Sette, venerdì 3 maggio 2013, 22 agosto 2013
Tags : Franco Califano
Califano, il cantante italiano con la faccia da attore internazionale
Sette, venerdì 3 maggio 2013
Bello e dannato, bugiardo e incantatore, poeta e gran mondano, cialtrone e gentiluomo. Gli aggettivi per il Califfo si sprecano. Basta già il soprannome, per dare un’idea: «Viene dal bar della gioventù. A me mi chiamavano Califfo un po’ per il cognome che assomigliava, un po’ perché c’avevo tutte le bambine del quartiere innamorate. Col tempo e col successo, Califfo si è trasformato in Maestro: adesso mi chiamano tutti così. E io lo gradisco molto». In poche righe c’è tutto Franco Califano, come si è raccontato nel docufilm di Stefano Veneruso, Noi di settembre, presentato al Festival di Roma del 2011 e mai uscito nei cinema né in tv. A poco più di un mese dalla scomparsa del cantautore, pubblichiamo in queste pagine una selezione di inediti dalla lunga intervista che Califano ha concesso per il film, parlando senza sosta della sua vita, dei suoi processi, del carcere, delle donne e della dolce vita. A ruota libera e alla sua maniera. Da una poltrona della sua casa di Acilia (dove è morto il 30 aprile scorso) o a spasso per le strade di Roma. Con divertimento o con toni accorati. A volte deragliando dal politically correct, altre shakerando date e avvenimenti secondo i percorsi della sua (molto) personale memoria. L.B.
PAPÀ FA RIMA CON LIBERTÀ. Io ho un rimpianto, uno solo, quello di non aver avuto sufficientemente a lungo mio padre, al quale mi sono aggrappato in maniera incredibile. Io ho amato mio padre, da non riuscire ad amare più, forse. Mio padre per me era tutto e mi è mancato molto presto: lui aveva 40 anni, io 18.
La libertà è diventare grande in un tempo piccolo... La libertà per me è la solitudine. Perché se tu cerchi di vivere facendo quello che vuoi e fregandotene di tutti, inevitabilmente cerchi anche la solitudine, che sta nella stessa libertà.
LA PRIMA CELLA NON SI SCORDA MAI. Io, il primo giorno di carcere, non l’ho accusato tanto. Mi sono guardato intorno in quelle quattro mura e mi son detto: «In fondo le manette non me le hanno messe al cervello». La prima volta che venni coinvolto fu con Walter Chiari. Fu il primo processo basato sulle intercettazioni. Avevo ordinato al telefono cinque orologi: facile pensare a cinque dosi. All’epoca ero il produttore dei Ricchi e Poveri e volevo fare lo stesso regalo a tutti e cinque. Ordinai gli orologi però poi non li ritirai, c’è anche la telefonata in cui si diceva: «Guarda, il Maestro non viene più a prendere quei cinque orologi». È la cosa che mi incastrò: «Mandato di cattura, per aver tentato di acquistare un imprecisato quantitativo di droga e non esserci riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà...». Mi feci un anno, poi fui scarcerato perché il fatto non sussiste. Ditemi voi se è possibile. Oggi qualcuno si lamenta perché probabilmente nella magistratura c’è qualcosa che non va, ma era così anche allora. Mi ricordo che il mio avvocato mi disse: «Franco tu sei caduto in un ingranaggio dal quale è difficile uscire, perché quando sei usato per questi problemi, vuol dire che ti hanno scelto come persona colpevole credibile e quando succederà qualche cosa di strano sarai sempre chiamato».
ERRORE GIUDIZIARIO BIS. Dieci anni dopo il processo Tortora. La faccenda era un po’ più seria, sempre di carcere si trattava, ma c’erano quattrocento imputati, quattrocento pentiti. Il mio pentito si chiamava Melluso ed era usato contro di me dalla magistratura che gli suggeriva quello che doveva dire per ottenere un forte sconto di pena. Questo Melluso io non l’avevo mai visto né conosciuto. Lui invece sosteneva che una volta mi aveva portato un chilo di cocaina in una casa che non esisteva, poi un altro chilo nel sottoscala di un locale notturno e poi ancora un’altra volta non mi ricordo dove. Il giudice va in questi tre posti a vedere se così è, e ne trovò uno solo, una casa dove io però non ero mai stato. Avrei dovuto essere prosciolto in istruttoria, rilasciato. Invece, fecero un mandato di cattura a mio nome accusandomi di spaccio internazionale. Insomma, mi dettero il 416 bis che è un articolo pesantissimo, che hanno solo camorristi e mafiosi. E fuori dalla mia cella c’era scritto “416 bis”, che vuol dire detenuto pericoloso.
Stavo in una cella con quattro individui. dopo un po’ mi sono sentito prigioniero di quei quattro, perché mi facevano domande, perché non ero libero con la testa. E allora ho chiesto la cella singola, sono andato a stare da solo e lì mi sono sentito libero. Succedono tante cose in carcere, ci sono anche tanti momenti abbastanza toccanti, commoventi. Qualche volta lo si può anche rimpiangere quando si sta fuori. C’è molto peggio del carcere. Mi ricordo il collegio...
LA MIA VOCE: UN RUMORE. Avere successo significa averlo in fabbrica, averlo al ministero, averlo in campo artistico. Il successo è il raggiungimento di un traguardo che ti sei prefissato. Un traguardo importante, forse il più importante della vita. La prima canzone che ho scritto è Da molto lontano (composta 50 anni fa con Edoardo Vianello, ndr), poi c’è stata E la chiamano estate, con Bruno Martino, poi La musica è finita, che ho scritto per Ornella Vanoni. Ai tempi in cui io facevo l’autore i cantanti erano tutti cantanti “di voce”: Ranieri, Morandi, Albano... Quindi uno che cantava come me, era un improbabile rumore. Era rumore, la mia voce. Io lo sapevo e aspettavo. E intanto mi studiavo il pubblico. Adesso le canzoni se le vogliono fare da soli e succede... non succede proprio niente. Perché l’autore deve fare l’autore e il cantante deve fare il cantante e basta. A ognuno il suo mestiere. Invece oggi i presuntuosi fanno tutto da soli e – come si dice – rimangono al palo.
MI HA VOLUTO HOLLYWOOD. Io vi dico le cose come stanno, poi se volete crederci, fate voi. Non mi sto facendo i complimenti. Da Hollywood arrivò una lettera della Paramount o non mi ricordo da chi altro, che diceva che di tutte le foto italiane che avevano ricevuto, l’unica faccia internazionale ce l’avevo io. E che quindi, erano disposti a farmi un contratto di sei film, con produzioni italo-americane e attori americani. Il primo film si chiamava Gardenia, e lavorai con due grandi attori americani, però poi il film non uscì, perché una settimana prima ci fu l’arresto (le date in realtà non coincidono: il film è del ’79, l’arresto dell’83, ndr). Il secondo film lo dovevo fare con Jean Paul Belmondo: la storia di due fratelli, un delinquente, io, e un pubblico ministero, lui. Era quasi pronto. Ma è arrivato il secondo mandato di cattura. E lì la casa di produzione chiese indietro tutti i contratti. Io questo fatto qua non lo ricordo, non mi piace ricordarlo, perché mi ha fatto troppo male.
LE DONNE E IL PECCATORE. La femminilità è quella cosa che traspare da una donna, in senso positivo. È come avere una marcia in più. La femminilità insomma è tutto, in una donna. E quando una donna la sa esprimere bene, non ci sono troppe parole. Parlando troppo si va a finire in vicoli ciechi.
Le ragazze che sono pronte a fare di tutto per il successo, quello che si legge sui giornali, sono ragazze come ci sono sempre state e hanno sempre fatto di tutto per arrivare al successo. Le mignotte ci sono sempre state, le marchette ci sono sempre state, le case di appuntamento ci sono sempre state. Io non ne penso né bene né male, ognuno fa quello che vuole. Il peccato è quello che non si dovrebbe fare. Non si dovrebbe fare, ma si fa spesso. È mancanza di rispetto delle leggi, delle regole. Il peccato... beh, io sono pieno di peccati.
PLAYBOY ANNI OTTANTA. All’84 (il famoso night club romano dietro via Veneto, ndr) c’era la dolce vita. Quella di cui si è parlato tanto, a volte anche in maniera così disordinata. Mentre invece è stata una cosa molto seria. Allora ci si divertiva veramente tanto.Allora era bello uscire, perché ti preparavi tutto il giorno, incontravi amici, colleghi e quelli che si diceva fossero i playboy, Gigi Rizzi, Piacentini, Piroddi, Rapetti. Nomi che non mi dimentico. Erano allegri e facevano la serata. Dove c’erano loro la gente correva. Poi, la Roma notturna piano piano si è spenta, perché cambiavano i tempi, le mode. Cambiava un po’ tutto, cominciava la parabola discendente. Passò di moda l’epoca, il periodo e tutti quanti noi incominciammo a non divertirci più.
a cura di Laura Ballio
Bello e dannato, bugiardo e incantatore, poeta e gran mondano, cialtrone e gentiluomo. Gli aggettivi per il Califfo si sprecano. Basta già il soprannome, per dare un’idea: «Viene dal bar della gioventù. A me mi chiamavano Califfo un po’ per il cognome che assomigliava, un po’ perché c’avevo tutte le bambine del quartiere innamorate. Col tempo e col successo, Califfo si è trasformato in Maestro: adesso mi chiamano tutti così. E io lo gradisco molto». In poche righe c’è tutto Franco Califano, come si è raccontato nel docufilm di Stefano Veneruso, Noi di settembre, presentato al Festival di Roma del 2011 e mai uscito nei cinema né in tv. A poco più di un mese dalla scomparsa del cantautore, pubblichiamo in queste pagine una selezione di inediti dalla lunga intervista che Califano ha concesso per il film, parlando senza sosta della sua vita, dei suoi processi, del carcere, delle donne e della dolce vita. A ruota libera e alla sua maniera. Da una poltrona della sua casa di Acilia (dove è morto il 30 aprile scorso) o a spasso per le strade di Roma. Con divertimento o con toni accorati. A volte deragliando dal politically correct, altre shakerando date e avvenimenti secondo i percorsi della sua (molto) personale memoria. L.B.
PAPÀ FA RIMA CON LIBERTÀ. Io ho un rimpianto, uno solo, quello di non aver avuto sufficientemente a lungo mio padre, al quale mi sono aggrappato in maniera incredibile. Io ho amato mio padre, da non riuscire ad amare più, forse. Mio padre per me era tutto e mi è mancato molto presto: lui aveva 40 anni, io 18.
La libertà è diventare grande in un tempo piccolo... La libertà per me è la solitudine. Perché se tu cerchi di vivere facendo quello che vuoi e fregandotene di tutti, inevitabilmente cerchi anche la solitudine, che sta nella stessa libertà.
LA PRIMA CELLA NON SI SCORDA MAI. Io, il primo giorno di carcere, non l’ho accusato tanto. Mi sono guardato intorno in quelle quattro mura e mi son detto: «In fondo le manette non me le hanno messe al cervello». La prima volta che venni coinvolto fu con Walter Chiari. Fu il primo processo basato sulle intercettazioni. Avevo ordinato al telefono cinque orologi: facile pensare a cinque dosi. All’epoca ero il produttore dei Ricchi e Poveri e volevo fare lo stesso regalo a tutti e cinque. Ordinai gli orologi però poi non li ritirai, c’è anche la telefonata in cui si diceva: «Guarda, il Maestro non viene più a prendere quei cinque orologi». È la cosa che mi incastrò: «Mandato di cattura, per aver tentato di acquistare un imprecisato quantitativo di droga e non esserci riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà...». Mi feci un anno, poi fui scarcerato perché il fatto non sussiste. Ditemi voi se è possibile. Oggi qualcuno si lamenta perché probabilmente nella magistratura c’è qualcosa che non va, ma era così anche allora. Mi ricordo che il mio avvocato mi disse: «Franco tu sei caduto in un ingranaggio dal quale è difficile uscire, perché quando sei usato per questi problemi, vuol dire che ti hanno scelto come persona colpevole credibile e quando succederà qualche cosa di strano sarai sempre chiamato».
ERRORE GIUDIZIARIO BIS. Dieci anni dopo il processo Tortora. La faccenda era un po’ più seria, sempre di carcere si trattava, ma c’erano quattrocento imputati, quattrocento pentiti. Il mio pentito si chiamava Melluso ed era usato contro di me dalla magistratura che gli suggeriva quello che doveva dire per ottenere un forte sconto di pena. Questo Melluso io non l’avevo mai visto né conosciuto. Lui invece sosteneva che una volta mi aveva portato un chilo di cocaina in una casa che non esisteva, poi un altro chilo nel sottoscala di un locale notturno e poi ancora un’altra volta non mi ricordo dove. Il giudice va in questi tre posti a vedere se così è, e ne trovò uno solo, una casa dove io però non ero mai stato. Avrei dovuto essere prosciolto in istruttoria, rilasciato. Invece, fecero un mandato di cattura a mio nome accusandomi di spaccio internazionale. Insomma, mi dettero il 416 bis che è un articolo pesantissimo, che hanno solo camorristi e mafiosi. E fuori dalla mia cella c’era scritto “416 bis”, che vuol dire detenuto pericoloso.
Stavo in una cella con quattro individui. dopo un po’ mi sono sentito prigioniero di quei quattro, perché mi facevano domande, perché non ero libero con la testa. E allora ho chiesto la cella singola, sono andato a stare da solo e lì mi sono sentito libero. Succedono tante cose in carcere, ci sono anche tanti momenti abbastanza toccanti, commoventi. Qualche volta lo si può anche rimpiangere quando si sta fuori. C’è molto peggio del carcere. Mi ricordo il collegio...
LA MIA VOCE: UN RUMORE. Avere successo significa averlo in fabbrica, averlo al ministero, averlo in campo artistico. Il successo è il raggiungimento di un traguardo che ti sei prefissato. Un traguardo importante, forse il più importante della vita. La prima canzone che ho scritto è Da molto lontano (composta 50 anni fa con Edoardo Vianello, ndr), poi c’è stata E la chiamano estate, con Bruno Martino, poi La musica è finita, che ho scritto per Ornella Vanoni. Ai tempi in cui io facevo l’autore i cantanti erano tutti cantanti “di voce”: Ranieri, Morandi, Albano... Quindi uno che cantava come me, era un improbabile rumore. Era rumore, la mia voce. Io lo sapevo e aspettavo. E intanto mi studiavo il pubblico. Adesso le canzoni se le vogliono fare da soli e succede... non succede proprio niente. Perché l’autore deve fare l’autore e il cantante deve fare il cantante e basta. A ognuno il suo mestiere. Invece oggi i presuntuosi fanno tutto da soli e – come si dice – rimangono al palo.
MI HA VOLUTO HOLLYWOOD. Io vi dico le cose come stanno, poi se volete crederci, fate voi. Non mi sto facendo i complimenti. Da Hollywood arrivò una lettera della Paramount o non mi ricordo da chi altro, che diceva che di tutte le foto italiane che avevano ricevuto, l’unica faccia internazionale ce l’avevo io. E che quindi, erano disposti a farmi un contratto di sei film, con produzioni italo-americane e attori americani. Il primo film si chiamava Gardenia, e lavorai con due grandi attori americani, però poi il film non uscì, perché una settimana prima ci fu l’arresto (le date in realtà non coincidono: il film è del ’79, l’arresto dell’83, ndr). Il secondo film lo dovevo fare con Jean Paul Belmondo: la storia di due fratelli, un delinquente, io, e un pubblico ministero, lui. Era quasi pronto. Ma è arrivato il secondo mandato di cattura. E lì la casa di produzione chiese indietro tutti i contratti. Io questo fatto qua non lo ricordo, non mi piace ricordarlo, perché mi ha fatto troppo male.
LE DONNE E IL PECCATORE. La femminilità è quella cosa che traspare da una donna, in senso positivo. È come avere una marcia in più. La femminilità insomma è tutto, in una donna. E quando una donna la sa esprimere bene, non ci sono troppe parole. Parlando troppo si va a finire in vicoli ciechi.
Le ragazze che sono pronte a fare di tutto per il successo, quello che si legge sui giornali, sono ragazze come ci sono sempre state e hanno sempre fatto di tutto per arrivare al successo. Le mignotte ci sono sempre state, le marchette ci sono sempre state, le case di appuntamento ci sono sempre state. Io non ne penso né bene né male, ognuno fa quello che vuole. Il peccato è quello che non si dovrebbe fare. Non si dovrebbe fare, ma si fa spesso. È mancanza di rispetto delle leggi, delle regole. Il peccato... beh, io sono pieno di peccati.
PLAYBOY ANNI OTTANTA. All’84 (il famoso night club romano dietro via Veneto, ndr) c’era la dolce vita. Quella di cui si è parlato tanto, a volte anche in maniera così disordinata. Mentre invece è stata una cosa molto seria. Allora ci si divertiva veramente tanto.Allora era bello uscire, perché ti preparavi tutto il giorno, incontravi amici, colleghi e quelli che si diceva fossero i playboy, Gigi Rizzi, Piacentini, Piroddi, Rapetti. Nomi che non mi dimentico. Erano allegri e facevano la serata. Dove c’erano loro la gente correva. Poi, la Roma notturna piano piano si è spenta, perché cambiavano i tempi, le mode. Cambiava un po’ tutto, cominciava la parabola discendente. Passò di moda l’epoca, il periodo e tutti quanti noi incominciammo a non divertirci più.
a cura di Laura Ballio
Laura Ballio