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 2013  agosto 28 Mercoledì calendario

Biografia di Mike Tyson

New York (Stati Uniti) 30 giugno 1966. Ex pugile. Esordì nel professionismo nel marzo 1985. Fu campione mondiale dei massimi dal 22 novembre 1986 (kot alla seconda ripresa contro Trevor Berbick, a Las Vegas) al 10 febbraio 1990 (sconfitto per ko alla decima ripresa da Buster Douglas, a Tokyo), di nuovo dal 16 marzo 1996 (vittoria per Kot alla terza ripresa contro Frank Bruno, a Las Vegas) fino al 9 novembre dello stesso anno (sconfitto da Evander Holyfield per kot all’undicesima ripresa, a Las Vegas). Squalificato nella rivincita contro Holyfield il 28 giugno 1997 (a Las Vegas, durante la quarta riprese con un morso gli staccò un pezzo d’orecchio), si batté di nuovo per il titolo l’8 giugno 2002, a Memphis, sconfitto da Lennox Lewis per Ko all’ottava ripresa

• «Il cannibale Tyson. Quello che rompe, spezza, addenta. Quello che una volta ci riusciva. Tu non colpivi, tu volevi far male: ”Ti spingo dentro il naso fino a farti uscire il cervello”. Violenza biologica, non politica. Non eri Hurricane Carter, non eri Ali. Non combattevi l’uomo bianco. Eri un corpo che cerca una via d’uscita dal ghetto e da se stesso. Eri sbagliato, Mike. Da far paura. Dentro il riformatorio, fuori dalla vita. A 13 anni eri già stato arrestato 38 volte. Ma sul ring eri quasi giusto, puro, senza pietà. La parte di Babbo Natale la lasciavi agli altri. Campione dei massimi, ad appena vent’anni. In 5 minuti e 35 secondi. La fretta di chi si sbarazza del dolore di essere uomini. Marvis Frazier fatto fuori in 30 secondi, Lou Savarese in 86, Michael Spinks in 91. Eri affamato, mangiavi tutto, anche orecchie. Braccavi, da animale. Era quella la tua sensualità, non fare accordi con l’istinto. Lo confermò Naomi Campbell presa velocemente in tassì a New York. Lo capì la scrittrice americana Joyce Carol Oates che venne a vedere i tuoi incontri: non era boxe quella, ma erezione da foresta. Ai tuoi match capitava di tutto: arrestarono chi pagava il biglietto per fare sesso mentre tu cercavi di uccidere. Sangue e arena, lo spettacolo più vecchio del mondo. C’era eccitazione, nelle narici, come un fiato nell’orecchio. La gente litigava, picchiava, sparava. Vedevi Tyson, e capivi: la vita è anche quello che afferri quando qualcuno ti dice no. Violenza, sequestro, rapina. Mai prendere precauzioni, sempre sporgersi dalla balaustra. L’estetica del male affascinava, dalla depressione del dolore si esce con l’oscenità. A Las Vegas nel ”96 il rapper Tupac Amaru Shakur, re delle gang, ti aveva appena visto liquidare Seldon in 109 secondi quando nel corridoio dell’Mgm attaccò un uomo che tre ore dopo ad un semaforo con un fucile a pompa lo ammazzò con quattro proiettili. Tupac aveva scritto: ”Don’t shead a tear for me, nigga. I ain’t happy here”. Non sprecare lacrime per me, negro. Non sono felice qui. Tyson con i pugni urlava la stessa infelicità di Tupac. Eri il cattivo, the bad guy, il campione della cattiva strada. Molto prima che andassero di moda certi film e canzoni. Prima di Tarantino, di Eminem, di 50Cents che ora si è preso la tua villa in Connecticut. Eri un toro scatenato, senza regia. Sulla tua unica pagella avevano scritto: ritardato mentale. Eri Lenny, un personaggio da Steinbeck, pieno di furore, da Uomini e Topi. Nessuno riusciva a essere sciagurato come te: ad abbassarsi i pantaloni davanti agli avversari, per far vedere quello che avevi dentro, gesto rifatto davanti alle prostitute di Parco Lambro a Milano, e davanti ad altre donne in notti sbagliate. L’America gioisce a mettere dentro tutti quelli che sono fuori. E a decidere sul tuo pentimento, dopo il morso a Holyfield e un anno di squalifica, mandò un veterinario, un dottore, un proprietario di otto McDonald’s, e due direttori di Casino. Si capisce, una giuria esperta di cannibalismo e frustrazione» [Emanuela Audisio, la Repubblica 13/6/2005].

• «Combattere per salire in cima. Per togliersi la puzza della strada dalle narici. Per urlare: vi ho fregato tutti, sono il re, solo io. In realtà, lui è stato solo in basso, in cella. Lassù in cima aveva una corte dei miracoli che gli girava intorno, nascondendogli la vista, l’orizzonte. Quello della sua frontiera non esiste più. Tutto è cambiato da quando guardava il sogno dalle strade di Brooklyn, dove è nato. Solo la sua passione per i piccioni è rimasta integra, uguale a quella di una volta. Allora li teneva in terrazza, ora li fa svolazzare in casa. Due stanze e cucina. Non più una reggia da star, dove passeggiava, prigioniera, una tigre siberiana. Chissà, forse nei piccoli voli domestici dei piccioni ci vede se stesso. Un personaggio da Lenny in Uomini e Topi di Steinbeck. Pronto a mangiare dalla mano di altri, a raccattare avanzi, a staccare orecchie a morsi, a masticarle, a sputarle. Lui che divenne il più giovane rapace del ring. Campione dei massimi, ad appena vent’anni. In 5 minuti e 35 secondi. Lui, l’affamato. Di tutto. Pugni, sesso, disperazione. Pantaloncini neri, scarpe nere, senza calzini. Come se ogni volta dovesse essere un funerale, un’esecuzione. Fece fuori Marvis Frazier in 30 secondi e Michael Spinks in 91. Lui, il ragazzino disadattato che non aveva esperienza. Quello con un padre subito in fuga, con una madre vera che moriva presto e un patrigno vero che se ne andò anche lui per malattia. Lui, che appena arrivato a Milano fece fermare la macchina per abbassarsi i pantaloni e intrattenersi con le prostitute di Parco Lambro. Lui, piccolo, nero, e sbagliato. Con l’ossessione di Sonny Liston, sepolto a Las Vegas. Lui andava sulla sua tomba e gli parlava. Sonny sì che l’avrebbe capito, Sonny che a tavola non sapeva usare le posate, Sonny cresciuto a botte e senza scarpe. Si nasce, si resuscita. Lo sport consente miracoli. È stato dentro, tre anni e mezzo, per stupro. È stato fermo, per cannibalismo da ring. À ritornato dentro, per aggressione. È tornato fuori, per riprovarci. Per riprendersi il titolo. Ci è riuscito. Ma la grandezza quella no, quella non l’ha ripresa, è scivolata via. Sono rimasti gli spiccioli, le farse. E le punizioni vere: da Buster Douglas nel ’90, da Evander Holyfield nel ’96 e ’97, da Lennox Lewis nel 2002. E la sensazione amara di come sia facile dissipare pugni, violenza, bestialità, talento. Tyson regalava Bentley, Jaguar, Porsche. Tanto lui alla guida era una frana, tanto a lui del lusso non fregava niente, come a tutti quelli che l’accumulano. 19 macchine, 300 paia di scarpe, più di 300 miliardi di lire in banca. La residenza a Las Vegas: sette camere da letto, tre stanze per gli abiti, una per le scarpe, quattro garage, cantina, piscina, palestra, campo da tennis, due villette per gli ospiti, giardino con palme e tigre. E lui che per sentirsi bene doveva andare al cimitero, a piangere da Sonny. Lui, l’uomo più cattivo del pianeta» [Emanuela Audisio, la Repubblica 1/8/2004].

• Nel 2003 ha dichiarato bancarotta: «Nel melodramma trash dell’uomo nero che divora se stesso, dopo i trionfi, lo stupro, il carcere, i morsi, le donne, i ko, le truffe, il libretto ci porta alla scena inevitabile, la rovina finanziaria. Mike Tyson è al verde. “Iron Mike”, l’uomo di ferro con il cuore di marmellata, si è rifugiato nel luogo dal quale per tutta la vita ha cercato di sfuggire, in tribunale, per chiedere a New York la protezione legale contro i creditori. Deve soldi a tutti, 7 milioni alla seconda moglie divorziata, Monica, 30 al network Showtime con la quale ha un contratto, 24 milioni al fisco, milioni incalcolati agli avvocati che devono difenderlo anche dall’ultimo processo per violenza aggravata in un bar di Brooklyn. E lui non ha più centesimo. Dei 300 milioni di dollari (teoricamente) guadagnati nei suoi 37 anni di vita, non è rimasto più nulla. Il destino di questa Traviata da ring, ormai senza più speranze di acuti o redenzione, si compie, con regolarità. uno spartito che si canta e si suona ogni giorno, in una boxe che ormai il pubblico non prende sul serio come sport e che per sopravvivere ha bisogno di puro spettacolo, meglio se horror. E la rovina finanziaria del pugile che divenne il più giovane campione mondiale dei massimi a 20 anni, che per mettere a dormire Leon Spinks in 91 secondi incassò una borsa di 20 milioni di dollari nel 1988, allora il record storico di paghetta in ogni sport, era scontata, come l’addio alla vita delle eroine consumate dalla tisi. Bruciare 300 milioni di dollari in 18 anni, la durata della sua carriera di “prize fighter” di pugile a pagamento, è un’impresa sovrumana. Ma senza questa dimensione ”più grande della vita”, senza la certezza della tragedia per quel relitto dei ghetti neri che a 10 anni già faceva parte di una gang chiamata “The Jolly Stompers”, i gioviali pestoni, Mike non li avrebbe mai guadagnati. Almeno sulla carta, perché la metà almeno sono finiti nelle tasche dei papponi, dei promoters come Don King (querelato da lui per 100 milioni di dollari spariti) che lo hanno succhiato come quelle donne, “tutte troie, cagne e stronze” (lo disse a Sports Illustrated) che lo hanno sposato, allietato o distrutto, come quella Miss America Nera, Desirèe Washington che andò nella sua camera d’albergo alle 3 del mattino per uscirne, secondo la sentenza di condanna a dieci anni di carcere, violentata. Non avrebbe guadagnato 300 milioni se non fosse stato colui che mozzò un orecchio a Evander Holyfield sul ring, e poi un polpaccio a Lennox Lewis in conferenza stampa. Non sarebbe un eroe della pulp che oggi passa per sport, se non avesse detto che “io non ho mai violentato quella Desirèe, ma se la incontrassi oggi la violenterei”. Non sarebbe oggi in tutti i tg e le pagine dei quotidiani americani, se non fosse il Tyson che a Maui nella Hawaii, dove si stava preparando per Lewis, si fece trovare con una biografia di Machiavelli sotto il braccio (“Mi sembra un cretino, questo Maciavelli, ma non un cretino completo”) e disse a una giovane inviata della Cnn, ”Io do interviste soltanto a donne che me la danno”. Nessuno, che non sia un tenore del nuovo melodramma trash risponde così. E nessuno che non sia uno che ha capito l’insensatezza del mondo che lo paga e lo rovina, spenderebbe quello che Iron Mike ha speso in questi anni. Quando Mohammed Khan, uno scrupoloso ragioniere musulmano, come lui disse di essere diventato in carcere, tentò di mettere ordine nei suoi conti, il brav’uomo non credette all’elenco di spese che lui stesso stava contabilizzando e che ora fanno parte del faldone di documenti presentati al giudice di New York. Soltanto nei 33 mesi - meno di tre anni - del suo ritorno alla boxe dopo il ko subito a Tokyo nel 1990 da un innominabile brocco chiamato Buster Douglas, Tyson spese: 4 milioni e 477 mila dollari in automobili; 94 mila dollari al mese in abbigliamento; 410 mila dollari per il party del suo 30esimo compleanno nella casa di Las Vegas, dove teneva anche un leone; 411 mila dollari in acquisti di piccioni viaggiatori, la sua passione e gatti; 309 mila 133 dollari per giardinaggio; 236 mila e 184 per spese in contanti non specificate. E 32 milioni di dollari in tasse. Ora, la bankruptcy, la resa ai creditori e la richiesta di asilo finanziario ai tribunali di New York». [Vittorio Zucconi, la Repubblica 4/8/2003]

(a cura di Massimo Parrini)