnici di provata fiducia, niente top manager da business school. Poi attenzione maniacale ai costi: se ancora oggi Emilio, stipendiato come se fosse un qualsiasi dirigente, si attarda in ufficio, è lui che spegne le luci al terzo piano del quartier generale in fondo a viale Certosa, Milano.
Ed è proprio grazie alla capacità di mettere fieno in cascina che il gruppo riesce a resistere anche nei momenti più difficili. Come quello che stiamo vivendo ora: si produce di meno ma si riempiono comunque i piazzali di acciaio, pronti a venderlo quando l’economia tornerà a tirare, sbaragliando ancora una volta gli avversari. Intanto Riva si tiene buona la politica con finanziamenti ai partiti, di destra e di sinistra, e con l’acquisto di una quota nell’Alitalia dei «patrioti», mentre versa denari alla parrocchia di Tamburi, il quartiere più colpito dall’inquinamento dell’Ilva di Taranto, e forse, come sembrano testimoniare le ultime intercettazioni telefoniche, anche tangenti per addomesticare i risultati delle analisi ambientali. Disposto a tutto pur di continuare a fare acciaio. In silenzio.
Con i dipendenti alterna paternalismo e durezza: numerose le cause per comportamenti antisindacali. Ma anche attestati di stima e di ammirazione da parte dei lavoratori e dei fornitori. Certi giornalisti vengono manipolati, forse anche pagati, come rivelano le intercettazioni. Lo stile della casa lo fa intuire il giovane Emilio, omonimo del nonno, che parlando col padre Fabio dopo un incontro con Nichi Vendola suggerisce: «Facciamo un comunicato stampa fuorviante tanto per “vendere fumo”, dicendo che va tutto bene e che l’Ilva collabora con la regione».
Il patriarca rilascia poche interviste. E, quando si lascia convincere da una società di comunicazione ad aprire le porte dell’Ilva di Taranto a un giornalista, se ne pente immediatamente. Accade nel 2006, quando Panorama spedisce un suo inviato per raccontare come funziona la più grande fabbrica d’Europa. L’inviato, Angelo Pergolini, non può fare a meno di annotare l’alta incidenza di infortuni (oggi molto diminuiti) e scrive: «Quando tira vento, e a Taranto lo scirocco soffia spesso e forte, dai parchi (e dai nastri trasportatori che li collegano al porto) si alzano nuvole impalpabili, coprono il rione Tamburi, periferia di case popolari cresciuta parallelamente allo stabilimento da cui è divisa solo da un muro; scendono sugli edifici fatiscenti della città vecchia; si posano sulle vetrine eleganti di via D’Aquino, cuore dello shopping e dello struscio. Lasciano ovunque la stessa scia grigia e velenosa, penetrano dappertutto: polmoni compresi». Dopo la pubblicazione del reportage, la società di relazioni pubbliche viene licenziata.
Il fatto di essere diventato il 23esimo produttore mondiale di acciaio fa di Riva un bravo imprenditore? Margherita Balconi, docente nella facoltà di ingegneria dell’Università di Pavia, è un’esperta del settore. Autrice fra l’altro del libro La siderurgia italiana (1945-1990). Tra controllo pubblico e incentivi del mercato (Edizioni Il Mulino), la professoressa ha scritto in particolare un volume per il gruppo: Riva 1954-1994. Il percorso imprenditoriale della famiglia Riva. Il suo giudizio è abbastanza critico: «Fino all’acquisto dell’Ilva Riva è stato soprattutto un abile gestore di impianti e un imprenditore capace di cogliere l’opportunità di acquistare stabilimenti in crisi e di trasferirvi i propri metodi molto efficaci di gestione aziendale. È stato anche uno dei primi siderurgici in Europa ad avviare un importante processo di internazionalizzazione. Ma l’acquisizione, estremamente coraggiosa, dell’acciaieria di Taranto ha spinto il gruppo su di un terreno tutto nuovo».
Secondo Balconi, gestire uno stabilimento di quelle dimensioni, specializzato nel campo dei laminati piani di qualità, avrebbe comportato dei metodi di gestione diversi da quelli che avevano costituito la forza dei Riva. Le altre imprese europee che gestivano grandi impianti a ciclo integrale (in particolare la francese Usinor, oggi acquistata dalla Mittal) capivano l’importanza, per esempio, di fare ricerca e di investire per ottenere tipi di acciaio sempre più sofisticati. Una delle prime cose che invece ha fatto Riva dopo l’acquisto è stata allontanare dallo stabilimento i ricercatori del Centro sviluppo materiali (Csm) che stavano conducendo ricerche su un impianto pilota molto innovativo: tre giorni e poi fuori, senza neanche lasciare finire gli esperimenti. Con il metodo Riva i conti sono migliorati, ma la qualità no. Tanto è vero che l’Ilva serve ancora il mercato automobilistico, ma non rifornirebbe più l’acciaio per le carrozzerie (che deve essere visivamente perfetto). «E a quanto pare non fa parte della loro cultura innovare in funzione dei miglioramenti ambientali » commenta Balconi.
Alcuni sostengono che dietro l’uscita di Claudio dall’Ilva ci sia stato uno scontro proprio sul tema della qualità: il figlio ne voleva di più, il padre non era d’accordo. Ora forse Emilio dovrà cambiare idea, mentre l’azienda tratta con la Siemens per introdurre tecnologie più moderne e pulite. Anche nelle famiglie d’acciaio si può aprire una crepa.
Guido Fontanelli