L’Europeo, giovedì 13 marzo 1969, 22 agosto 2013
Tags : Fabrizio De André
Intervista a De André (articolo del 13/3/1969)
L’Europeo, giovedì 13 marzo 1969
Il signor Fabrizio De André, genovese, ventotto anni, benestante, un po’ poeta, è da due anni in testa alla classifica dei dischi long playing più venduti in Italia. Ne vende più lui di Mina, di Celentano, di Morandi, dei Beatles, di Barbara, di Brassens, e non lo sa nessuno. Scrive e canta canzoni difficili, irripetibili, letterarie, piene di parole ottocentesche. Il suo nome non è affatto popolare; tuttavia, qualsiasi cosa De André proponga, qualsiasi parolaccia o parolona sia contenuta nei suoi versi, non ci sono dubbi: il disco a 33 giri, lungo e costoso, arriverà certamente a 50 mila copie: il massimo che il mercato italiano sinora riesca a ingoiare. L’ultima cantata di Fabrizio De André (cantata in si minore per solo, coro e orchestra) dura quaranta minuti: parla di drogati, di paura, di impiccati, di cimiteri e s’impenna, nel finale, in un recitativo che è un’invocazione alla pietà. Da Francois Villon a Pascoli, c’è di tutto: come un’indigestione di poesia. Il solo passo orecchiabile del disco è un intermezzo ossessivo che dice cose belle ma incomprensibili come: «Sopra le tombe di altri mondi nascono fiori che non so. Ma fra i capelli d’altri amori muoiono fiori che non ho». Be’, il disco è già un best seller: e lo è tra le ragazzine, gli studenti, i professori di scuola media. Dicono che “fa piangere”.
Adesso, con Fabrizio De André, cerchiamo di capire il mistero per cui l’Italia, quasi senza accorgersene, ha creato un personaggio destinato a una popolarità sicura, essendogli grata di farla piangere con i versi e la musica più difficili che mai abbia avuto la canzone italiana. Ha moglie, un figlio, una casa borghese piena di «cose vecchie, non antiche». È figlio dell’amministratore delegato di uno degli imperi industriali più potenti d’Europa. Nasce da una famiglia «peggio che borghese, addirittura mezza nobile con infiltrazioni sabaude». Guadagna, coi dischi e tutto, non più di mezzo milione al mese. «Il fatto è», mi dice, «che perdo un sacco di soldi in cose che non faccio né voglio fare. Niente festival, niente serate. La mia quotazione è, oggi, di 500 mila lire per ogni serata in pubblico: le ultime offerte sono di un milione. Io rifiuto.»
Rifiuta, aggiunge, perché ha paura del pubblico e perché ritiene che quando un cantante si esibisce con una chitarra davanti a una folla debba, in qualche modo, “fare spettacolo”. Lui non sa fare spettacolo: «Sto lì impalato e spaurito». Ma la verità più vera è un’altra: «Io ci ho messo più di dieci anni ad avere successo, e l’ho avuto in maniera clandestina. Le mie canzoni sono passate di amico in amico, di bocca in bocca. I miei primi dischi si vendevano quasi sottobanco. Quel poco di campagna pubblicitaria che qualcuno ha voluto fare su di me, anni fa, è stato un disastro: una volta mi hanno sbalestrato in tv per Quindici minuti con... in mezzo ad archi di cartone e lampade liberty. Mi faceva schifo. Tant’è vero che non è servito a niente di niente.
Ha funzionato, invece, da un paio d’anni a questa parte questa mia fama di cantautore clandestino, di cantautore scoperto nei fondi di magazzino di qualche negozio di dischi e consigliato agli amici come una “finezza”. Finezza un corno, poi: perché le mie prime canzoni, come quelle del ’60, diventate celebri soltanto oggi, erano più un divertimento goliardico zeppo d’irriverenze che altro. Insomma, io ancora oggi non so se son diventato famoso perché per primo ho cantato la parola “puttana”, perché ho un bel tono di voce o perché, avendo un po’ di tutto questo e qualche dote, sono rimasto a lungo nella clandestinità. Due anni fa, all’improvviso, senza una ragione, che io sappia, i miei dischi sono balzati in testa alle classifiche. Ho cambiato casa discografica e tra i patti concertati a tavolino abbiamo inserito questo: niente pubblicità per Fabrizio De André, lasciamolo nell’ombra e sarà il miglior modo per venderlo, per costringer la gente a cercarlo. Ieri, proprio ieri, vado dal mio editore a dirgli che ho rifiutato due trasmissioni televisive. Un altro cantante l’avrebbero scannato. A me hanno detto: bravo, è giusto».
Quindi, Fabrizio, il suo riserbo, i suoi grandi rifiuti non c’entrano molto con il suo disprezzo per la canzone corrente. Sono un mezzo come un altro per...
«Un compromesso, certo. Io sono un onesto a metà, o un truffatore a metà. Come preferisce. Se fossi onesto del tutto, non accetterei di mettere il mio faccione spettinato, in posa da poeta maledetto, sulla copertina di un long playing. Se fossi un truffatore del tutto, sarei andato a Sanremo con la canzone che mi avessero imposta. Se fossi un poeta vero scriverei poesie, se non fossi poeta affatto non scriverei niente. Sono quindi un venduto, come gli altri ma, ancora una volta, lo sono a metà. Ripeto: non conosco bene i motivi per cui le mie canzoni piacciono. Ora voglio fare un esperimento, prendere delle vecchie canzoni come ‘O sole mio, e inciderle: se vanno, vuol dire che la gente compra solo la mia voce. Se non vanno, vuol dire che compra le mie canzoni con tutto il pasticcio letterario che e’è dentro. Ma se scoprissi che la gente compra solo la mia voce continuerei a cantare vecchie canzoni, cose autentiche, testi di Di Giacomo o di D’Annunzio, e non la venderei mai, questa voce, per cantare Zingara».
Ce l’ha con Bobby Solo?
«Per niente. Non è nemmeno stupido, Bobby Solo, anzi. Però è in mano ai discografici. I discografici, gli editori, hanno capito che Fabrizio De André piace al suo pubblico per quel che è, per le stramberie che presenta. E gliele lasciano fare. Me le lasciano fare, queste canzoni, non perché siano belle o brutte, ma perché sono legate a un personaggio, e questo personaggio, Dio sa come, sono io. Provi un altro, uno qualsiasi, uno sconosciuto a presentarsi a un editore con testi e musiche di canzoni come le mie: lo sbatterebbero fuori a calci. Lo piglierebbero per matto».
Lei, Fabrizio, ci crede davvero al livello intellettuale, culturale, letterario, poetico, come vuole, delle sue canzoni? Non le viene mai il sospetto di fare il gioco che fanno tutti, solo in maniera inversa? Poniamo: Zingara va perché è volgare. Le sue canzoni vanno perché sono apparentemente difficili. Si tratta sempre di qualcosa che va al pubblico attraverso una mezza fregatura.
«C’è fregatura e fregatura, scusi. La mia è una fregatura di buon livello, spero: che non danneggia il gusto e che, anzi, di quando in quando, porta il pubblico della canzone a riascoltare versi veramente buoni. No, non dico i miei versi; ma quelli degli altri, di poeti grandi, veri classici, che io ogni tanto rubacchio dai testi sacri e li rinfilo nelle mie canzoni. Un po’ di Villon... un po’ di questo, un po’ di quello. A parte il fatto che io, nelle mie canzoni, cerco di fare un discorso, un ragionamento. Cosa che, d’altronde, ha fatto anche Adriano Celentano: un cantautore di prima razza. Non per niente ha dovuto metter su una casa discografica per proprio conto. Che cosa fa Celentano? Racconta, ragiona. Come faccio io, a mio modo. Prendiamo l’ultimo mio disco, Tutti morimmo a stento, diverse canzoni tenute insieme, oltre che dal tono, dall’appartenere a un solo discorso. C’è, in ogni uomo, una carica di aggressività feroce senza la quale l’uomo non è più uomo. Di quest’aggressività non possiamo fare a meno senza castrarci. Come difenderci allora? Con la pietà, con tanta pietà...»
E tutto questo, dal disco, si capisce?
«Magari no».
Allora siamo sempre alla truffa.
«Non è vero. Perché io sono in testa alla classifica dei long playing, i dischi grandi a 33 giri, e non riesco a vendere un accidente nei piccoli 45 giri? Perché le mie canzoni prese singolarmente, una per una, come le può offrire lo spazio ridotto del 45 giri, lì per lì piacciono magari, ma dal momento che non si capiscono immediatamente non soddisfano. Tutte insieme danno l’idea di un unico discorso, costringono la gente a pensare, a chiedersi: ma che cosa diavolo vuol dire questo Fabrizio De André? Sentono il disco una volta, una seconda, una terza, si affezionano alle canzoni, ci ragionano su seduti in poltrona, accanto al giradischi, e poi mi danno il voto. Un voto niente male, a quanto pare».
È un poeta lei? Un filosofo?
«No, io sono uno che a dodici anni parlava francese in casa con suo padre e a diciotto aveva letto quasi tutti i poeti francesi. A diciotto anni mi sono iscritto all’università, facoltà di Lettere, solo perché era la facoltà, qui a Genova, con il maggior numero di ragazze (poi ho fatto due anni di Medicina e uno di Legge, senza concludere niente). All’università, e anche prima, al liceo, scrivevo poesie. Cantavo i fianchi delle mie compagne di scuola, niente di serio. Ma lessi Croce, l’Estetica, dove dice a tutti che gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante. Erano gli anni, figuriamoci, di Vola colomba. Dire: faccio il cantante era come sputarsi in faccia. Scelsi di farlo usando versi buoni, rubacchiandone, copiando, ogni tanto inventando.
Con Paolo Villaggio facemmo la mia canzone “sconcia” più famosa: Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Io avevo trovato, sulla chitarra, un motivo medievale che mi suonava così, «Re Carlo ritorna dalla guerra»; e, dico la verità, pensavo a Carlo Magno. Paolo Villaggio mi consigliò di lasciar stare Carlo Magno e di cantare, invece, Carlo Martello, trionfatore della battaglia di Poitiers, perché la battaglia di Poitiers è la più importante, forse, della vecchia storia d’Europa. Capito com’eravamo? Un po’ goliardi, un po’ intellettuali, un po’ sporcaccioni. Con una fava pigliavamo molti piccioni: facevamo gli scapigliati, i colti, i demistificatori, i protestatari di allora (anno ’60), dicevamo la parola “puttana” in una canzone, tutto lasciando intendere che conoscevamo la musica antica e la storia. Poi abbiamo migliorato».
Mina ha cantato una sua canzone, Marinella. È curioso, Fabrizio. Questa canzone Mina l’ha cantata più di un anno fa, all’inizio del suo boom. Eppure i suoi fans mi hanno detto che Marinella è una canzone bruttina, un prodotto spurio...
«Una favoletta zeppa di concessioni retoriche, è vero. Uno come me, quando ha quasi trent’anni, deve pur pensare che non ha né cassa malattie né pensione: e la famiglia, Gesù, è una cosa concreta. Quindi pensa anche al guadagno».
Allora perché non va a Sanremo? O perché non affida tutte le sue canzoni a cantanti celebri come Mina?
«L’ho già detto. Primo: mi vendo, ma solo a metà. A Sanremo ci andrò quando mi faranno cantare il Cantico dei drogati, cioè mai. Secondo: perché lasciare a Mina, o ad altri interpreti, le mie canzoni quando tutti sanno che, se l’autore di una canzone non è stonato, il pubblico preferisce comprarla cantata da lui?
Il discorso è questo: i 45 giri interpretati da cantanti famosissimi vanno a centinaia di migliaia di copie perché sono indirizzati dai discografici verso un pubblico non volgare di natura, ma sicuramente involgarito. Se una Rita Pavone cantasse una delle mie canzoni, non farebbe altro che tradire quello che è il suo pubblico. Quindi verrei a perderci. Chi viceversa ama le mie canzoni preferisce comprarle cantate da me, l’autore, anziché da Rita Pavone. È semplice, in fondo. Semplice come il fatto che io, poeta maledetto o no, vedo il mio futuro in una cifra: 200 milioni, salva la dignità di non vendermi del tutto. Duecento milioni in banca, a spese di un linguaggio canzonettistico che, forse, è un po’ più su di quello corrente. Ottenuto quello, ti saluto!»
Cioè? Lei non crede alla durata delle sue canzoni?
«Durata? No, non ci credo. Tra dieci anni le mie canzoni non esistono più nemmeno nella memoria. Tra dieci anni o ho inventato qualcosa di grosso, di immortale, che adesso non mi passa nemmeno per la testa, oppure ho una barca e navigo il mondo mentre la mia famiglia campa di rendita. E poi io non sono un poeta, no, no... Non lo so».
Adriano Botta
Il signor Fabrizio De André, genovese, ventotto anni, benestante, un po’ poeta, è da due anni in testa alla classifica dei dischi long playing più venduti in Italia. Ne vende più lui di Mina, di Celentano, di Morandi, dei Beatles, di Barbara, di Brassens, e non lo sa nessuno. Scrive e canta canzoni difficili, irripetibili, letterarie, piene di parole ottocentesche. Il suo nome non è affatto popolare; tuttavia, qualsiasi cosa De André proponga, qualsiasi parolaccia o parolona sia contenuta nei suoi versi, non ci sono dubbi: il disco a 33 giri, lungo e costoso, arriverà certamente a 50 mila copie: il massimo che il mercato italiano sinora riesca a ingoiare. L’ultima cantata di Fabrizio De André (cantata in si minore per solo, coro e orchestra) dura quaranta minuti: parla di drogati, di paura, di impiccati, di cimiteri e s’impenna, nel finale, in un recitativo che è un’invocazione alla pietà. Da Francois Villon a Pascoli, c’è di tutto: come un’indigestione di poesia. Il solo passo orecchiabile del disco è un intermezzo ossessivo che dice cose belle ma incomprensibili come: «Sopra le tombe di altri mondi nascono fiori che non so. Ma fra i capelli d’altri amori muoiono fiori che non ho». Be’, il disco è già un best seller: e lo è tra le ragazzine, gli studenti, i professori di scuola media. Dicono che “fa piangere”.
Adesso, con Fabrizio De André, cerchiamo di capire il mistero per cui l’Italia, quasi senza accorgersene, ha creato un personaggio destinato a una popolarità sicura, essendogli grata di farla piangere con i versi e la musica più difficili che mai abbia avuto la canzone italiana. Ha moglie, un figlio, una casa borghese piena di «cose vecchie, non antiche». È figlio dell’amministratore delegato di uno degli imperi industriali più potenti d’Europa. Nasce da una famiglia «peggio che borghese, addirittura mezza nobile con infiltrazioni sabaude». Guadagna, coi dischi e tutto, non più di mezzo milione al mese. «Il fatto è», mi dice, «che perdo un sacco di soldi in cose che non faccio né voglio fare. Niente festival, niente serate. La mia quotazione è, oggi, di 500 mila lire per ogni serata in pubblico: le ultime offerte sono di un milione. Io rifiuto.»
Rifiuta, aggiunge, perché ha paura del pubblico e perché ritiene che quando un cantante si esibisce con una chitarra davanti a una folla debba, in qualche modo, “fare spettacolo”. Lui non sa fare spettacolo: «Sto lì impalato e spaurito». Ma la verità più vera è un’altra: «Io ci ho messo più di dieci anni ad avere successo, e l’ho avuto in maniera clandestina. Le mie canzoni sono passate di amico in amico, di bocca in bocca. I miei primi dischi si vendevano quasi sottobanco. Quel poco di campagna pubblicitaria che qualcuno ha voluto fare su di me, anni fa, è stato un disastro: una volta mi hanno sbalestrato in tv per Quindici minuti con... in mezzo ad archi di cartone e lampade liberty. Mi faceva schifo. Tant’è vero che non è servito a niente di niente.
Ha funzionato, invece, da un paio d’anni a questa parte questa mia fama di cantautore clandestino, di cantautore scoperto nei fondi di magazzino di qualche negozio di dischi e consigliato agli amici come una “finezza”. Finezza un corno, poi: perché le mie prime canzoni, come quelle del ’60, diventate celebri soltanto oggi, erano più un divertimento goliardico zeppo d’irriverenze che altro. Insomma, io ancora oggi non so se son diventato famoso perché per primo ho cantato la parola “puttana”, perché ho un bel tono di voce o perché, avendo un po’ di tutto questo e qualche dote, sono rimasto a lungo nella clandestinità. Due anni fa, all’improvviso, senza una ragione, che io sappia, i miei dischi sono balzati in testa alle classifiche. Ho cambiato casa discografica e tra i patti concertati a tavolino abbiamo inserito questo: niente pubblicità per Fabrizio De André, lasciamolo nell’ombra e sarà il miglior modo per venderlo, per costringer la gente a cercarlo. Ieri, proprio ieri, vado dal mio editore a dirgli che ho rifiutato due trasmissioni televisive. Un altro cantante l’avrebbero scannato. A me hanno detto: bravo, è giusto».
Quindi, Fabrizio, il suo riserbo, i suoi grandi rifiuti non c’entrano molto con il suo disprezzo per la canzone corrente. Sono un mezzo come un altro per...
«Un compromesso, certo. Io sono un onesto a metà, o un truffatore a metà. Come preferisce. Se fossi onesto del tutto, non accetterei di mettere il mio faccione spettinato, in posa da poeta maledetto, sulla copertina di un long playing. Se fossi un truffatore del tutto, sarei andato a Sanremo con la canzone che mi avessero imposta. Se fossi un poeta vero scriverei poesie, se non fossi poeta affatto non scriverei niente. Sono quindi un venduto, come gli altri ma, ancora una volta, lo sono a metà. Ripeto: non conosco bene i motivi per cui le mie canzoni piacciono. Ora voglio fare un esperimento, prendere delle vecchie canzoni come ‘O sole mio, e inciderle: se vanno, vuol dire che la gente compra solo la mia voce. Se non vanno, vuol dire che compra le mie canzoni con tutto il pasticcio letterario che e’è dentro. Ma se scoprissi che la gente compra solo la mia voce continuerei a cantare vecchie canzoni, cose autentiche, testi di Di Giacomo o di D’Annunzio, e non la venderei mai, questa voce, per cantare Zingara».
Ce l’ha con Bobby Solo?
«Per niente. Non è nemmeno stupido, Bobby Solo, anzi. Però è in mano ai discografici. I discografici, gli editori, hanno capito che Fabrizio De André piace al suo pubblico per quel che è, per le stramberie che presenta. E gliele lasciano fare. Me le lasciano fare, queste canzoni, non perché siano belle o brutte, ma perché sono legate a un personaggio, e questo personaggio, Dio sa come, sono io. Provi un altro, uno qualsiasi, uno sconosciuto a presentarsi a un editore con testi e musiche di canzoni come le mie: lo sbatterebbero fuori a calci. Lo piglierebbero per matto».
Lei, Fabrizio, ci crede davvero al livello intellettuale, culturale, letterario, poetico, come vuole, delle sue canzoni? Non le viene mai il sospetto di fare il gioco che fanno tutti, solo in maniera inversa? Poniamo: Zingara va perché è volgare. Le sue canzoni vanno perché sono apparentemente difficili. Si tratta sempre di qualcosa che va al pubblico attraverso una mezza fregatura.
«C’è fregatura e fregatura, scusi. La mia è una fregatura di buon livello, spero: che non danneggia il gusto e che, anzi, di quando in quando, porta il pubblico della canzone a riascoltare versi veramente buoni. No, non dico i miei versi; ma quelli degli altri, di poeti grandi, veri classici, che io ogni tanto rubacchio dai testi sacri e li rinfilo nelle mie canzoni. Un po’ di Villon... un po’ di questo, un po’ di quello. A parte il fatto che io, nelle mie canzoni, cerco di fare un discorso, un ragionamento. Cosa che, d’altronde, ha fatto anche Adriano Celentano: un cantautore di prima razza. Non per niente ha dovuto metter su una casa discografica per proprio conto. Che cosa fa Celentano? Racconta, ragiona. Come faccio io, a mio modo. Prendiamo l’ultimo mio disco, Tutti morimmo a stento, diverse canzoni tenute insieme, oltre che dal tono, dall’appartenere a un solo discorso. C’è, in ogni uomo, una carica di aggressività feroce senza la quale l’uomo non è più uomo. Di quest’aggressività non possiamo fare a meno senza castrarci. Come difenderci allora? Con la pietà, con tanta pietà...»
E tutto questo, dal disco, si capisce?
«Magari no».
Allora siamo sempre alla truffa.
«Non è vero. Perché io sono in testa alla classifica dei long playing, i dischi grandi a 33 giri, e non riesco a vendere un accidente nei piccoli 45 giri? Perché le mie canzoni prese singolarmente, una per una, come le può offrire lo spazio ridotto del 45 giri, lì per lì piacciono magari, ma dal momento che non si capiscono immediatamente non soddisfano. Tutte insieme danno l’idea di un unico discorso, costringono la gente a pensare, a chiedersi: ma che cosa diavolo vuol dire questo Fabrizio De André? Sentono il disco una volta, una seconda, una terza, si affezionano alle canzoni, ci ragionano su seduti in poltrona, accanto al giradischi, e poi mi danno il voto. Un voto niente male, a quanto pare».
È un poeta lei? Un filosofo?
«No, io sono uno che a dodici anni parlava francese in casa con suo padre e a diciotto aveva letto quasi tutti i poeti francesi. A diciotto anni mi sono iscritto all’università, facoltà di Lettere, solo perché era la facoltà, qui a Genova, con il maggior numero di ragazze (poi ho fatto due anni di Medicina e uno di Legge, senza concludere niente). All’università, e anche prima, al liceo, scrivevo poesie. Cantavo i fianchi delle mie compagne di scuola, niente di serio. Ma lessi Croce, l’Estetica, dove dice a tutti che gli italiani fino a diciotto anni possono diventare poeti, dopo i diciotto chi continua a scrivere poesie o è un poeta vero o è un cretino. Io, poeta vero non lo ero. Cretino nemmeno. Ho scelto la via di mezzo: cantante. Erano gli anni, figuriamoci, di Vola colomba. Dire: faccio il cantante era come sputarsi in faccia. Scelsi di farlo usando versi buoni, rubacchiandone, copiando, ogni tanto inventando.
Con Paolo Villaggio facemmo la mia canzone “sconcia” più famosa: Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Io avevo trovato, sulla chitarra, un motivo medievale che mi suonava così, «Re Carlo ritorna dalla guerra»; e, dico la verità, pensavo a Carlo Magno. Paolo Villaggio mi consigliò di lasciar stare Carlo Magno e di cantare, invece, Carlo Martello, trionfatore della battaglia di Poitiers, perché la battaglia di Poitiers è la più importante, forse, della vecchia storia d’Europa. Capito com’eravamo? Un po’ goliardi, un po’ intellettuali, un po’ sporcaccioni. Con una fava pigliavamo molti piccioni: facevamo gli scapigliati, i colti, i demistificatori, i protestatari di allora (anno ’60), dicevamo la parola “puttana” in una canzone, tutto lasciando intendere che conoscevamo la musica antica e la storia. Poi abbiamo migliorato».
Mina ha cantato una sua canzone, Marinella. È curioso, Fabrizio. Questa canzone Mina l’ha cantata più di un anno fa, all’inizio del suo boom. Eppure i suoi fans mi hanno detto che Marinella è una canzone bruttina, un prodotto spurio...
«Una favoletta zeppa di concessioni retoriche, è vero. Uno come me, quando ha quasi trent’anni, deve pur pensare che non ha né cassa malattie né pensione: e la famiglia, Gesù, è una cosa concreta. Quindi pensa anche al guadagno».
Allora perché non va a Sanremo? O perché non affida tutte le sue canzoni a cantanti celebri come Mina?
«L’ho già detto. Primo: mi vendo, ma solo a metà. A Sanremo ci andrò quando mi faranno cantare il Cantico dei drogati, cioè mai. Secondo: perché lasciare a Mina, o ad altri interpreti, le mie canzoni quando tutti sanno che, se l’autore di una canzone non è stonato, il pubblico preferisce comprarla cantata da lui?
Il discorso è questo: i 45 giri interpretati da cantanti famosissimi vanno a centinaia di migliaia di copie perché sono indirizzati dai discografici verso un pubblico non volgare di natura, ma sicuramente involgarito. Se una Rita Pavone cantasse una delle mie canzoni, non farebbe altro che tradire quello che è il suo pubblico. Quindi verrei a perderci. Chi viceversa ama le mie canzoni preferisce comprarle cantate da me, l’autore, anziché da Rita Pavone. È semplice, in fondo. Semplice come il fatto che io, poeta maledetto o no, vedo il mio futuro in una cifra: 200 milioni, salva la dignità di non vendermi del tutto. Duecento milioni in banca, a spese di un linguaggio canzonettistico che, forse, è un po’ più su di quello corrente. Ottenuto quello, ti saluto!»
Cioè? Lei non crede alla durata delle sue canzoni?
«Durata? No, non ci credo. Tra dieci anni le mie canzoni non esistono più nemmeno nella memoria. Tra dieci anni o ho inventato qualcosa di grosso, di immortale, che adesso non mi passa nemmeno per la testa, oppure ho una barca e navigo il mondo mentre la mia famiglia campa di rendita. E poi io non sono un poeta, no, no... Non lo so».
Adriano Botta