19 settembre 2013
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Biografia di Abdon Pamich
• Rjeka (Croazia, già Fiume, Italia) 3 ottobre 1933. Ex marciatore. Medaglia d’oro della 50 km alle Olimpiadi di Tokyo (1964): «A un certo punto ho temuto il peggio, erano sopravvenuti dolori al basso ventre e dovevo andare al bagno». Bronzo a quelle di Roma (1960). Sulla stessa distanza fu campione d’Europa nel 1962 e 1966.
• «Una carriera ultraventennale sulle strade del mondo, dodicimila chilometri l’anno in piena attività, passo dopo passo, il giro dell’Equatore doppiato cinque, sei volte» (Il Tempo).
• «Aveva 14 anni, Abdon, quando con il fratello maggiore Giovanni decise di mettersi in cammino per raggiungere papà Giovanni che era andato in cerca di lavoro a Milano. Fiume era diventata terra inospitale per gli italiani: il 27 settembre 1947 iniziò una gara per la vita che si concluse due mesi più tardi, in un campo profughi di Novara, passando per Udine, Milano, camminate notturne, treni merci presi al volo, l’aiuto di una famiglia triestina che riuscì a fargli passare il confine spacciandolo per proprio figlio. Il ricordo è lucido: “Fu quella la gara più importante di tutte quelle che avrei affrontato dopo, al termine vinsi la medaglia della vita” (…). Due lauree in sociologia e psicologia, dirigente della Esso, mai un soldo avuto in dote dall’atletica, ma non nominategli la parola sacrificio abbinata allo sport, potrebbe arrabbiarsi» (Valerio Vecchiarelli) [CdS 18/10/2013].
• «Nel 1950, Genova atletica accolse il diciassettenne Abdon, mentore e tecnico l’ex marciatore Giuseppe Malaspina. Nel 1954, prima presenza, settimo a Berna sui 50 chilometri» (Il Tempo, cit.).
• «“Con le persone mi trovavo più a mio agio quando ero in mutande…». La marcia sembrava nel suo destino da sempre, ritagliata apposta per lui, lunghe camminate solitarie, ma in realtà ci arrivò quasi per caso. Scoppiava di energia, da ragazzo, fiero rappresentante di quella razza multietnica istriana che ha dato all’Italia campioni da leggenda; disputò le campestri, giocò a calcio e pareva promettente, lo volevano portiere, ma stare immobile fra i pali era una tortura. Gli chiesero di fare una gara di marcia, per curiosità accettò anche se alla sua giovane età aveva visto soltanto un filmato di una 100 km. Fu la sua vita. “Due vite parallele se vogliamo, perché non smisi mai di lavorare, funzionario Esso, viaggiavo di notte e mi allenavo di giorno”. Ritorni economici? “Cambiamo domanda, per favore. Mi promisero 50 mila lire, a un certo punto. Non le ho mai viste… Però ho fatto a tempo a prendere due lauree, psicologia e sociologia, e ho vissuto come più mi piaceva”» (a La Stampa).
• Il suo ricordo più bello è legato «alla Praga-Podebrady che a quel tempo era una specie di campionato del mondo della 50 km». Ottantenne, faceva ancora «Tre, quatto uscite alla settimana. Marciando o pedalando le razioni vanno dai 10 ai 60 chilometri» senza preoccuparsi del traffico di Roma (Il Fatto Quotidiano).
• «Il risultato ha rappresentato per me un punto di partenza e non di arrivo. Questa la filosofia che fin dall’inizio ha guidato la mia carriera agonistica. Finita una gara, pensavo già alla successiva, e tanto peggiore era l’esito tanto più attendevo con impazienza la possibilità di mettermi alla prova, unico avversario da battere, me stesso, perché innalzare i propri limiti è molto più importante che vincere» (Il Tempo, cit.).
• Due figli (Il Tempo, cit.), a 80 anni pesava ancora 73 chili per 1,74 metri di altezza (La Stampa).