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 2013  luglio 01 Lunedì calendario

Margherita Hack, la figlia delle stelle alla quale non fregava nulla di brillare (intervista del 5/6/2012)

la Repubblica, martedì 5 giugno 2012
Alla periferia di Trieste, nel quartiere di Roiano, vive Margherita Hack. Esprime un senso di forza Marghe, come la chiamano qui, abbreviandone familiarmente il nome. Avvinghiata a due stampelle che la sostengono e l’aiutano a camminare, mi viene incontro dal giardino di una casa a due piani. Vi abita dal 1986. Sorride e nella sua parlata toscana mi presenta Zacchi un vecchio cagnetto che mi annusa sospettoso digrignando i denti: «Sono meglio di noi», dice, arrestando un pensiero a mezz’aria. Poi ci sediamo su una panca. Il cielo è pulito dopo la bora dell’altro giorno. Gli oleandri e un paio di ulivi fanno da corredo al nostro parlare. L’astronoma più famosa d’Italia sembra una ragazzaccia che ha da sempre rinunciato a inseguire modelli femminili. Veste dimessa: T-shirt, un paio di anonimi pantaloni, e un golfino per proteggersi dal fresco. È unica, Marghe. Nel modo di raccontare, di esprimersi, di acconciarsi. Confessa che una sola volta in vita sua è andata da un parrucchiere. Guardo la pettinatura che le acconcia una donna che le viene in casa. Le chiedo se le è mai venuto in mente di sedurre qualcuno. Scoppia a ridere: un mio collega mi definiva la bestiona. [...]

Cos’è per lei l’anticonformismo?
«Un modo per sopravvivere alla noia e alla mediocrità».

È un tratto del carattere che l’ha aiutata?

«Direi di no, anche se non lo so con precisione. In fondo sono sempre stata così. Problemi grossi non ne ho mai avuti. Ho fatto una carriera normale, lavorando con impegno e serietà. Non sono giunta a scoperte eclatanti. Ma non me ne lamento».

Però un posto nella storia dell’astronomia se lo è guadagnato.
«Tutta la vita ho studiato le “stelle strane” e lì effettivamente una scoperta di un certo rilievo l’ho fatta. Fu un’intuizione. Ci vollero anni per provarla, quando installarono il satellite dell’ultravioletto».

Parla di sé senza enfasi, né abbellimenti.

«Mi dà noia la retorica e poi non mi piace pensare che l’uomo sia il centro dell’universo. Una sciocca presunzione».

E cosa siamo?

«Un prodotto della sua evoluzione. Più complicato delle stelle. Più simili agli animali, anche se il nostro cervello ci ha consentito di fare un bel salto».

Verso dove?

«Capacità di astrazione. Anche cani e gatti hanno un cervello abbastanza sviluppato, ma non fanno filosofia».

Lei ha una predilezione per gli animali.
«Li preferisco agli uomini. Da giovane ero molto introversa. Poi, col tempo, ho realizzato una forma di adattamento con gli adulti».

E i bambini?
«Non mi sono mai trovata. Per loro non ho nessuna attrazione. Forse perché sono rimasta bambina anch’io. Ricordo però che mi piaceva l’affetto che i miei mi dedicavano».

Che famiglia è stata la sua?
«Mio padre e mia madre erano molto in anticipo sui tempi. Mi hanno insegnato l’amore per la libertà, per la giustizia e il rispetto per il prossimo».

Il cognome Hack?
«Mio nonno era di origine svizzera. Emigrò in Italia. A Firenze. Venne a fare il pasticcere, portò con sé, oltre alla moglie, un figlio di un anno. Mio padre crebbe a Firenze. Lui sviluppò una fede protestante, mentre la mamma era cattolica. Le dico questo perché non ho mai capito il loro turbamento religioso, la preoccupazione per l’aldilà. Il fatto poi che a un certo punto divennero teosofi mi sconcertò».

Divennero cosa?
«Mollarono la religione tradizionale e abbracciarono una scuola di pensiero. Il babbo credeva nella reincarnazione, nei Maestri che ti insegnano la via. Delle belle panzane. Io li chiamavo matti. Ma mi hanno insegnato ad essere vegetariana».

Lo dice con riconoscenza.
«Penso che mangiare carne sia esercitare violenza sugli animali. E poi sono giunta a questa età senza problemi di alimentazione. Anzi sono stata perfino un’eccellente atleta a riprova che le verdure fanno bene».

Non sapevo dei suoi trascorsi sportivi.
«Ero dotata per il mezzofondo. Non avevo scatto, ma fiato e velocità sì. Mi selezionarono per i campionati europei. Ma nel 1942 c’era la guerra e tutto fu bloccato. Mi dedicai agli studi».

Scoprendo la bellezza del cielo.
«Macché. Mi iscrissi a lettere. Andai alla mia prima lezione, tenuta da Giuseppe De Robertis, e mi sembrarono tutte chiacchiere. A quel punto mi venne in mente che mi piacevano la matematica e la fisica».

Materie in cui eccelleva a scuola.
«Non direi. Stavo tra il sei e il sette».

Non brillava.

«Non me ne fregava nulla di brillare, né di essere la prima della classe. Non avevo ambizioni scolastiche, mi interessava capire e la fisica mi piaceva. Insomma, cambiai facoltà. Avvicinandomi alla scienza».

E quindi all’astronomia.

«Non ci pensavo proprio. Volevo fare una tesi sperimentale in elettronica. Ma il direttore dell’Istituto pretendeva che mi laureassi in elettrostatica. Argomento per me vecchio, per cui mi rivolsi al professor Abetti, l’unico astronomo di fama internazionale, che aveva tra l’altro un assistente molto bravo. Con loro feci una bella tesi sperimentale sulle stelle variabili. Imparai a usare il telescopio e la spettroscopia. Mi laureai nel 1945. Per un po’ feci l’assistente volontaria. Ma non c’erano grandi possibilità. Per cui nel 1948 andai a lavorare a Milano. Occupandomi di tutt’altro».

Il cielo poteva attendere.
«Non c’erano soldi, E nel frattempo mi ero sposata. Con Aldo vivevamo dai miei, desiderando di renderci indipendenti. Fui assunta alla Ducati che aveva aperto una sezione di ottica e radio a Milano. E aveva messo a punto una piccola macchina fotografica che avrebbe dovuto fare concorrenza alla Leica. Il mio compito era quello di scrivere le istruzioni per l’uso della macchinetta. Lo stipendio era sufficiente per me e Aldo».

Aldo, cioè suo marito, come lo conobbe?
«C’eravamo conosciuti da bambini ai giardini pubblici. Ricordo che si giocò insieme un’estate intera. Si andava d’accordo. Ma poi lui si trasferì con la famiglia in un’altra città. Ci ritrovammo a Firenze durante gli anni dell’università. E nel rivederci ebbi la sensazione di avere di fronte un estraneo».

Ma le piaceva?
«Mi era indifferente. Mi piaceva il suo ricordo di bambino. Ma siccome né lui né io in quel momento si era impegnati, cominciammo a uscire e poi a baciarci. Ma ce ne è voluto! Lui era fascista e io antifascista, lui cattolico e io non credente, lui studente di lettere e io di fisica. Avevamo due caratteri opposti. Ma dopotutto ci siamo riconosciuti per quello che si era stati da bambini: due persone per un momento molto felici. E ora sono quasi settant’anni che si sta insieme».

Si sente fortunata di questo lungo rapporto?
«Abbiamo litigato tantissimo, ma poi sulle questioni di fondo l’accordo è sempre stato totale. Non credo di essere stata una persona facile. Non mi piacciono i compromessi. Forse per questo non sempre mi sono trovata benissimo all’università».

Nel senso?
«Gli ambienti accademici non sono mai stati l’ideale. Vi ho conosciuto persone valide. Ma prevalgono gli aspetti servili, conformistici. Sono luoghi dell’ipocrisia dove tutto ruota attorno a un barone che si sente particolarmente importante».

Come è sopravvissuta a tanta mediocrità?
«Grazie alla tenacia e al sapere che cosa esattamente avrei dovuto fare. E la prima cosa era vincere delle borse di studio per andare fuori dall’Italia».

La scienza cosa le ha insegnato?
«A osservare cercando di capire il funzionamento dell’universo. Le applicazioni della fisica ci hanno permesso di ricavare tutto quello che sappiamo sui corpi celesti».

Ma le stelle le vede solo da questo punto di vista?
«Sono corpi meravigliosi».

Sono anche delle metafore?
«Non ho mai fatto la poesia delle stelle. Semmai provo a immaginare come dovevano essere per gli antichi. La meraviglia che quei puntini luminosi e inalterati suscitavano. Il cielo penso sia il libro di testo dell’umanità. Quello che ha portato all’osservazione di fenomeni intangibili».

Gli antichi lo usavano per orientarsi e viaggiare.
«La polare come guida».

Le piace viaggiare?
«Un tempo sì. Ora, come vede, è diventato complicato».

Ora che fa?
«Studio, scrivo libri, faccio qualche conferenza, parlo con lei».

E che cosa non le piace fare?
«La prima cosa che mi viene in mente? Non prego mai».

La sua determinazione atea è incrollabile.
«Riflettendoci, in tarda età, questa determinazione è cresciuta».

Ci pensa?
«Il concetto di Dio mi persuade sempre meno. Non ricavo nessuna consolazione nell’idea di aldilà o di anima».

Come definirebbe l’anima?
«È il software del mio cervello che grazie all’esperienza elaboro continuamente da quando sono nata a quando morirò».

Non la turba l’accusa di scientismo?
«Non so neppure cosa voglia dire. La scienza non sa risolvere alcuni misteri: perché ad esempio c’è l’universo? Non lo so. Ma preferisco accettare il fatto che sia così piuttosto che ricorrere alla spiegazione di Dio. L’idea di Dio è troppo comoda».

E l’idea della morte?
«Qui non c’è nessuna spiegazione ulteriore. Tutto nasce, si consuma e muore. Anche le montagne subiscono la stessa cosa».

Qual è il suo rapporto con la paura della morte?
«Non ho paura della morte, semmai ho paura di non essere autosufficiente. Dovessi diventare un vegetale non vorrei fare la fine di Welby, cosciente ma nelle mani degli altri. Questo mi terrorizzerebbe».

È per l’eutanasia?

«Certamente. Lucio Magri ha fatto bene ad affidarsi al suicidio assistito».

Non è una scorciatoia?
«Sì, ma perché devo soffrire? Se non servo più a nulla, se non posso fare quello che mi piace, se devo vegetare: che ci sto a fare? Consumo risorse inutilmente».

Brutale ma chiara. Come quando confessa che non è mai andata a trovare i suoi genitori sulla loro tomba.
«È vero, ma lì, un po’ fuori Firenze, ci sono sepolte solo poche ossa».

Non crede nei simboli, nel rito?

«Mi dice di più una fotografia, vederli ritratti mi fa piacere. Ma non ho feticci».

E rimpianti?
«Neppure uno. È un sentimento a me estraneo. In questa lunga vita ho solo cercato di essere me stessa, senza mai barare».
Antonio Gnoli