Corriere della Sera, mercoledì 26 febbraio 2003, 4 luglio 2013
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Alberto Sordi e i mille volti degli italiani (articolo del 26/2/2003)
Corriere della Sera, mercoledì 26 febbraio 2003
«Ero un ragazzotto con i calzoni corti, ciccione, con le ginocchia sporche e sbucciate, mi piaceva passeggiare per la città a piedi, con il pallone, tu-tum tu-tum, lo tiravo e lo facevo rimbalzare su un muro altissimo, sulla collina più bella di Roma, quella che scende verso l’Appia Antica... Mi arrampicavo per guardare dentro quella villa meravigliosa e mi chiedevo: ma chi ci abiterà? Quando ho avuto i soldi, sono andato a comprare proprio quella casa dei sogni, casa mia». Se avesse girato un film sulla sua vita, Alberto Sordi lo avrebbe cominciato così. E invece, ha sempre detto di no alle decine di richieste. Guai a sollecitare una biografia, o un’autobiografia, non esisteva una cifra a cui il grande attore avrebbe detto sì. «Ma che autobiografia, porta male – mi confidò una volta – e poi, a che serve? Io ho tutti i miei film, dal primo all’ultimo, conservati nel sotterraneo di casa, tutti i ritagli stampa raccolti in album. Fin dagli anni Quaranta, in tutti i contratti cinematografici, ho chiesto ai produttori una copia originale del film per me. La mia vita è in ordine, conservata alla temperatura giusta... Chi vorrà ricordarmi, troverà tutto a posto».
Un’identificazione totale con il cinema e con i suoi personaggi. Una vita sul set, cambiando mille maschere, indossando il bene e il male, vestendo miseria e nobiltà, più volte anche nel corso dello stesso anno. In un paese che non aveva ancora scoperto i sondaggi, il Censis e i «trend», in quell’Italietta che non faceva tendenza e che nessuno imitava, gli uomini e le donne si sono specchiati per decenni nelle sue pellicole. Credibile tanto come Nerone che come Vitellone, ha attraversato la sua Roma magica da vigile solerte, da tassista saggio, da giornalista disperato, da soldato spaventato, da moralista spietato e ambiguo, da presentatore Rai dentone e testardo. Sordi raccontava proprio come eravamo... Eravamo, anche: vigliacchi, magliari, furbi, un po’ delinquenti, ma sempre cocchi di mamma. Il ladro di Ladra lui ladra lei porta alla madre le coperte prese in prigione e lei commenta: «Tu’ padre, quello sì ch’era un omo, portava anche servizi di cucchiaini e forchette...», mentre la ex ladra Monica Vitti sale sul treno e saluta la famiglia dal finestrino del vagone letto come fosse arrivata a Hollywood... Provinciale, pieno di debiti, ma soprattutto bugiardo, il cittadino italiano degli anni Cinquanta azzarda la scalata sociale con tutti i mezzi, tanto nei film quanto nella realtà. Cambiali, promesse, cambi d’abito fulminei, piccoli e grandi imbrogli serviranno a costruire quel boom improvviso che coglierà tutti impreparati. E qui la commedia diventa di nuovo verità. Lo stile del neoricco è quello che è. Il conte Max insegna. A tavola, nei mille ristoranti, negli alberghi di Cortina, l’arte di arrangiarsi (uno dei primi film) rende possibili occasioni irripetibili. Il commendatore, il sottosegretario, il ministro: davanti a tutti ci si inchina. Servile e ambizioso da borghese, diventa signore proprio quando è un poveraccio, come nell’indimenticabile partita a scopone scientifico. L’uomo-Alberto non ha paura del ridicolo, teme soltanto la suocera, un’autorità. Da scapolo, da vedovo, da conquistatore, la «mia signora» è infatti sempre una vittima predestinata, segnata dal destino che segnò tutte le mogli fino agli anni Settanta. La fede, il simbolo matrimoniale che Sordi commesso viaggiatore nasconde nel taschino appena salito sul treno, è il segno dell’infamia. E se la macchina scoperta è il sogno del vitellone che fa il gestaccio ai lavoratori e poi viene raggiunto e picchiato, il politico e il cardinale servono – sempre – a dare una mano. Eravamo anche innamorati dell’America, un’America immaginaria... Il ragazzo della marrana, quel Nando Moriconi che finge di mangiare marmellata e hamburger per poi tuffarsi nello spaghetto di mammà, scoprirà – negli anni a seguire – il mito di Elvis, le femmine bionde e il rock, ma dovrà aspettare trent’anni per un vero cheeseburger. Sempre in anticipo sulle mode, il Sordi di Fumo di Londra inventa – nel 1966 – lo stile inglese all’amatriciana, tutto falso, tutto «made in Italy», un modo di essere che ancora governa le vetrine dei negozi da uomo.
Alla fine dei Sessanta, il boom è finito. Il playboy è un personaggio superato, i vincenti diventano più duri. Il dottor Tersilli è il prototipo perfetto del medico della mutua imbroglione e presto lo ritroviamo primario di clinica, c’è chi traffica in armi e chi si diverte allenando una squadra di calcio. Tutto è più complicato, dopo la contestazione generale. Il volto di Alberto Sordi perde, con il passare degli anni, il tratto esclusivo della comicità amara. Ridiamo di meno, non c’è più la dolce vita, ai politici si spara, la giustizia salta in aria con il sistema... E qui c’è la triangolazione migliore dell’attore: magistrato inflessibile in Tutti dentro, che precede le inchieste di Tangentopoli di otto anni, è anche credibile con il suo opposto, quel detenuto in attesa di un giudizio che non arriva mai ed è superlativo nei panni del giustiziere borghese, piccolo piccolo, ferito e violento. Nei ruoli più recenti, il padre che viaggia con Carlo Verdone e non riesce – mai – a farsi capire dal figlio è forse uno dei ruoli più difficili, per lui che non lascia né un figlio, né un nipote. La corsa terrena di Alberto si chiude con il cavallo Nestore: il vetturino romano è l’ultimo personaggio a cui ha voluto veramente bene. Il destino crudele dei cavalli era un suo grande, autentico dolore.
«Ero un ragazzotto con i calzoni corti, ciccione, con le ginocchia sporche e sbucciate, mi piaceva passeggiare per la città a piedi, con il pallone, tu-tum tu-tum, lo tiravo e lo facevo rimbalzare su un muro altissimo, sulla collina più bella di Roma, quella che scende verso l’Appia Antica... Mi arrampicavo per guardare dentro quella villa meravigliosa e mi chiedevo: ma chi ci abiterà? Quando ho avuto i soldi, sono andato a comprare proprio quella casa dei sogni, casa mia». Se avesse girato un film sulla sua vita, Alberto Sordi lo avrebbe cominciato così. E invece, ha sempre detto di no alle decine di richieste. Guai a sollecitare una biografia, o un’autobiografia, non esisteva una cifra a cui il grande attore avrebbe detto sì. «Ma che autobiografia, porta male – mi confidò una volta – e poi, a che serve? Io ho tutti i miei film, dal primo all’ultimo, conservati nel sotterraneo di casa, tutti i ritagli stampa raccolti in album. Fin dagli anni Quaranta, in tutti i contratti cinematografici, ho chiesto ai produttori una copia originale del film per me. La mia vita è in ordine, conservata alla temperatura giusta... Chi vorrà ricordarmi, troverà tutto a posto».
Un’identificazione totale con il cinema e con i suoi personaggi. Una vita sul set, cambiando mille maschere, indossando il bene e il male, vestendo miseria e nobiltà, più volte anche nel corso dello stesso anno. In un paese che non aveva ancora scoperto i sondaggi, il Censis e i «trend», in quell’Italietta che non faceva tendenza e che nessuno imitava, gli uomini e le donne si sono specchiati per decenni nelle sue pellicole. Credibile tanto come Nerone che come Vitellone, ha attraversato la sua Roma magica da vigile solerte, da tassista saggio, da giornalista disperato, da soldato spaventato, da moralista spietato e ambiguo, da presentatore Rai dentone e testardo. Sordi raccontava proprio come eravamo... Eravamo, anche: vigliacchi, magliari, furbi, un po’ delinquenti, ma sempre cocchi di mamma. Il ladro di Ladra lui ladra lei porta alla madre le coperte prese in prigione e lei commenta: «Tu’ padre, quello sì ch’era un omo, portava anche servizi di cucchiaini e forchette...», mentre la ex ladra Monica Vitti sale sul treno e saluta la famiglia dal finestrino del vagone letto come fosse arrivata a Hollywood... Provinciale, pieno di debiti, ma soprattutto bugiardo, il cittadino italiano degli anni Cinquanta azzarda la scalata sociale con tutti i mezzi, tanto nei film quanto nella realtà. Cambiali, promesse, cambi d’abito fulminei, piccoli e grandi imbrogli serviranno a costruire quel boom improvviso che coglierà tutti impreparati. E qui la commedia diventa di nuovo verità. Lo stile del neoricco è quello che è. Il conte Max insegna. A tavola, nei mille ristoranti, negli alberghi di Cortina, l’arte di arrangiarsi (uno dei primi film) rende possibili occasioni irripetibili. Il commendatore, il sottosegretario, il ministro: davanti a tutti ci si inchina. Servile e ambizioso da borghese, diventa signore proprio quando è un poveraccio, come nell’indimenticabile partita a scopone scientifico. L’uomo-Alberto non ha paura del ridicolo, teme soltanto la suocera, un’autorità. Da scapolo, da vedovo, da conquistatore, la «mia signora» è infatti sempre una vittima predestinata, segnata dal destino che segnò tutte le mogli fino agli anni Settanta. La fede, il simbolo matrimoniale che Sordi commesso viaggiatore nasconde nel taschino appena salito sul treno, è il segno dell’infamia. E se la macchina scoperta è il sogno del vitellone che fa il gestaccio ai lavoratori e poi viene raggiunto e picchiato, il politico e il cardinale servono – sempre – a dare una mano. Eravamo anche innamorati dell’America, un’America immaginaria... Il ragazzo della marrana, quel Nando Moriconi che finge di mangiare marmellata e hamburger per poi tuffarsi nello spaghetto di mammà, scoprirà – negli anni a seguire – il mito di Elvis, le femmine bionde e il rock, ma dovrà aspettare trent’anni per un vero cheeseburger. Sempre in anticipo sulle mode, il Sordi di Fumo di Londra inventa – nel 1966 – lo stile inglese all’amatriciana, tutto falso, tutto «made in Italy», un modo di essere che ancora governa le vetrine dei negozi da uomo.
Alla fine dei Sessanta, il boom è finito. Il playboy è un personaggio superato, i vincenti diventano più duri. Il dottor Tersilli è il prototipo perfetto del medico della mutua imbroglione e presto lo ritroviamo primario di clinica, c’è chi traffica in armi e chi si diverte allenando una squadra di calcio. Tutto è più complicato, dopo la contestazione generale. Il volto di Alberto Sordi perde, con il passare degli anni, il tratto esclusivo della comicità amara. Ridiamo di meno, non c’è più la dolce vita, ai politici si spara, la giustizia salta in aria con il sistema... E qui c’è la triangolazione migliore dell’attore: magistrato inflessibile in Tutti dentro, che precede le inchieste di Tangentopoli di otto anni, è anche credibile con il suo opposto, quel detenuto in attesa di un giudizio che non arriva mai ed è superlativo nei panni del giustiziere borghese, piccolo piccolo, ferito e violento. Nei ruoli più recenti, il padre che viaggia con Carlo Verdone e non riesce – mai – a farsi capire dal figlio è forse uno dei ruoli più difficili, per lui che non lascia né un figlio, né un nipote. La corsa terrena di Alberto si chiude con il cavallo Nestore: il vetturino romano è l’ultimo personaggio a cui ha voluto veramente bene. Il destino crudele dei cavalli era un suo grande, autentico dolore.
Barbara Palombelli