Il Fatto Quotidiano, giovedì 15 agosto 2013, 16 agosto 2013
Tags : 1978-1985 – Biografia di Sandro Pertini
Biagi intervista Pertini
Il Fatto Quotidiano, giovedì 15 agosto 2013
Sandro Pertini, classe 1896, è stato eletto presidente della Repubblica l’8 luglio 1978 al 16° scrutinio. Sandro Pertini è un grande presidente della Repubblica. Da un’inchiesta della Demoskopea si impara che al cittadino “non piace il governo, è angustiato dalla criminalità, dalla disoccupazione, dal rincaro della vita, è scettico di fronte alla politica, ma si dichiara ammiratore di Sandro Pertini”. Su cento patrioti, sessantadue sono anzi certi “che piace anche alle donne”. E mi pare il massimo del consenso.
Nel 1983, l’ho incontrato al Quirinale accompagnato dalla troupe per un’intervista.
Presidente Pertini lei …
«Perché mi dai del lei? Mi fai venir da ridere ci siamo sempre dati del tu. Adesso perché siamo dinanzi a voi cari telespettatori, care telespettatrici, vuol salvare le apparenze».
D’accordo. Com’era la Savona della tua giovinezza?
«La Savona di allora era in parte operaia perché lì c’era l’Ilva che adesso è l’Italsider. A Savona ho fatto il liceo e avevo come maestro Adelchi Baratono, professore di filosofia molto conosciuto, socialista, fu lui che mi iniziò al socialismo. All’età di diciotto anni entrai nel partito. La mia adolescenza la trascorsi a Stella, un piccolo paese di 1..500 abitanti. Mio padre era proprietario terriero, quindi io vivevo con i contadini e nella serenità della famiglia: mia madre, mio padre, una mia sorella e mio fratello Eugenio, che era un po’ claudicante, si era dato un colpo di martello sul ginocchio. Quando lo ricordo si rinnova la pena nelmio animo perché fu crudelmente ucciso nel campo di sterminio di Flossenburg. Il 25 aprile 1945, con la partigiana Carla (che poi è diventata miamoglie), eravamo in piazza del Duomo a Milano, esultavamo per la libertàriconquistata. Mio fratello nello stesso giorno, veniva messo al forno crematorio. Tra mio padre e mia madre, chi dominava era mia madre: io ho presoil temperamento da lei. Mio padre morì giovane, mia madre invece a novantadue anni. Lei era un po’ la padrona del paese ed era una vera credentearlava direttamente con Dio. Io la facevo arrabbiare, le dicevo: “Mamma, la proprietà è frutto di un furto. I nostri antenati per avere tutte queste terre devono aver commesso violenze, uccisioni, finiremo di perdere tutto”. Così fu. L’ultima che era la più bella, spettava a me, la vendetti che ero in Francia in esilio con Turati, facevo il mestiere del manovale muratore. Con il ricavato costruimmo una stazione radiotrasmittente per fare propaganda antifascista in Italia. Un ispettore che venne da Parigidopo che fui arrestato, disse: “Non riesco a capire, siete giovani, qui a Nizza ci sono bellissime donne, con questa somma avreste potuto fare per qualche anno una vita serena gioiosa. Avete speso tutto in tutto questo apparecchio che adesso noi sequestriamo per fare propaganda in Italia, e avetecontinuato a fare i manovali…”. Per lui era incomprensibile , non riusciva a capire cosa volesse dire avere una fede».
Negli anni del carcere hai incontrato tante persone, fra queste Gramsci.
«Sì. Gramsci è stato il cervello più forte che io ho incontrato sulmio cammino di uomo politico. L’ho incontrato nel carcere di Turi di Bari, venivo da Santo Stefano dove avevo fatto la segregazione. Mi ricordo cheavevo l’ansia di incontrarlo, ne avevo sentito tanto parlare: La Rivoluzione liberale con Gobetti, L’Ordine Nuovo, il gruppo di Torino. Bastava leggere i suoi scritti per rendersi conto della forza, del talento e dell’ingegno che aveva. Tieni presente che eravamo nel 1931, la famosa svolta del ’29 era già avvenuta e il Pci e Psi all’estero si sbranavano. Lui era molto assistito da Tatiana».
La cognata.
«Sì lei. Tatiana si era innamorata di Gramsci, del suo cervello, perché fisicamente era piccolo, gobbo, sembrava un nano, ma che testa. Gramsciera duro quando si discuteva di politica ma sapeva anche essere umano, dolce. Antonio aveva ricevuto dalla cognata, che era impiegata all’ambasciata russa, un pacco, e chiese al direttore, il giorno di Pasqua, di permettermi di passare la festa con lui. Voleva che aderissi al Partito comunista, gli spiegai che non era possibile: non ci può essere giustizia sociale se non c’è libertà. Non esiste riforma capace di costituire materia di scambio. Gramsci si sentiva avvilito, abbandonato dai suoi. Stava male, espettorava sangue. Non riusciva a dormire perché le guardie a mezzanotte sbattevano apposta lo spioncino e lui si svegliava di soprassalto. Tu sei stato in galera?».
No.
«Male. Ovviamente ti auguro di andarci per fatti politici perché tu seiun galantuomo, pulito dalla testa ai piedi e hai la coscienza veramente linda, se no non saresti mio amico. Comunque andai a protestare dal direttore: “Gramsci è ammalato, o questa storia finisce, o faccio un esposto al ministero”. Dopo due giorni gli chiedo come andava, e lui: “Ho dormito.Pensa che non ho sentito chiudere lo sportello. Chissà come mai?”. Io:“Probabilmente hanno cambiato la guardia”».
Che cos’è per te il socialismo?
«Il riscatto dell’uomo da ogni catena di carattere ideologico, economico, confessionale. Deve essere padrone dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, protagonista del lavoro, non strumento».
E il fascismo?
«La negazione della dignità umana».
Presidente, quando hai visto Mussolini?
«Mussolini non lo conobbi quando era nel Partito socialista. L’incontro fu casuale durante l’insurrezione di Milano. Avevamo dato l’ordine di occupare tutte le fabbriche. Due operai erano stati uccisi dalle camicie nere. Mentre parlavo agli operai, arrivò un compagno tutto trafelato che midisse: “C’è Mussolini che si sta incontrando all’Arcivescovado conLombardi, Cadorna e gli altri”.
Io rimasi sorpreso, dopo pochi minuti arrivai all’Arcivescovado. Salendo il grande scalone (non è vero che avessi la rivoltella in mano, storie romanzate), vedo un gruppo che scende vestito con l’orbace e tra questi c’era Mussolini. Era molto emaciato, pallido, irriconoscibile, non era più il baldanzoso delle fotografie. Venni presentato all’arcivescovo Schuster, con lui c’erano Cadorna, Lombardi, Arpesani. Il cardinale mi informò dell’incontro con Mussolini, che dalla Prefettura avrebbe fatto sapere se si sarebbe arreso al Comitato di Liberazione Nazionale. Risposi che seciò avveniva lo avremmo considerato un prigioniero politico.
Nel frattempo arrivò Emilio Sereni. L’incontro tra il cardinale e Mussolini fu fatto all’insaputa dei socialisti e dei comunisti. Schuster mi disse: “Avvocato Pertini, ho sentito parlare di lei e di quanto ha sofferto, si renda conto della situazione, qui bisogna evitare un eccidio”. “Cardinale”, gli risposi “la ruota dell’insurrezione ha cominciato a girare e non saremo né io né lei a fermarla”.
C’era uno, che poi seppi che era il prefetto di Milano, Carlo Tiengo, un fascista, con tono demagogico, perentorio, declamando mi disse: “Ma lei non ha a cuore le sorti di Milano?”. Gli risposi: “Io non so chi sia lei, né mi interessa saperlo; io, non le sorti di Milano, ma le sorti dell’Italia le ho a cuore dal 1922, dalla marcia su Roma, da quando il fascismo è al potere”.
Si rivolse anche a Sereni che gli rispose: “Se Mussolini si vuole arrendere lo faccia al Comitato di Liberazione dell’Alta Italia che poi convocherà un tribunale che deciderà della sua sorte”. Tiengo si alzò e uscì per poi rientrare dopo dieci minuti, sempre declamando: “Il Duce fa sapere che non si arrende”.
Mentre stavamo uscendo dall’Arcivescovado gli autoparlanti informavano: “Attenzione, attenzione tutte le camicie nere dell’Alto Po Pavese si concentrino a Milano”. Pensai subito che Mussolini volesse resistere, invece era fumo negli occhi: stava preparando la fuga con i tedeschi. Quando entrammo alla sera in Prefettura lui era già fuggito. Mi raccontarono che Carlo Borsani si era avvicinato alla macchina e mentre Mussolini stava salendo gli disse: “Duce restate qui con noi, combatteremo fino all’ultimo”.. Mussolini diede una scrollata di spalle e Borsani: “Voi ci state tradendo”».
Non ti sei mai sentito sconfitto anche in quelle ore?
«No, io sono sempre stato del parere di Antonio Gramsci. Lui ha detto unaverità che vale per tutte le lotte, e anche per la vita, vale ancora oggi: “La mia intelligenza è pessimista, la mia volontà è ottimista”».
Presidente Pertini come si può vincere questa crisi di sfiducia che gli italiani hanno nelle istituzioni?
«Le istituzioni non sono una cosa astratta, le istituzioni hanno le radici nella società, sono rappresentate dalla classe dirigente politica. Io rappresento un’istituzione. Il popolo italiano deve avere fiducia nelle istituzioni e la classe politica deve ascoltare di più. Bisogna però non esagerare a giudicare la classe politica, qualche volta si fa del qualunquismo. Sono nella vita politica dal 1945, conosco centinaia di uomini politici retti, che cercano di fare l’interesse dell’elettorato che li ha eletti».
Secondo me mancano i capi politici, siamo partiti con Togliatti, De Gasperi, Nenni, La Malfa e siamo scivolati sempre più giù. La gente è migliore di quelli che manda al potere.
«Nel periodo clandestino, c’era chi pensava già alle poltrone ministeriali. Quando Saragat e io fuggimmo da Regina Coeli, avemmo l’aiuto di una guardia. Durante la lotta partigiana, attraversai con due marconisti il Monte Bianco. Vidi un contadino gli domandai se ci ospitava nella sua cascina, eravamo stremati. “Non posso” mi disse “quella dei vicini è già stata incendiata”. Poi ci guardò: “Va bene, ma domattina via”. Ci diede da mangiare minestrone e salsicce e non volle essere pagato. Questi sono uomini».
Sei stato molto criticato per il tuo intervento in tv dopo che sei andato a visitare i luoghi del terremoto.
«Ho dinanzi agli occhi la disperazione dopo essere tornato dalla Basilicata e dalla Campania. Angosciato, mi è saltato in testa di dare alla televisione un’intervista dove ho raccontato quello che avevo visto, dove incitavo a provvedere a dare una casa, dicevo, fra l’altro, che non si ripetalo scandalo del Belice. Non avevo il diritto di dire questo? Sono passati tredici anni, ci sono ancora i prefabbricati, le baracche. Caro amico Enzo,un presidente della Repubblica non ha il diritto di dire questo alla televisione? Mi sono saltati addosso i politici di sinistra, di destra e i democristiani: mi hanno sbranato».
Presidente, cosa ti sta più a cuore?
«Il Quirinale è un osservatorio di primissimo ordine. Mi trovo di fronte a problemi gravi, specialmente quello della disoccupazione giovanile, quelli in cerca del primo contratto. Un giovane disoccupato si sente emarginato, avvilito. A volte anche in casa non ha comprensione: “Non trovi lavoroperché sei un fannullone”. Non trova lavoro perché non c’è.
E poi, caro Enzo, nel 1980 sono morti 18 milioni di bambini: è una straged’innocenti. E le persone che non possono essere adeguatamente curate per le inefficienze degli ospedali? Dico che la situazione è grave, ma non mi devo limitare al pianto greco. Agiamo perché sia risolta nell’interesse del popolo italiano. Il mio ottimismo nasce da questo - non ti stupire Enzo -: io credo nella gioventù italiana e nel popolo italiano perché è buono, generoso e laborioso».
Sandro Pertini, classe 1896, è stato eletto presidente della Repubblica l’8 luglio 1978 al 16° scrutinio. Sandro Pertini è un grande presidente della Repubblica. Da un’inchiesta della Demoskopea si impara che al cittadino “non piace il governo, è angustiato dalla criminalità, dalla disoccupazione, dal rincaro della vita, è scettico di fronte alla politica, ma si dichiara ammiratore di Sandro Pertini”. Su cento patrioti, sessantadue sono anzi certi “che piace anche alle donne”. E mi pare il massimo del consenso.
Nel 1983, l’ho incontrato al Quirinale accompagnato dalla troupe per un’intervista.
Presidente Pertini lei …
«Perché mi dai del lei? Mi fai venir da ridere ci siamo sempre dati del tu. Adesso perché siamo dinanzi a voi cari telespettatori, care telespettatrici, vuol salvare le apparenze».
D’accordo. Com’era la Savona della tua giovinezza?
«La Savona di allora era in parte operaia perché lì c’era l’Ilva che adesso è l’Italsider. A Savona ho fatto il liceo e avevo come maestro Adelchi Baratono, professore di filosofia molto conosciuto, socialista, fu lui che mi iniziò al socialismo. All’età di diciotto anni entrai nel partito. La mia adolescenza la trascorsi a Stella, un piccolo paese di 1..500 abitanti. Mio padre era proprietario terriero, quindi io vivevo con i contadini e nella serenità della famiglia: mia madre, mio padre, una mia sorella e mio fratello Eugenio, che era un po’ claudicante, si era dato un colpo di martello sul ginocchio. Quando lo ricordo si rinnova la pena nelmio animo perché fu crudelmente ucciso nel campo di sterminio di Flossenburg. Il 25 aprile 1945, con la partigiana Carla (che poi è diventata miamoglie), eravamo in piazza del Duomo a Milano, esultavamo per la libertàriconquistata. Mio fratello nello stesso giorno, veniva messo al forno crematorio. Tra mio padre e mia madre, chi dominava era mia madre: io ho presoil temperamento da lei. Mio padre morì giovane, mia madre invece a novantadue anni. Lei era un po’ la padrona del paese ed era una vera credentearlava direttamente con Dio. Io la facevo arrabbiare, le dicevo: “Mamma, la proprietà è frutto di un furto. I nostri antenati per avere tutte queste terre devono aver commesso violenze, uccisioni, finiremo di perdere tutto”. Così fu. L’ultima che era la più bella, spettava a me, la vendetti che ero in Francia in esilio con Turati, facevo il mestiere del manovale muratore. Con il ricavato costruimmo una stazione radiotrasmittente per fare propaganda antifascista in Italia. Un ispettore che venne da Parigidopo che fui arrestato, disse: “Non riesco a capire, siete giovani, qui a Nizza ci sono bellissime donne, con questa somma avreste potuto fare per qualche anno una vita serena gioiosa. Avete speso tutto in tutto questo apparecchio che adesso noi sequestriamo per fare propaganda in Italia, e avetecontinuato a fare i manovali…”. Per lui era incomprensibile , non riusciva a capire cosa volesse dire avere una fede».
Negli anni del carcere hai incontrato tante persone, fra queste Gramsci.
«Sì. Gramsci è stato il cervello più forte che io ho incontrato sulmio cammino di uomo politico. L’ho incontrato nel carcere di Turi di Bari, venivo da Santo Stefano dove avevo fatto la segregazione. Mi ricordo cheavevo l’ansia di incontrarlo, ne avevo sentito tanto parlare: La Rivoluzione liberale con Gobetti, L’Ordine Nuovo, il gruppo di Torino. Bastava leggere i suoi scritti per rendersi conto della forza, del talento e dell’ingegno che aveva. Tieni presente che eravamo nel 1931, la famosa svolta del ’29 era già avvenuta e il Pci e Psi all’estero si sbranavano. Lui era molto assistito da Tatiana».
La cognata.
«Sì lei. Tatiana si era innamorata di Gramsci, del suo cervello, perché fisicamente era piccolo, gobbo, sembrava un nano, ma che testa. Gramsciera duro quando si discuteva di politica ma sapeva anche essere umano, dolce. Antonio aveva ricevuto dalla cognata, che era impiegata all’ambasciata russa, un pacco, e chiese al direttore, il giorno di Pasqua, di permettermi di passare la festa con lui. Voleva che aderissi al Partito comunista, gli spiegai che non era possibile: non ci può essere giustizia sociale se non c’è libertà. Non esiste riforma capace di costituire materia di scambio. Gramsci si sentiva avvilito, abbandonato dai suoi. Stava male, espettorava sangue. Non riusciva a dormire perché le guardie a mezzanotte sbattevano apposta lo spioncino e lui si svegliava di soprassalto. Tu sei stato in galera?».
No.
«Male. Ovviamente ti auguro di andarci per fatti politici perché tu seiun galantuomo, pulito dalla testa ai piedi e hai la coscienza veramente linda, se no non saresti mio amico. Comunque andai a protestare dal direttore: “Gramsci è ammalato, o questa storia finisce, o faccio un esposto al ministero”. Dopo due giorni gli chiedo come andava, e lui: “Ho dormito.Pensa che non ho sentito chiudere lo sportello. Chissà come mai?”. Io:“Probabilmente hanno cambiato la guardia”».
Che cos’è per te il socialismo?
«Il riscatto dell’uomo da ogni catena di carattere ideologico, economico, confessionale. Deve essere padrone dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, protagonista del lavoro, non strumento».
E il fascismo?
«La negazione della dignità umana».
Presidente, quando hai visto Mussolini?
«Mussolini non lo conobbi quando era nel Partito socialista. L’incontro fu casuale durante l’insurrezione di Milano. Avevamo dato l’ordine di occupare tutte le fabbriche. Due operai erano stati uccisi dalle camicie nere. Mentre parlavo agli operai, arrivò un compagno tutto trafelato che midisse: “C’è Mussolini che si sta incontrando all’Arcivescovado conLombardi, Cadorna e gli altri”.
Io rimasi sorpreso, dopo pochi minuti arrivai all’Arcivescovado. Salendo il grande scalone (non è vero che avessi la rivoltella in mano, storie romanzate), vedo un gruppo che scende vestito con l’orbace e tra questi c’era Mussolini. Era molto emaciato, pallido, irriconoscibile, non era più il baldanzoso delle fotografie. Venni presentato all’arcivescovo Schuster, con lui c’erano Cadorna, Lombardi, Arpesani. Il cardinale mi informò dell’incontro con Mussolini, che dalla Prefettura avrebbe fatto sapere se si sarebbe arreso al Comitato di Liberazione Nazionale. Risposi che seciò avveniva lo avremmo considerato un prigioniero politico.
Nel frattempo arrivò Emilio Sereni. L’incontro tra il cardinale e Mussolini fu fatto all’insaputa dei socialisti e dei comunisti. Schuster mi disse: “Avvocato Pertini, ho sentito parlare di lei e di quanto ha sofferto, si renda conto della situazione, qui bisogna evitare un eccidio”. “Cardinale”, gli risposi “la ruota dell’insurrezione ha cominciato a girare e non saremo né io né lei a fermarla”.
C’era uno, che poi seppi che era il prefetto di Milano, Carlo Tiengo, un fascista, con tono demagogico, perentorio, declamando mi disse: “Ma lei non ha a cuore le sorti di Milano?”. Gli risposi: “Io non so chi sia lei, né mi interessa saperlo; io, non le sorti di Milano, ma le sorti dell’Italia le ho a cuore dal 1922, dalla marcia su Roma, da quando il fascismo è al potere”.
Si rivolse anche a Sereni che gli rispose: “Se Mussolini si vuole arrendere lo faccia al Comitato di Liberazione dell’Alta Italia che poi convocherà un tribunale che deciderà della sua sorte”. Tiengo si alzò e uscì per poi rientrare dopo dieci minuti, sempre declamando: “Il Duce fa sapere che non si arrende”.
Mentre stavamo uscendo dall’Arcivescovado gli autoparlanti informavano: “Attenzione, attenzione tutte le camicie nere dell’Alto Po Pavese si concentrino a Milano”. Pensai subito che Mussolini volesse resistere, invece era fumo negli occhi: stava preparando la fuga con i tedeschi. Quando entrammo alla sera in Prefettura lui era già fuggito. Mi raccontarono che Carlo Borsani si era avvicinato alla macchina e mentre Mussolini stava salendo gli disse: “Duce restate qui con noi, combatteremo fino all’ultimo”.. Mussolini diede una scrollata di spalle e Borsani: “Voi ci state tradendo”».
Non ti sei mai sentito sconfitto anche in quelle ore?
«No, io sono sempre stato del parere di Antonio Gramsci. Lui ha detto unaverità che vale per tutte le lotte, e anche per la vita, vale ancora oggi: “La mia intelligenza è pessimista, la mia volontà è ottimista”».
Presidente Pertini come si può vincere questa crisi di sfiducia che gli italiani hanno nelle istituzioni?
«Le istituzioni non sono una cosa astratta, le istituzioni hanno le radici nella società, sono rappresentate dalla classe dirigente politica. Io rappresento un’istituzione. Il popolo italiano deve avere fiducia nelle istituzioni e la classe politica deve ascoltare di più. Bisogna però non esagerare a giudicare la classe politica, qualche volta si fa del qualunquismo. Sono nella vita politica dal 1945, conosco centinaia di uomini politici retti, che cercano di fare l’interesse dell’elettorato che li ha eletti».
Secondo me mancano i capi politici, siamo partiti con Togliatti, De Gasperi, Nenni, La Malfa e siamo scivolati sempre più giù. La gente è migliore di quelli che manda al potere.
«Nel periodo clandestino, c’era chi pensava già alle poltrone ministeriali. Quando Saragat e io fuggimmo da Regina Coeli, avemmo l’aiuto di una guardia. Durante la lotta partigiana, attraversai con due marconisti il Monte Bianco. Vidi un contadino gli domandai se ci ospitava nella sua cascina, eravamo stremati. “Non posso” mi disse “quella dei vicini è già stata incendiata”. Poi ci guardò: “Va bene, ma domattina via”. Ci diede da mangiare minestrone e salsicce e non volle essere pagato. Questi sono uomini».
Sei stato molto criticato per il tuo intervento in tv dopo che sei andato a visitare i luoghi del terremoto.
«Ho dinanzi agli occhi la disperazione dopo essere tornato dalla Basilicata e dalla Campania. Angosciato, mi è saltato in testa di dare alla televisione un’intervista dove ho raccontato quello che avevo visto, dove incitavo a provvedere a dare una casa, dicevo, fra l’altro, che non si ripetalo scandalo del Belice. Non avevo il diritto di dire questo? Sono passati tredici anni, ci sono ancora i prefabbricati, le baracche. Caro amico Enzo,un presidente della Repubblica non ha il diritto di dire questo alla televisione? Mi sono saltati addosso i politici di sinistra, di destra e i democristiani: mi hanno sbranato».
Presidente, cosa ti sta più a cuore?
«Il Quirinale è un osservatorio di primissimo ordine. Mi trovo di fronte a problemi gravi, specialmente quello della disoccupazione giovanile, quelli in cerca del primo contratto. Un giovane disoccupato si sente emarginato, avvilito. A volte anche in casa non ha comprensione: “Non trovi lavoroperché sei un fannullone”. Non trova lavoro perché non c’è.
E poi, caro Enzo, nel 1980 sono morti 18 milioni di bambini: è una straged’innocenti. E le persone che non possono essere adeguatamente curate per le inefficienze degli ospedali? Dico che la situazione è grave, ma non mi devo limitare al pianto greco. Agiamo perché sia risolta nell’interesse del popolo italiano. Il mio ottimismo nasce da questo - non ti stupire Enzo -: io credo nella gioventù italiana e nel popolo italiano perché è buono, generoso e laborioso».
Enzo Biagi