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 2013  giugno 28 Venerdì calendario

La sentenza della Cassazione (documento del 6/12/2001)

001CCC


La Corte Suprema di Cassazione sezione prima penale. Udienza pubblica, giovedì 6 dicembre 2001
Sentenza della Suprema Corte di Cassazione 2743/2002.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE


Udienza pubblica del 6 dicembre 2001

(...)

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

1) LIPAROTA Francesco nato il 31 gennaio 1968

2) FERRARO Salvatore Antonio " 24 gennaio 1967

3) SCATTONE Giovanni " 7 febbraio 1968


avverso la sentenza emessa il 7 febbraio 2001 dalla corte di assise di appello di Roma

Visti gli atti, la sentenza e i ricorsi;

Udita la relazione fatta dal Consigliere

GIORGIO SANTACROCE

Sentite le conclusioni del Procuratore Generale

VINCENZO GERACI

che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata

Uditi per la parte civile:

l’avv. ORESTE FLAMMINI MINUTO, difensore di Russo Donato;

l’avv. LUCA PETRUCCI, difensore di Iacoboni Aureliana;

l’avv. BRUNO ANDREOZZI, difensore di Russo Tiziana.

Uditi i difensori:

gli avv.ti GIOVANNI ARICO’ e PIETRO NOCITA, difensori di Liparota Francesco;

gli avv.ti VINCENZO SINISCALCHI e DELFINO SIRACUSANO, difensori di Ferraro Salvatore Antonio;

gli avv.ti FRANCESCO PETREILLI e MANFREDO ROSSI, difensori di Scattone Giovanni.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

l. L’omicidio di Marta Russo nella sentenza della corte di assise di Roma emessa il 1° giugno 1999.

La mattina di venerdì 9 maggio 1997, Marta Russo, studentessa universitaria iscritta al terzo anno della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi dì Roma "La Sapienza", mentre camminava lungo un vialetto dell’Università a fianco e alla sinistra della sua amica Iolanda Ricci, veniva attinta al capo da un colpo di arma da fuoco e decedeva il successivo 14 maggio senza aver ripreso conoscenza.

Le indagini di polizia immediatamente attivate alla ricerca dell’arma e dell’autore dello sparo si appuntarono all’inizio, riguardo al luogo di provenienza del colpo, sulla finestra n. 7 del bagno disabili della Facoltà di statistica, posta al piano terra in prossimità dei luogo dei ferimento, per concentrarsi qualche giorno dopo sulla stanza n. 6 della "Sala Assistenti" dell’istituto di Filosofia del diritto, posta al primo piano della Facoltà di Giurisprudenza, in seguito al rinvenimento sulla finestra destra n. 4 di quell’aula di una particella composta da bario e antimonio, ritenuta residuo, univoco di sparo, e di una seconda particella composta da piombo e da antimonio, indicativa dello sparo.

Questi dati sembravano concordare con le prime dichiarazioni rese dalla Ricci, che aveva indicato come probabile luogo di provenienza dello sparo un punto più alto rispetto a quello in cui si trovava la sua amica, e con gli accertamenti autoptici che indicavano una direzione di impatto dei colpo moderatamente obliqua dall’alto verso il basso e dall’indietro in avanti.

La Corte di assise di Roma, con sentenza del 1° giugno 1999, riteneva che Marta Russo fosse stata uccisa da Giovanni SCATTONE, che si trovava all’interno della sala assistenti (stanza n. 6) dell’istituto di Filosofia dei diritto, dove nello stesso momento dello sparo (fissato alle ore 11,42) si trovavano anche Salvatore FERRARO, Francesco LIPAROTA e Gabriella Alletto; che alla scena avevano assistito il Liparota e l’Alletto, che era entrata nella stanza casualmente perché era alla ricerca della dottoressa Maria Chiara Lipari, assistente presso lo stesso Istituto; che dopo l’esplosione del colpo di pistola Ferraro aveva portato la mano alla fronte in un gesto di disperazione; e che la dottoressa Lipari era sopraggiunta pochi istanti dopo per fare delle telefonate e quindi non aveva assistito allo sparo.

La Corte condannava Scattone alla pena complessiva di anni sette di reclusione per omicidio colposo e per i connessi reati di detenzione e porto illegale di arma comune da sparo e Ferraro a quella di anni quattro di reclusione per favoreggiamento personale, così derubricata l’imputazione di concorso in omicidio volontario formulata originariamente nei confronti suoi e di Scattone. Assolveva invece il Liparota dall’imputazione di favoreggiamento personale, così derubricata anche per lui l’imputazione iniziale di concorso in omicidio volontario, trattandosi di persona non punibile per essere stata costretta a mentire a seguito delle minacce rivoltegli dal Ferraro, e quindi per aver agito in stato di necessità (art. 54 c.p.).

Secondo la sentenza, la prova specifica della responsabilità penale di Scattone e di Ferraro si imperniava sulle dichiarazioni della Alletto, della Lipari, del Liparota, di Giuliana Olzai e di Villella Rosangela, madre dei Liparota, nonchè sulle deposizioni testimoniali di numerose altre persone che erano servite a riscontrarle.

La Corte evidenziava in particolare che l’Alletto, ripetutamente ascoltata dagli inquirenti sia in veste di persona informata sui fatti che come indagata prima ed imputata poi di favoreggiamento personale, dopo aver a lungo negato in modo fermo e deciso di essere entrata nell’aula 6 la mattina dei 9 maggio tra le 11 e le 12, il 14 giugno 1997 aveva improvvisamente cambiato versione, affermando di essere stata presente al momento dello sparo; di aver sentito un "tonfo" e di aver visto quasi contemporaneamente un "bagliore" mentre stava parlando coi Liparota; di essersi girata verso la finestra e di aver sorpreso Ferraro nell’atto di mettersi la mano sulla fronte in segno di disperazione; di aver visto Scattone che impugnava una pistola di color nero e di averlo notato mentre riponeva l’arma in una borsa posta vicino alla scrivania e che poi venne presa dal Ferraro; di aver visto la Lipari entrare nella stanza proprio in quel momento per fare una telefonata urgente e subito dopo Scattone uscire e salutarla.

Tale versione accusatoria - in linea di massima e salvo altre precisazioni ed integrazioni - era stata mantenuta ferma dalla donna anche nel corso dell’incidente probatorio dei 31 luglio 1997 e durante la deposizione dibattimentale e il confronto avuto in quella sede con Scattone e Ferraro.

La presenza di Scattone, Ferraro, Liparota ed Alletto nella sala assistenti nel giorno e nell’ora dei ferimento della Russo era confermata dalla Lipari, in un lento faticoso e progressivo affiorare di ricordi e di dettagli che culminavano nelle dichiarazioni da lei rese l’8 agosto 1997 alla polizia dell’aeroporto di Fiumicino, dove la giovane si presentò coi fratello Vito per riferire che la mattina dei 9 maggio aveva udito, a pochi passi dall’aula 6, un "tonfo" e, entrata qualche attimo dopo nella stanza per fare delle telefonate, aveva visto, oltre a Liparota e all’Alletto, anche Ferraro e Scattone, sul quale aveva indugiato con uno sguardo per così dire "di stralcio".

Elementi di prova specifica si traevano altresì - sempre secondo la ricostruzione compiuta dai giudici di primo grado - dalle dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie del Liparota, che il 14 giugno 1997, dopo le informazioni testimoniali della Lipari e dell’Alletto, veniva colpito da ordinanza di custodia cautelare in carcere per concorso nell’omicidio volontario di Marta Russo e nei connessi reati di detenzione e porto illegali di arma comune da sparo.

Liparota, prima di essere tradotto in carcere, aveva scritto su un foglio intestato "Questura di Roma-Digos" di aver visto Scattone e Ferraro affacciati alla finestra, di aver udito un suono cupo e quindi di essersi reso conto che i due avevano sparato, e di avere Ano a quel momento taciuto perché minacciato di gravi ritorsioni. Nel corso dell’interrogatorio reso il 16 giugno 1997 davanti al Gip, Liparota ribadiva il contenuto della sua dichiarazione scritta, precisando che poco prima dello sparo era entrata nella stanza l’Alletto; che aveva visto Scattone e Ferraro stravolti dopo lo sparo; e che aveva inoltre notato il Ferraro che si metteva le mani in testa come in un gesto di disperazione. Ferraro, peraltro, lo aveva raggiunto immediatamente dopo nel corridoio, minacciandolo di pesanti ritorsioni ad opera di non meglio precisate "conoscenze in Calabria" qualora avesse riferito quello che aveva visto.

Lo stesso 16 giugno veniva sentita anche Villella Rosangela, madre del Liparota, che riferiva al magistrato, alla presenza dei difensori dei figlio, di aver appreso da lui, due o tre giorni dopo il ferimento di Marta Russo, che Scattone e Ferraro erano nella stanza n. 6, che sapeva che avevano sparato alla ragazza e che era stato da loro minacciato di morte. Sentita al dibattimento, la donna si era però avvalsa della facoltà di non rispondere, allineandosi così al comportamento processuale dei figlio Francesco che, il 17 giugno, subito dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari, aveva chiesto di essere interrogato dal procuratore della Repubblica davanti al quale aveva ritrattato le accuse formulate nei confronti di Ferraro e Scattone, trincerandosi dietro generici "non ricordo", per poi successivamente avvalersi, sia in sede di incidente probatorio (il 12 dicembre 1997) che in dibattimento (il 22 dicembre 1998), della facoltà di non rispondere. li 10 febbraio 1999 rendeva lunghe dichiarazioni spontanee, confermando peraltro la ritrattazione fatta davanti al Pm quando era agli arresti domiciliari.

Notevole importanza probatoria veniva attribuita dai giudici anche alle dichiarazioni di Giuliana Olzai, che, sentita il 9 luglio e il 24 settembre 1997 dal procuratore della Repubblica e poi in sede di incidente probatorio il 9 novembre 1997 e infine in dibattimento, aveva dichiarato che, la mattina del 9 maggio 1997, mentre si trovava al piano terra dell’istituto di Statistica, sottostante ai locali di Filosofia dei diritto, dopo aver appreso che avevano sparato a una ragazza, era uscita nell’atrio e aveva visto due giovani visibilmente agitati ai quali aveva chiesto di indicarle che cosa fosse successo ma loro non le avevano risposto, dirigendosi di corsa verso il corridoio interno della Facoltà di Scienze Statistiche. Precisava di essersi avvicinata alla ragazza ferita e di essersi messa a parlare con l’amica che le era a fianco al momento dell’esplosione; di aver rivisto il 13 giugno sul pianerottolo del secondo piano dell’istituto di Statistica uno dei due giovani che l’osservò con un’impressione così intensa da spaventarla, al punto di indurla a confidare il suo turbamento prima a un collega di facoltà, Silvano Salvatore, e poi al marito, Antonio Moretti, che l’aveva raggiunta poco dopo in istituto; e, da ultimo, di aver riconosciuto due giorni dopo vedendo il telegiornale i giovani di cui aveva parlato in due delle tre persone raffigurate (Scattone, Ferraro, Liparota). Nel corso delle sue dichiarazioni la donna aveva riferito di aver tardato la sua collaborazione con la giustizia per star vicino ai padre, colpito da ictus cerebrale e ricoverato in un ospedale di Aprilia dal 14 giugno al 7 luglio, fornendo anche particolari sui due giovani e sul modo in cui erano abbigliati (uno, Ferraro, portava con sé una borsa o una valigetta di forma rettangolare; Scattone, che aveva rivisto il 13 giugno, indossava in entrambe le occasioni una camicia celeste e dei pantaloni blu scuro). Concludeva dicendo di aver subito minacce telefoniche, come conseguenza della sua collaborazione con la giustizia.

La Corte di primo grado, nel ripercorrere le dichiarazioni dei testi e degli imputati, ribadiva la piena credibilità e sincerità della Lipari, della Olzai e della Aletto, a partire per quest’ultima dal 14 giugno; la falsità della ritrattazione dei Liparota; il carattere menzognero dell’alibi fornito dal Ferraro e i messaggi trasversali e inquietanti da lui lanciati allo stesso Liparota; l’assenza di qualsiasi alibi a favore di Scattone per il giorno e l’ora dei delitto e la sua sicura presenza nell’istituto di Filosofia del diritto in ora coincidente con il ferimento di Marta Asso.

Sul tema della prova generica, la Corte affermava la compatibilità della provenienza dello sparo dalla sala assistenti, ritenendo che vi fosse una più accentuata e concreta probabilità che il colpo fosse stato esploso dalla finestra n. 4 dell’aula 6, anziché dalla finestra n. 7 dei bagno disabili della Facoltà di Statistica, sita al piano terra, come aveva invece concluso la perizia collegiale (Torre-Benedetti-Romanini) disposta in dibattimento.

Quanto alla qualificazione giuridica dei fatto, i giudici osservavano che l’assenza di un movente escludeva l’ipotesi dell’omicidio volontario con dolo diretto, come pure quella dell’omicidio con dolo eventuale caratterizzato dal l’accettazione dei rischio di uccidere un passante e alla presenza per giunta di vari testimoni, e che era assai probabile invece che Scattone non fosse consapevole di maneggiare un’arma carica, peraltro mai ritrovata.

Da ultimo, il gesto di disperazione compiuto da Ferraro dopo il fatto, l’avere questi sempre negato di essere stato presente nella sala assistenti la mattina dei 9 maggio fornendo oltretutto un alibi mendace contando sull’aiuto dell’amica Marianna Marcucci, unitamente all’aver portato via dalla stanza la borsa dove era stata riposta l’arma dei delitto e alle minacce rivolte al Liparota perché non riferisse nulla di quello che aveva visto, realizzavano - secondo la Corte - gli estremi oggettivi e soggettivi dei delitto di favoreggiamento personale.

2. Il giudizio di appello e la ricostruzione dell’omicidio di Marta Russo nella sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Roma il 7 febbraio 2001.

La sentenza della Corte di assise venivaa appellata dal procuratore della Repubblica di Roma, dal Procuratore Generale presso la Corte di appello della stessa città e dagli imputati Scattone, Ferraro e Liparota.

Gli organi dell’accusa si dolevano che l’imputazione originariamente ascritta a Scattone e Ferraro fosse stata derubricata, dovendo costoro rispondere, a loro avviso, di concorso in omicidio volontario con dolo eventuale. Un’altra doglianza veniva formulata per l’assoluzione dei prof. Bruno Romano (che qui però non interessa) e per quella dei Liparota, non ricorrendo per quest’ultimo l’esimente dello stato di necessità e dovendo invece affermarsi la sua responsabilità in ordine al ritenuto delitto di favoreggiamento personale.

Scattone e Feerraro, sia nei motivi di impugnazione principali che in quelli aggiunti, contestavano l’attendibilità delle varie prove specifiche acquisite (testimonianza A Maria Chiara Lipari, dichiarazioni accusatorie di Gabriella Alletto, dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie di Francesco Liparota, deposizione di Rosangela Villella, testimonianza di Giuliana Olzai) sia nella genesi che nei contenuti: tanto più che i risultati degli accertamenti scientifici effettuati (di carattere medico-legale e balistico, sulla traiettoria intrasomatica dei proiettile e l’angolo di impatto con il cranio della vittima, sulla traiettoria esterna del proiettile e la sua provenienza, sui residui di sparo e sulle caratteristiche dell’arma e dei proiettile) erano stati tutt’altro che certi, sicché, aggiungendo incertezza ad incertezza, avevano ancora di più indebolito gli assunti accusatori.

Liparota contestava che il suo comportamento fosse astrattamente configurabile come favoreggiamento personale, sia pure scriminato dalla causa di non punibilità prevista dall’art. 54 c.p., potendo al più ravvisarsi nella sua condotta un’ipotesi di autofavoreggiamento mediato, non punibile ai sensi dell’art. 384 c.p., e cioè un favoreggiamento costituente il mezzo esclusivo e l’effetto automatico e riflesso della propria difesa.

Nel corso dei dibattimento di appello, articolatosi in numerose udienze, venivano disposte, tra l’altro, l’ispezione videoregistrata del luogo dei delitto e l’approfondimento di talune circostanze di fatto, come i contatti avuti dal Liparota con alcuni funzionari di polizia negli uffici della Digos prima di essere tradotto in carcere e la segnalata presenza di una quarta persona di sesso maschile uscita dall’aula 6 quasi contestualmente all’ingresso dell’Alletto. Subito dopo la discussione, però, la Corte disponeva una nuova perizia balistica affidandola al prof. Compagnini sulla provenienza dei colpo di arnia da fuoco che attinse Marta Russo (se dalla finestra n. 4 dell’aula 6 al primo piano dell’Istituto di Filosofia del diritto ovvero dalla finestra n. 7 del bagno disabili al piano terra della Facoltà di Statistica); una nuova perizia esplosivistica affidandola al dott. Zernar concernente l’analisi chimica delle particelle ritenute residui di sparo e rinvenute sulla finestra n. 4 dell’aula 6, nella parte interna della borsa appartenente al Ferraro, sulla cute e sui capelli di Marta Russo e sulla superficie esterna della borsa di Scattone allo scopo di accertare se esse avessero o meno un’origine unica, tenuto conto dei livello di radioattività e di ossidazione degli atomi; e, da ultimo, il 13 novembre 2000, dietro suggerimento dei dr. Zernar, una perizia nanometrica (o nanotecnologica) affidata al prof. Cingolani avente ad oggetto l’analisi comparata di alcune particelle (composte da fosforo, calcio, bario e piombo) rinvenute sul fondello dei proiettile estratto dal cranio della vittima con altra particella di analoga composizione rinvenuta nella borsa di Ferraro (fl. 252).

Passando ai motivi della decisione (che è del 7 febbraio 2001), i giudici osservavano innanzitutto come il processo fosse connotato da prove e non da semplici indizi e come alla mancata individuazione di un movente dell’uccisione di Marta Russo non dovesse attribuirsi alcuna rilevanza, discutendosi nel caso in esame di un omicidio con dolo eventuale, nel quale non esiste un movente.

Confermavano poi, nelle linee essenziali, la ricostruzione della vicenda operata dalla Corte di primo grado, ribadendo la casualità dei ferimento della vittima, che si trovò a transitare nel vialetto dove fu colpita per una decisione del tutto estemporanea e non preordinata; che tutte le piste c.d. alternative ipotizzate e pure seguite dagli inquirenti avevano dato esito negativo; che (doveva essere confermata l’ora dei ferimento alle 11,42, con pochi secondi di approssimazione in più o in meno; che, Va tutte le testimonianze acquisite al fine di accertare la provenienza dei colpo, assumeva maggiore rilevanza ed efficacia probatoria quella resa da Iolanda Ricci, la quale, per la stretta contiguità spaziale con la vittima e per le sue percezioni, aveva indicato come il colpo che attinse mortalmente la sua amica provenisse da sinistra, da dietro e dall’alto, confermando così che la traiettoria esterna del proiettile fu nel senso alto-basso.

Dopo aver sottolineato la convergenza della prova specifica e degli elementi di prova generica emersi dai vari accertamenti tecnico-scientifici disposti sia in primo che in secondo grado (di carattere medico-legale, balistico-esterno, ecc.), la Corte ricostruiva così la tragica vicenda della morte di Marta Russo.

La mattina dei 9 maggio 1997, verso le ore 11,40, Giovanni Scattone, Salvatore Ferraro e Francesco Liparota si trovavano nella sala assistenti (aula 6) dell’istituto di Filosofia del Diritto. Sopraggiungeva Gabriella Alletto in cerca di Maria Chiara Lipari e si rivolgeva a Liparota, collocato nella parte centrosinistra della stanza, per chiedergli se l’avesse vista. Non aveva ancora formulato interamente la domanda, quando udiva un 1onfo" e vedeva un "bagliore", verosimilmente prodotto dalla luce solare che in quel momento inondava la finestra, a seguito dello spostamento delle doghe della tenda da parte di Scattone. Erano le 11,42. Ferraro si portava le mani sulla fronte o nei capelli (la differenza era, secondo la corte, irrilevante) "in segno di disperazione". L’Alletto vide Scattone impegnato con 12 mano sinistra a scostare le doghe della tenda e con il braccio destro "teso, leggermente flesso verso l’esterno". Il giovane impugnava una pistola di color nero che ripose in una borsa risultata poi di proprietà dei Ferraro. In quel momento entrò la Lipari che vide l’Alletto, Liparota ed altre presenze, successivamente da lei individuate in Scattone e Ferraro. Uno dei due, uscendo dalla stanza, le passò accanto mormorando "Ciao Chiara". Subito dopo uscirono dalla stanza anche Ferraro con la borsa e Liparota, il quale venne raggiunto nel corridoio e minacciato dal Ferraro di ritorsioni se avesse parlato. Nell’atrio dell’istituto di Statistica, sottostante ai locali di Filosofia del diritto, al piano terra, Giuliana Olzai, sentendo un vociare e un certo trambusto, uscì dalla sala calcolo dove stava lavorando al computer e si trovò Scattone di fronte e Ferraro di spalle, restando colpita dal loro atteggiamento, avendo chiesto loro di sapere che cosa fosse successo e non avendo ottenuto risposta. Qualche giorno dopo, il 13 giugno, l’Olzai rivide Scattone sul pianerottolo dei secondo piano dell’Istituto di Statistica e rimase impressionata dal suo sguardo, al punto di confidarsi prima coi collega Silvano e poi col marito.

Procedendo alla valutazione delle prove specifiche raccolte, la Corte ribadiva la perfetta buona fede della Lipari, che giudicava teste di alta affidabilità sotto il profilo intellettuale e morale analizzando minuziosamente i suoi molteplici sentimenti e il suo complesso stato d’animo, affiorati e consolidatisi progressivamente e in crescendo (pietà e dolore nei confronti della vittima; angoscia e disperazione per essersi trovata, senza saperlo e senza volerlo, al centro di una così tragica vicenda; indignazione e rabbia nei confronti dei responsabili dell’istituto di Filosofia dei diritto, che, a suo avviso, sapevano e tacevano, creando un clima di omertà; frustrazione e rabbia per la sua situazione professionale dopo l’interruzione di ogni rapporto con l’istituto, dove svolgeva attività di assistente del prof. Romano; la sua determinata volontà di collaborare con gli inquirenti per far emergere la verità, senza accusare e coinvolgere persone della cui responsabilità non fosse più che sicura).

Attraverso l’esame delle sue dichiarazioni e delle molte telefonate intercettate sull’utenza della sua abitazione, i giudici facevano rilevare come la giovane acquisì sin dalle prime ore della sua ricostruzione mnemonica la certezza della presenza nell’aula 6 di Liparota e dell’Alletto, "senza essere stata suggestionata in nessun modo e senza suggerimenti di chicchessia, così come si dichiarò certa della presenza nell’aula assistenti anche di Ferraro e di Scattone solo l’8 agosto 1997, anche questa volta senza subire condizionamenti di sorta ma solo in forza della ricostruzione di un ricordo visivo e la percezione di parole che era sicura di aver udito.

Completamente agli antipodi della personalità e della situazione psicologica della Lipari andava giudicata invece - secondo i giudici - la personalità dell’Alletto, che, chiamata in causa dalla stessa Lipari, mantenne per lungo tempo un atteggiamento ostinatamente mendace e restio ad ogni tipo di collaborazione con gli inquirenti, continuando a negare di essere entrata nell’aula 6 e giurando sulla testa dei figli la sua assoluta estraneità alla vicenda, per decidersi solo il 14 giugno a riferire quello che aveva visto ed udito. Da allora in poi però la testimone aveva ripetuto la stessa versione, sia pure con qualche leggera variante, in altri momenti e in altre sedi.

Anche se l’Alletto doveva considerarsi una donna di cultura limitata, priva di grandi ideali di verità e di giustizia, ed anzi pronta a sacrificarli al tornaconto personale suo e della sua famiglia, nel senso che ella aveva sempre assunto come criterio dei suo agire quello della convenienza per i suoi interessi e per quelli familiari (lo dimostrava tra l’altro il suo assoluto disinteresse per la sorte di Rino Zingale, ingiustamente sospettato in un primo momento dagli inquirenti come il possibile autore dello sparo), nessun elemento dei processo autorizzava a ritenere che le sue dichiarazioni fossero state condizionate dalla paura di essere arrestata, non dovendosi confondere la paura di un arresto imminente con la falsità delle sue accuse. E’ difficile sostenere - si legge nella sentenza impugnata (fl. 334) - che una persona, per quanto influenzata o addirittura minacciata (s’intende, a fine di verità) possa completamente inventarsi i protagonisti e le modalità di un delitto".

Allo stesso modo doveva escludersi che l’Alletto fosse stata condizionata dalle dichiarazioni della Lipari e si fosse allineata passivamente alla versione dei fatti fornita dalla giovane assistente. Alla data del 14 giugno la Lipari si era detta certa della presenza nell’aula 6 solo dell’Alletto e dei Liparota, senza fare alcun cenno a Ferraro e Scattone, il cui nome, quale protagonista principale della vicenda, sorprese gli stessi inquirenti. Di qui la piena convinzione della Corte che le dichiarazioni accusatorie dell’Alletto fossero, nelle loro parti essenziali, attendibili.

Quanto al ruolo svolto dal Liparota nella vicenda, i giudici, dopo averlo descritto come un soggetto ansioso pavido e tendenzialmente depresso, erano convinti che le dichiarazioni accusatorie da lui scritte su un biglietto prima di entrare in carcere e poi confermate al gip il 16 giugno 1997 rispondessero a verità e che, quindi, la sua successiva ritrattazione, motivata dal rimorso di aver accusato degli innocenti e fatta quando ormai aveva raggiunto lo scopo dì uscire dal carcere, non potesse in alcun modo ritenersi -credibile, perché meramente funzionarie all’esigenza di non diventare il principale accusatore di Scattone e di Ferraro, ai quali era legato da stretti rapporti di frequentazione (non a caso il giorno dopo il ferimento della Russo era andato a cena a casa di Scattone "per non far vedere che era contro di loro"). La presenza dei Liparota nell’aula 6 non solo emergeva dalle dichiarazioni della Lipari e dell’Alletto, ma si ricavava proprio dalle plurime dichiarazioni da lui rese, da alcuni particolari riferiti (come il gesto di disperazione dei Ferraro), nonchè dal tenore di alcune conversazioni telefoniche intercettate sulla sua utenza.

Nessuna efficacia probatoria doveva invece attribuirsi alle dichiarazioni rese ai magistrati inquirenti da Villella Rosangela, madre dei Liparota, che, sebbene processualmente utilizzabili, risultavano rese dalla donna in una particolare situazione fattuale e psicologica: e cioè dopo aver appreso dai difensori dei figlio le dichiarazioni accusatorie da lui rese al magistrato nei confronti di Scattone e Ferraro, per cui aveva ritenuto di doversi uniformare ad esse, confermandole.

Quanto alla testimonianza della Olzai, la Corte ribadiva l’inconsistenza della tesi difensiva della sua tardività e della sua strumentalizzazione, per affermare che il riconoscimento sia pure informale da lei effettuato degli imputati Scattone e Ferraro costituisse un valido indizio a loro carico, destinato ad integrare e completare il quadro probatorio delle prove specifiche acquisite.

La Corte condivideva inoltre la valutazione fatta dai giudici di primo grado circa la falsità dell’alibi di Ferraro e l’inesistenza di un alibi per Scattone, precisando come il primo avesse mentito più volte, cercando di adattare la sua versione difensiva alle risultanze processuali che via via emergevano, seminando dubbi e sospetti a terzi ed esercitando suggestioni su possibili testimoni (ad esempio, Fiorini) affinché confermassero, la sua assenza dall’Università la mattina del 9 maggio, e come il secondo non fosse riuscito a provare la sua presenza quella stessa mattina né a Villa Mirafiori dove asseriva di essersi recato per incontrare il prof. Lecaldano né presso la segreteria della Facoltà di Lettere, dove era íscritto e che diceva di aver raggiunto verso le 11,50 per ritirare un certificato di convalida degli esami sostenuti fino a quel momento.

Fin qui la prova specifica. Peraltro, sempre secondo la ricostruzione operata dai giudici di secondo grado, la versione accusatoria dell’Alletto (cui deve aggiungersi quella del Liparota) aveva avuto modo di trovare molte ed importanti conferme anche nella prova generica.

Dopo aver sintetizzato i rapporti processualmente istituibili tra prova generica e prova specifica (fi. 414-416), la Corte si soffermava ad esaminare i risultati degli accertamenti autoptici e le conclusioni medico-legali concernenti la traiettoria intrasomatica dei proiettile e l’angolo di impatto con il cranio della vittima, per affermare che doveva ritenersi provato che Marta Russo fu colpita alla regione parietale sinistra da un proiettile di arma da fuoco cal. 22 con direzione sinistra-destra, moderatamente alta-bassa, e con un angolo di impatto obliquo, approssimativamente compreso tra gli otto e i venti gradi (fl. 424).

Quanto all’individuazione dei luogo di provenienza dello sparo, la Corte - dopo aver ripercorso il complesso iter degli accertamenti tecnici effettuati sia in primo che in secondo grado sulle particelle rilevate sulle finestre prospicienti il luogo dei delitto -concludeva che i prelievi effettuati nel l’immediatezza dei delitto sulla finestra dei bagno disabili della Facoltà di Statistica, al piano terra, avevano dato esito completamente negativo non essendo state rintracciate su di essa particelle di interesse; e che l’ipotesi di più accentuata probabilità della provenienza dei colpo dalla finestra del bagno disabili accolta in primo grado nella perizia collegiale Torre-Romanini-Benedetti non si basava su dati rigorosamente ed esclusivamente tecnico-balisticì, ma su argomenti logici e di valutazione di prova specifica riservati al giudice ed appariva inoltre connotata da una serie di gravi e a volte inspiegabili omissioni ed errori, sicché il giudizio finale da essa espresso andava rovesciato (fl. 464).

Attraverso le perizie del dr. Zernar e del prof. Cingolani era stato accertato infatti che la particella di antimonio-bario prelevata dalla finestra n. 4 dell’aula 6, pur non provenendo dall’innesco della cartuccia Eley sparata, era presente nella lega costituente il proiettile in senso proprio ed era quindi un probabile residuo di sparo. L’antimonio, assente dall’innesco delle cartucce Eley, avrebbe potuto essere stato ceduto dal proiettile, essendovi una scia di antimonio che, partendo dalla finestra n. 4 dell’aula 6, giunse, come una sorta di linea ideale di congiunzione, sulla cute e sui capelli di Marta Russo, formando sicuri residui di sparo (antimonio-piombo) e pervenne infine sulla zona caudale dei proiettile all’interno dei cranio, costituendo altri sicurissimi residui di sparo (fi. 476).

All’interno della borsa di Ferraro poi era stata scoperta dal dott. Zernar una particella quaternaria, costituta da fosforo-piombo-calcio-bario, "simile, non solo dal punto di vista qualitativo ma anche quantitativo", alle sei particelle rilevate sulla zona caudale del proiettile (che è quella direttamente e maggiormente investita dalla carica di innesco) e costituenti sicuri residui di sparo: a conferma e riprova dell’attendibilità delle dichiarazioni dell’Alletto, secondo la quale, dopo lo sparo, la pistola fu riposta nella borsa di Ferraro (fl. 477).

Passando alla qualificazione giuridica della condotta degli imputati, la Corte criticava l’ipotesi formulata dai giudici di primo grado che Scattone avesse imprudentemente maneggiato la pistola ritenendola scarica, optando per la più stigmatizzante tesi che l’imputato avesse commesso un omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento, avendo sparato con modalità tali (braccio teso, pistola portata al limite del davanzale, direzione di tiro pericolosa) da far ritenere con certezza che egli si prospettò il rischio di uccidere un passante, pur non volendolo (fl. 486-487).

Quanto a Ferraro, esclusa la configurabilità della sua cooperazione nell’omicidio difettando qualsiasi prova che egli fosse consapevole che Scattone avrebbe sparato, andava ribadita la sua responsabilità in ordine al reato di favoreggiamento personale, di cui sussistevano tutti gli estremi oggettivi e soggettivi. Ferraro, infatti aveva riposto l’arma dei delitto all’interno della sua borsa, minacciò Liparota di ritorsioni subito dopo essere uscito dalla stanza e si adoperò nei giorni successivi all’omicidio per depistare le indagini (t 491-492).

Pacifica, secondo la Code, doveva ritenerzi anche la responsabilità di Liparota in ordine allo stesso delitto di favoreggiamento personale, non potendo trovare applicazione nei suoi confronti la causa speciale di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p. e riconosciutagli dai primi giudici, difettando un rapporto di stretta consequenzialità tra il silenzio da lui serbato su un fatto tanto grave e le minacce indeterminate e scarsamente credibili rivoltegli dal Ferraro. Allo stesso modo non era configurabile a suo favore la tesi pure prospettata dai suoi difensori dell’autofavoreggiamento mediato, non sussistendo alcun nesso di consequenzialità tra il racconto della verità dei fatti e il danno paventato. La sua presenza casuale nella sala assistenti non gli avrebbe fatto subire alcuna conseguenza penale se avesse detto la verità, chiarendo subito la sua posizione. Liparota preferì invece aiutare Scattone e Ferraro ad eludere le investigazioni delle autorità inquirenti e quindi doveva rispondere dei delitto ascrittogli.

L’estrema gravità del fatto, le sue particolari modalità, l’ambiente in cui si era verificato, la cancellazione di una giovane vita dal luogo dei suoi studi e delle sue speranze giustificavano l’irrogazione della pena complessiva di anni otto di reclusione e della multa di lire due milioni per; Scattone, quale responsabile di omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento, e dei connessi reati di detenzione e porto illegali di arma comune da sparo, unificati sotto il vincolo della continuazione della pena complessiva di anni sei di reclusione e di due milioni di multa per Ferraro, quale responsabile di favoreggiamento personale e degli stessi reati in materia di armi, unificati anch’essi sotto il vincolo della continuazione; e della pena di anni quattro di reclusione per Liparota, responsabile dei solo reato di favoreggiamento personale. Seguivano le statuizioni relative alle spese processuali e quelle concernenti le parti civili costituite.

3. I ricorsi per cassazione. I motivi principali.

Avverso la sentenza della Code di assise di appello di Roma hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la stessa Corte di appello e i difensori dei tre imputati.

A) Il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Roma. Il Procuratore Generale si duole innanzitutto che i giudici, dopo aver risolto in senso positivo il problema dell’utilizzabilità processuale delle dichiarazioni rese dalla Villella, madre dei Liparota, ne abbiano escluso senza ragione l’efficacia probatoria omettendo di procedere ad un’analisi attenta di quanto da lei riferito e limitandosi ad affermare che. la donna avesse "fatto la cosa più naturale che una madre potesse fare in quella circostanza: confermare le dichiarazioni dei figlio". Nell’esclusione della "voce" della Villella dal processo, il PG ricorrente ravvisa una violazione dell’art. 1 comma 2 D.L. 7 gennaio 2000, n. 2, convertito nella L. 25 febbraio 2000, n. 35, secondo il quale le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore, sono valutate, se già acquisite al fascicolo per il dibattimento, solo se la loro attendibilità è confermata da altri elementi di prova assunti o formati con altre modalità": altri e diversi elementi di prova - si assume - già esistenti agli atti dei dibattimento.

Nell’atto di ricorso il Procuratore Generale lamenta altresì, sotto il profilo della violazione della legge penale sostanziale, che la Corte abbia disatteso la tesi dell’accusa di qualificare il fatto come omicidio commesso con dolo eventuale, inquadrando invece la condotta dello Scattone nella più blanda fattispecie del dell’omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento. Una volta rilevata la difficoltà e l’aleatorietà di un accertamento del motivo che determinò questo imputato ad esplodere il colpo di pistola che attinse il capo di Marta Russo - sostiene il PG riccorente - la Corte avrebbe dovuto desumere l’atteggiamento doloso della sua volontà omicida dalle circostanze obiettive costituite dalle modalità di esecuzione dei fatto emerse nel dibattimento, essendo del tutto estranea al thema probandum l’individuazione della "ragione precisa" dell’azione delittuosa posta in essere con la relativa accettazione dei rischio dell’evento più grave, erroneamente ritenuta in sentenza elemento necessario per comporre il quadro dei dolo eventuale.

B) Il ricorso di Gíovanni Scattone. Particolarmente ampio ed articolato è l’atto di impugnazione presentato dal difensore di Scattone, col quale vengono proposte numerose censure di natura processuale e sostanziale.

Il ricorrente lamenta innanzitutto la violazione degli artt. 190 comma 1 e 495 comma 2 del codice di rito e dell’art. 24 della Costituzione nella negata acquisizione a fini probatori delle tre Videocassette installate dal Sisde presso gli uffici della procura della Repubblica di Roma e che riproducevano i colloqui avvenuti M 1 giugno 1997 tra Gabriella Alletto e il cognato Luigi De Mauro, ispettore di polizia, e i ripetuti interventi effettuati dai magistrati inquirenti in quello stesso giorno per convincere la donna - che si ostinava a negare di essere entrata nell’aula 6 la mattina dei 9 maggio 1997 - a dire la verità e a raccontare come si erano realmente svolti i fatti all’interno di quell’aula. I giudici di primo grado avevano, con due successive ordinanze (la prima del 14 settembre e la seconda del 22 settembre 1981 disatteso le richieste difensive di acquisire la registrazione audiovisiva di quei colloqui e di quegli interventi, che pure era stata legittimamente autorizzata dal gip come intercettazione ambientale, facendo rilevare che essa rivestiva "funzione strumentale e non di documentazione dell’attività di indagine" e che, in ogni caso, le parti avevano avuto modo di visionarne ed ascoltarne il contenuto essendo state messe a loro disposizione le copie di quella registratone al fine di poter espletare le necessarie attività processuali. "Un’acquisizione integrale delle videocassette precisa il ricorrente - avrebbe consentito di comprendere "con evidenza addirittura plastica" la scansione dei tempi e le modalità con le quali si erano svolte le indagini nel momento più cruciale e decisivo, avuto riguardo agli importantissimi fatti verificatisi nei giorni immediatamente successivi all’11 giugno 1997 e culminati con la "capitolazione" dell’Alletto. La mancata acquisizione (ed utilizzazione) processuale delle tre videocassette aveva privato il processo di una chiave interpretativa indispensabile per la formulazione di un giudizio completo e responsabile, violando oltretutto il diritto dell’imputato alla controprova (art. 495 comma 2 c.p.p.) e il suo diritto a disporre di un fondamentale mezzo di difesa (art. 24 Cost.), dal momento che si era in presenza di un’operazione di intercettazione di comunicazioni e conversazioni che costituiva una prova decisiva idonea ad inficiare le argomentazioni che suffragavano la ritenuta attendibilità dell’Alletto e, quindi, il convincimento di colpevolezza dei giudici. Sul punto, peraltro, la sentenza impugnata non aveva fornito alcuna risposta alle specifiche deduzioni delle parti private formulate nei motivi di appello (sulla natura giuridica delle intercettazioni audio-video disposte, sulla loro possibilità di inserimento in ambito processuale, ecc.), limitandosi ad affermare tout court che l’acquisizione delle videocassette non era necessaria ai fini dei decidere e non giustificava la rinnovazione dei dibattimento.

Coi secondo motivo di ricorso, il difensore di Scattone deduce la mancanza ed illogicità manifesta della motivazione nella valutazione dei complesso delle dichiarazioni sulle quali si fonda l’accusa, passando in rassegna le dichiarazioni giudicate tardive della Lipari e l’assenza di spontaneità e coerenza delle dichiarazioni rese dall’Alletto, della quale viene rimarcato a più riprese il taglio negativo della sua personalità. il ricorrente si duole in particolare che, partendo dall’erroneo dato iniziale dell’individuazione di un preteso residuo dello sparo sul davanzale della finestra della sala assistenti di Filosofia dei diritto, si sia sviluppata una vera e propria inchiesta di polizia, in cui non hanno funzionato gli strumenti di garanzia previsti dalla legge, essendo state esercitate pressioni indebite e pesanti sulla Lipari e sull’Alletto. Quest’ultima, in particolare, era stata sottoposta il 14 giugno 1997 ad un lungo e stressante interrogatorio senza l’assistenza di un difensore, con grave pregiudizio della verità. Seguivano poi dettagliati ed analitici rilievi su una serie di ammissioni giudicate "slegate e non coordinate fra loro" fatte dalla Lipari e sulla inattendibilità delle dichiarazioni della Olzai, giudicata testimone "manovrata" o "mitomane".

La difesa dei ricorrente lamenta ancora, coi terzo motivo di ricorso, che la sentenza impugnata abbia omesso di indicare le ragioni poste a base dell’affermazione della sua responsabilità per omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento. Mette in evidenza in particolare che la prova della ragione precisa per la quale il soggetto agente ha accettato il rischio di provocare la morte di qualcuno non è elemento esclusivo del dolo eventuale come ritengono i giudici, ma è riferibile anche all’ipotesi della colpa cosciente: invano, tuttavia, si cercherebbe nelle pagine della sentenza anche un solo accenno alla ragione o comunque al motivo che avrebbe indotto Scattone ad introdursi nell’aula 6 con una pistola di cui non era mai stato accertato il possesso pregresso da parte sua, per sparare all’esterno della finestra e alla presenza per giunta di terze persone.

Il quarto motivo di ricorso ipotizza un vizio di motivazione in ordine alle deduzioni difensive formulate a sostegno dell’alibi fornito dall’imputato, di cui si contesta la ritenuta falsità. Scattone - si rileva - non avrebbe mai potuto fare "a casaccio" i nomi dei dottori Pollo e Canavacci incontrati la mattina del 9 maggio 1997 a Villa Mirafiori davanti allo studio dei prof. Lecaldano se non li avesse effettivamente visti; era inoltre certo che incontrò il prof. Lecaldano proprio in quel venerdì di maggio e non in altri venerdì dello stesso mese, così come era documentalmente provato che gli venne rilasciata proprio quella mattina dalla segreteria delia Facoltà di Lettere la certificazione da lui richiesta sugli esami sostenuti. Secondo il ricorrente, insomma, l’insieme della motivazione sull’alibi era inaccettabile, non obbedendo a criteri di pertinenza, logica e completezza: la Corte non aveva fatto alcun cenno tra l’altro alle deposizioni di testi importanti come il La Porta, che subito dopo il delitto non vide Scattone né "agitato né turbato".

Con il quinto motivo di ricorso si deduce la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla valutazione delle numerose relazioni peritali disposte nel corso del processo.

Dopo aver premesso la posizione di centralità che assumono nella vicenda in esame gli accertamenti specialistici, spesso interdisciplinari, di natura balistica, esplosivistica e medico-legale, a conferma e riprova della inadeguatezza della prova dichiarativa, definita "debole" quantomeno riguardo alla sua genesi la ricorrente censura:

- le conclusioni cui è pervenuta la Corte in ordine alla presunta negatività dei prelievi effettuati sulla finestra del bagno disabili della Facoltà di Statistica al piano terra (p. 37) data l’impossibilità di sostenere che su di essa non vennero trovati residui Eley (p. 39);

- l’apoditticità e l’erroneità dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata relativa alla presenza di una scia di antimonio che avrebbe collegato la finestra dell’aula 6 con la testa della vittima, sostituendo un dubbio giudizio di probabilità dei periti con un giudizio di necessità (pp. 40 e 43";

- la disomogeneità e l’irregolarità morfologica della particella catalogata come "indicativa dello sparo" (pp. 45-49);

- il rifiuto illogicamente motivato di procedere ad un ulteriore utile accertamento sulle fibre di vetro sul proiettile e sui filtri di prelievo dei bagno disabili, e l’assenza di qualsiasi argomentazione sulle attività tecnico-difensive svolte sul punto dal consulente tecnico della difesa dott. Gentile e documentate ai giudice di appello, facendo così venir meno una possibile correlazione tra il proiettile e il luogo dal quale sarebbe stato esploso (pp. 49~53);

- l’assoluta mancanza di motivazione sulla presenza-assenza di un silenziatore sull’arma dalla quale fu esploso il colpo mortale (pp. 53-55), - la contradditorietà della motivazione sulla traiettoria esterna del proiettile dedotta dalla inclinazione del c.d. angolo di impatto (il giudice avrebbe accolto i risultati della perizia Compagnini senza formulare alcun giudizio circa la sua correttezza intrinseca e senza sottoporre i relativi risultati di calcolo virtuale ad una doverosa verifica di compatibilità con i risultati dell’elaborazione medico legale operata dal primo collegio peritale) (pp. 55-62);

- la nullità della perizia balistica del prof. Compagnini in quanto l’elaborazione dei dati fisico-matematici era stata operata da soggetti diversi dal perito incaricato dell’indagine (pp. 62-641 ode ad essere fondata su errori e contraddizioni (pp. 64-67);

- la sorprendente metodica di accertamento seguita dal prof. Compagnini attraverso una arbitraria scelta e selezione delle emergenze testimoniali sulla posizione della testa della vittima (pp. 67-69);

- l’illogicità delle cadenze argomentative circa la valutazione della compatibilità delle due diverse postazioni di tiro (finestra dell’aula 6 e finestra dei bagno disabili), tenendo conto dei movimenti e della posizione della sola testa della ragazza uccisa, immaginando in modo innaturale il corpo come immobile e dritto (pp. 69-70);

- l’intrinseca contraddittorietà dell’attribuzione privilegiata di attendibilità della percezione della teste Jolanda Ricci rispetto a quella di altri testimoni (come il Ditta) in ordine alla provenienza (e all’altezza) dei colpo, trasformando in modo erroneo e travisante delle mere sensazioni al livello di prova "piena" o "semipiena" (pp. 70-74);

- la critica infondata ed immotivata cui è stata sottoposta la perizia collegiale disposta in primo grado (c.d. perizia Torre-Romanini~Benedetti) con riferimento soprattutto alla ricostruzione balistica, all’esito della quale venne espresso un giudizio di "maggiore probabilità" che il colpo mortale fosse stato esploso dalla finestra dei bagno disabili anziché dalla finestra della sala assistenti (pp. 7477);

- l’inesistenza totale di motivazione sulla natura ’Innovativa e sperimentale" della perizia nanotecnologica eseguita dal prof. Cingolani e disposta con ordinanza dei 13 novembre 2000 ai sensi dell’art. 603 c.p.p. nel giudizio di appello, volta ad accertare l’eventuale identità/difformità della particella quaternaria (fosforo, piombo, calcio e bario) rilevata all’interno della borsa di Ferraro e ritenuta compatibile con le particelle dell’innesco che caratterizzava la cartuccia che colpì la vittima (al primigenio giudizio di identità la Corte aveva finito per sostituire disinvoltamente in sentenza un giudizio di analogia tra particelle, senza subordinarlo alla esclusione di una diversa loro origine ambientale) (pp. 77-80);

- l’Inadeguatezza del metodo adottato dal prof. Cíngolani e quindi la sua mancanza di dignità probatoria, emerse dall’esito dell’indagine che non aveva consentito di formulare alcun giudizio di identità tra le particelle esaminate per quanto concerne la morfologia, la struttura e la composizione chimica delle stesse (pp. 81-86).

Concludeva la difesa dei ricorrente che, alla stregua dei rilievi critici svolti, la prova dichiarativa era rimasta priva di qualsivoglia riscontro esterno (P. 87): le conclusioni in materia balistica non offrivano infatti alcuna conferma esterna alle dichiarazioni della Alletto sulla posizione dei presunto sparatore dei colpo mortale che raggiunse Marta Russo (pp. 87-88). Illogiche e contraddittorie erano risultate molte delle argomentazioni di "compatibilità" contenute nella sentenza rispetto alle reali emergenze scientifiche, che inducevano invece a formulare un giudizio di maggiore probabilità che il colpo fosse stato esploso dalla finestra del bagno disabili, anziché da quella dell’aula 6.

Con il sesto ed ultimo motivo di ricorso, la difesa si duole della eccessività della pena detentiva irrogata nel massimo edittale al suo assistito, presunto responsabile pur sempre di un omicidio colposo e non volontario, in aperta violazione del principio della finalità rieducativa della pena proclamato dall’art. 27 comma 3 Cost. e dei criteri enunciati dagli artt. 132 e 133 c.p. per la sua determinazione concreta (personalità, giovane età, stato di incensuratezza). Determinazione che, proprio perché inflitta nella misura massima di legge, presupponeva una motivazione analitica, che nel caso in esame mancava del tutto, così come difettava ogni motivazione sul diniego delle circostanze attenuanti generiche, che non sono state fatte oggetto di specifica e distinta valutazione rispetto all’inflizione della pena base massima (pp. 91 -97).

Con lo stesso motivo si lamenta la carenza di qualsiasi indicazione in ordine all’entità dell’aumento apportato sia per effetto della ritenuta aggravante della previsione dell’evento sia con riferimento ai connessi delitti di detenzione e porto illegale di arma (pp. 97-98).


C) Il ricorso di Ferraro Salvatore Antonio. All’indicazione analitica dei vari motivi di ricorso, i difensori di Ferraro fanno precedere alcuni rilievi metodologici sulla prova specifica e su quella generica, soffermandosi inoltre su alcune affermazioni contenute nella sentenza impugnata e da essi non condivise.

Le critiche alla prova specifica investono le dichiarazioni della Lipari e la sua esternazione dei fatti avvenute attraverso una memoria a lungo termine, connotata da falsi ricorsi e da approssimazioni successive, così da evidenziare i rischi di una ricostruzione ex post, contaminata inevitabilmente da suggestioni. Lungo la stessa direzione si erano sviluppate anche le dichiarazioni dell’Alletto, quali risultavano dall’incontro videoregistrato dell’11 giugno 1997, dal possibile tenore dei discorsi avuti coi cognato ritornando a casa con lui sulla stessa auto dopo quell’incontro videoregistrato, dalla possibile presenza di un quarto uomo "vestito di nero" nell’aula 6.

Le critiche alla prova generica toccano le perizie svolte nel dibattimento di secondo grado dal prof. Cingolani e dal dottor Zernar in contraddittorio con il consulente tecnico dell’imputato, prof. Brandone, circa le "compatibilità" vagliate con le finestre che danno sul vialetto dell’università, le particelle rinvenute nella zona caudale dei proiettile repertato, la consistenza dei residui da sparo rinvenuti nella sua borsa, l’adozione di un metodo di indagine assolutamente nuovo come quello ideato dal prof. Cingolani e fatto proprio dalla sentenza di appello. I difensori criticano inoltre le definizione dei processo come processo non indiziario, insistendo sulla anomalia dell’accertata inesistenza di una valida causale dei delitto, sulle contraddizioni ed incertezze di cui il processo era intriso, e, da ultimo, sul tipo di motivazione adottato, volto a disattendere tutte le deduzioni difensive incompatibili con l’impianto complessivo dell’assetto argomentativo della ricostruzione operata, specie per quanto attiene il tema dell’inquinamento ambientale.

Più specificamente, con il primo motivo di ricorso la difesa di Ferraro si duole della mancata rinnovazione dei dibattimento nel giudizio di appello per eseguire un confronto tra l’Alletto e alcuni testi (Sagnotti, Cappelli, Armellini), non già per far rimarcare le due distinte verità professate dalla donna prima e dopo il 14 giugno 1997, ma al solo fine di evidenziare i condizionamenti da lei vissuti prima di quella data. Allo stesso modo il ricorrente lamenta il mancato riesame della Marcucci in sede di dibattimento di appello, a sostegno del suo alibi, non potendo condividersi la tesi della Corte secondo cui la ragazza aveva già manifestato irrevocabilmente la volontà di astenersi dal deporre e che la difesa non aveva quindi interesse a rivolgerle eventuali contestazioni. La Marcucci, prosciolta dall’accusa di favoreggiamento personale e divenuta quindi all’epoca della celebrazione dei giudizio di appello una testimone, aveva l’obbligo di deporre e, sentita in dibattimento, avrebbe consentito di elaborare una prova decisiva in suo favore.

Il secondo motivo di ricorso mira ad inficiare il giudizio positivo di credibilità che la Corte ha espresso sulle dichiarazioni rese dalla Lipari, dall’Alletto, dal Liparota e dall’Olzai. Si afferma l’illogicità della riconosciuta attendibilità delle dichiarazioni della Lipari, sottovalutando la sfasatura dei suoi ricordi faticosamente ricostruiti ex post ed enfatizzando la sopravvenuta sicurezza dei ricordi intervenuti solo l’8 agosto 1997, quando Scattone e Ferraro erano già stati arrestati; si mostra di condividere la tesi della Corte circa la "doppia convenienza" come caratteristica dominante della personalità dell’Alletto, ma si censura il fatto che essa non si sia tenuto sostanzialmente conto nella valutazione di attendibilità delle due contrapposte versioni fornite dalla donna, sottovalutando la portata dell’incontro videoregistrato dell’11 giugno e omettendo di motivare in ordine al rifiuto di acquisizione-utilizzazione dell’intercettazione audiovisiva dei colloqui Alletto-De Mauro e dell’interrogatorio dell’Alletto avvenuto lo stesso giorno da parte dei procuratore della Repubblica; si contesta il modo in cui sono state valutate le testimonianze dei funzionari di polizia che incontrarono il Liparota quando venne arrestato e dei quali la Corte di gravame aveva avvertito l’esigenza di acquisire le relative dichiarazioni, riducendone però il significato probatorio; come pure si contesta il modo in cui era stata valutata la deposizione dell’Olzai, omettendo di eliminare le tante incertezze che erano affiorate in relazione alla sua tardività, alla singolarità del modo di individuazione degli imputati e alle confidenze da lei fatte prima a un giornalista de Il Manifesto" e poi al magistrato inquirente.

Con il terzo motivo di ricorso si denuncia la nullità della perizia Compagnini, con riferimento all’analisi condotta dal prof. Anile e dai tecnici della "Signa Ipsilon" (Pellegri e Pazienza), non preceduta da alcuna nomina formale, in aperta violazione degli artt. 221, 226, 227, 228, 229 e 230 c.p.p.; l’omessa considerazione dei risultati dell’ispezione dei luoghi disposta dal presidente della corte di assiso di appello, senza parametraria al posizionamento dello sparatore fornito dall’Alletto; la sopravvalutazione del dato relativo alla possibile inclinazione dei capo di Marta Russo, idoneo secondo la Corte a rimarcare la maggiore probabilità della provenienza dello sparo dall’aula 6, senza tener conto della aleatorietà di questa misurazione; il valore probatorio attribuito ai risultati scientifici di una perizia (quella effettuata dal prof. Cingolani) ottenuti con un metodo dei tutto sperimentale e quindi privo di dignità scientifica.

Secondo il ricorrente, nella valutazione complessiva degli elaborati peritali la motivazione della sentenza appariva difettosa su vari punti, quali: la rilevanza probatoria dei residui di sparo rinvenuti (le particelle scoperte sarebbero compatibili con lo sparo, ma non sarebbero esclusive di esso); l’omessa considerazione dei tema dell’inquinamento ambientale (le particelle ternarie e quaternarie potevano essere considerate sia residui di sparo, sia manifestazioni di questo tipo di inquinamento); l’improbabile rilevanza dell’unica particella con la presenza di fosforo prelevata dalla borsa di Ferraro; il metodo "sperimentale" con cui era stata effettuata l’índagine peritale dei prof. Cingolani, in cui affiorava un vistoso scarto tra l’identità delle particelle e la similarità appurata nel corso delle indagini, ben evidenziata dal consulente tecnico di parte e ignorata dalia sentenza.

Il quarto motivo di ricorso censura il modo in cui era stato valutato l’alibi dell’imputato, non attribuendo per un verso rilevanza alcuna alle deposizioni di quegli studenti ed assistenti concordi nell’affermare di non aver visto o di non ricordare di averlo visto all’università la mattina dei 9 maggio 1997, e giudicando per altro verso inattendibile la sorella Teresa rinviando per relationem alle argomentazioni svolte sul punto nella sentenza di primo grado.

Erroneo era anche - ed è questo il quinto motivo di ricorso - l’aver ravvisato nei fatti addebitati al Ferraro il delitto di favoreggiamento personale, essendosi in presenza di un autofavoreggiamento mediato scaturito dalla scelta di difendere se stesso e non l’amico Scattone, ovvero se stesso e Scattone, attuando una difesa comune nell’ambito di un’indagine priva di specificazioni sulle distinte posizioni dei presenti nell’aula 6.

Con i successivi motivi di ricorso si denunciano poi l’assenza nella sentenza di ogni argomentazione circa la ritenuta responsabilità dei Ferraro in ordine ai reati di illegale detenzione e porto di arma comune da sparo (motivo n. 6); il disposto cumulo materiale delle pene relative al delitto di favoreggiamento personale e ai delitti in materia di armi, in luogo della ;continuazione (motivo n. 7); e l’eccessiva entità della pena complessiva inflitta in considerazione della abnormità dei fatto, vissuto come gravemente deviante rispetto al comune sentire della collettività, attuando così un’indebita pianificazione delle posizioni di tutti gli imputati (motivo n. 8).

C) Il ricorso di Francesco Liparota. La difesa di Liparota contesta, sotto il profilo dell’erronea applicazione degli artt. 187 e 192 c.p.p. e dell’erronea disapplicazione di una serie di norme di diritto penale sostanziale, l’avvenuto riconoscimento della responsabilità penale del suo assistito in ordine al delitto di favoreggiamento personale, frutto, dall’angolazione della prova specifica, di una sede di dichiarazioni che non hanno natura di prova piena, ma solo quella di elementi di prova di per sé insufficienti per una condanna, e, dall’angolazione della prova generica, di una serie di più o meno elevate probabilità probatorie, dalle quali non è scaturita alcuna certezza. L’incertezza che avvolge l’esatta ricostruzione del fatto travolgerebbe insomma anche la ritenuta responsabilità dei Liparota per il reato di favoreggiamento (motivo n.1).

Quanto alla mancata applicazione dell’esimente di cui all’art. 384 c.p. (motivo n. 2), la difesa prospetta due profili dei tema, quello relativo alle ritorsioni asseritamente minacciate all’Imputato per imporgli il silenzio e quello dettato dalla necessità di tacere per scongiurare il pericolo di un’ingiusta incriminazione a titolo di concorso nel delitto di omicidio.

Sotto il primo profilo si sarebbe verificata un’autentica contraddittorietà tra le sentenze di primo e di secondo grado, perché per la stessa imputazione l’Alletto era stata definitivamente prosciolta dai primi giudici, argomentando che la donna, pur non avendo subito specifiche minacce, aveva subìto però una sorta di pressione ambientale. Secondo la difesa, tale contraddittorietà, dipesa da un erroneo comportamento della pubblica accusa in tema di impugnazione, determinerebbe di per sé un annullamento senza rinvio per inammissibilità dell’ appello contro l’originario proscioglimento dei Liparota. L’avere negato in ogni caso il valore scriminante della minaccia dì ritorsione subita dall’imputato sarebbe manifestamente illogico, non essendosi in presenza di un pericolo generico ed altrimenti evitabile come si sostiene nella sentenza impugnata, ma di -una minaccia indeterminata e perciò tale da accrescere l’angoscia dei minacciato, tanto più che essa era rivolta anche nei confronti dei suoi familiari. Di qui la scelta di tacere per non sfidare l’autore delle minacce.

Sotto il secondo profilo, quello dei silenzio serbato per scongiurare il pericolo di un’ingiusta incriminatone per il più grave reato di omicidio, l’applicabilità al caso in esame dell’art. 384 c.p. scaturiva, secondo la difesa, da un lungo e consolidato orientamento giurisprudenziale, ormai risalente nel tempo, ben applicabile alla singolare vicenda giudiziaria dell’imputato.

Nella sentenza mancherebbe inoltre - sempre secondo la difesa dei ricorrente -qualsiasi cenno di motivazione in ordine alla possibile applicazione al caso in esame dell’art. 59 comma 4 c.p. in tema di esimente putativa, applicabile a tutte le cause di giustificazione, compresa quella speciale di cui art. 384 c.p. (motivo n. 3).

Il quarto ed ultimo motivo attiene al trattamento sanzionatorio, asseritamente giustificato dalla "gravità dei fatto", senza fare alcun cenno alla diversità delle singole condotte degli imputati, tutte omologate e poste sullo stesso piano: omettendo dì considerare che il fatto grave presupposto dei favoreggiamento contestato al Liparota era pur sempre un reato colposo, cioè non voluto e ai limiti della volontà colpevole. Il massimo della pena applicata sarebbe quindi un’eresia, non potendo condividersi l’indiscriminata negazione delle circostanze attenuanti generiche per tutti gli imputati.

4.I motivi nuovi di ricorso.

In prossimità dell’udienza di trattazione dei ricorsi, Scattone e Ferraro hanno depositato presso la cancelleria di questa Sezione dei motivi nuovi.

La difesa di Scattone aggiunge ulteriori argomenti a sostegno dei primo motivo di ricorso, relativo alla mancata acquisizione delle cassette contenenti la videoregistrazione di quanto avvenuto l’11 giugno 1997 negli uffici della procura della Repubblica di Roma, richiamando i principi fondamentali della ricerca della verità e dei favor reí, un principio generale, quest’ultimo, informatore dell’intero ordinamento processuale penale, valido sia per la valutazione dei mezzi di prova che per la loro acquisizione. Amputare dal materiale probatorio le cassette videoregistrate - si spiega - viola oltretutto l’art. 526 c.p.p., nella parte in cui esige la conoscenza da parte di tutti i componenti dei collegio giudicante dei contenuto integrale di tale materiale, che si iscrive peraltro nella sequenza intesa ad ottenere la capitolazione. dell’Alletto per estenuazione e culminata nel l’interrogatorio del 14 giugno 1997.

La difesa riprende poi l’argomento della importanza decisiva che ha nel processo l’accertamento scientifico-peritale a fronte di una prova dichiarativa intrinsecamente "debole" osservando che l’indagine si orientò verso l’istituto di Filosofia dei diritto e i suoi frequentatori solo ed esclusivamente in ragione dei rinvenimento di una particella (GSR) ritenuta sulla base di un primo erroneo giudizio esplosivistico (quello eseguito dal dott. Falso) residuo univoco dello 5paro e che indusse gli inquirenti ad abbandonare la pista più accreditata dei bagno disabili (p. 8); contesta le conclusioni alle quali perviene la sentenza impugnata sui risultati della prova scientifica ("evidente convergenza della prova specifica e di elementi di prova generica") in contrasto con la giusta premessa che un accertamento di mera compatibilità non potrebbe mai confermare una prova dichiarativa (p. 9); critica le valutazioni formulate con riferimento agli esiti complessivi delle indagini scientifiche, ritenute viziate dalla mancata ricerca di particelle prive di antimonio come avrebbero dovuto necessariamente essere le particelle prodotte da un innesco Eley dei quale peraltro non era stata rinvenuta traccia alcuna sulla finestra dell’aula 6 (p. 1011); ritiene arbitrarie ed illogiche le valutazioni formulate in ordine ad una "inesistente" scia di antimonio che dimostrerebbe secondo la corte la provenienza del colpo mortale dalla sala assistenti (pp. 11-13).

Seguono altre critiche alle conclusioni della perizia esplosivistica sullo stesso punto, alla mancata esecuzione di un’ulteriore indagine tecnica sui frammenti di fibra di vetro sul proiettile, che attinse la vittima e sul filtri di prelievo dei bagno disabili come suggerito dallo stesso perdo Zernar e dal consulente tecnico della difesa (pp. 13-14), all’erronea svalutazione della presenza di un silenziatore sull’arma dei delitto (pp. 14-15), alla sede di travisamenti operati con riferimento agli accertamenti medico-legali (pp. 15-16), all’inaccettabile percorso argomentativo seguito per convalidare i risultati meramente sperimentali della perizia nanotecnologica sulla particella rinvenuta all’interno della borsa dei Ferraro (pp. 17-18).

L’ultima doglianza investe le statuizioni concernenti l’applicazione delle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici ed interdizione legale per la durata della pena) inflitte dal giudice di primo grado e confermate dal giudice di appello, che non ha tenuto conto sia dell’art. 33 c.p., che ne esclude l’applicabilità in caso di condanna per delitto colposo, sia della misura della pena inflitta per i reati in materia di armi, che è inferiore a cinque anni (p. 19).

Salvatore Ferraro prende spunto dalle cadenze telefoniche che hanno costituito lo sfondo dell’ingresso della Lipari nell’aula 6 per accusare la teste di aver mentito (parla di "invenzioni") in ordine ad alcune circostanze di fatto da lei riferite (la presenza dell’Alletto e del Liparota in sala fax e nell’aula 6 e il ritorno dell’Alletto nell’aula 6) attraverso un sospetto processo di adattamento, di frammentazione prima e di ricomposizione poi, di frammenti mnemonici.

Critica inoltre il modo in cui si è proceduto all’esperimento giudiziale dei "manichini", assolutamente atipico del 26 maggio 1997 e per giunta non verbalizzato, e le incredibili aggiunte apportate dalla Lipari nelle sue dichiarazioni dell’8 agosto, che non possono relegarsi nel novero delle approssimazioni successive", come ritiene la sentenza impugnata.

Un’altra ragione di doglianza è costituita dalle menzogne dell’Alletto, che la sentenza giudica un fatto scontato fino al 14 giugno 1997, ad onta delle pressioni e dei condizionamenti subiti dalla donna, e delle sue scelte di convenienza.

Ulteriori vizi investivano - secondo la difesa di Ferraro - le perizie e le consulenze tecniche della pubblica accusa, che avrebbero dovuto servire a sorreggere le acquisizioni di prova specifica, di incerta e difficile decifrazione. La sentenza impugnata non avrebbe sciolto - a dire del ricorrente - il dubbio sulla validità dell’operato dei periti di primo grado, sulla scelta dei metodo adottato dal prof. Cingolani, sui risultati della prova peritale; non. avrebbe tenuto conto che la connessione tra le due prove, specifica e generica, assicurata in primo grado dal rinvenimento di una particella’ nel posto in cui sarebbe stato posizionato lo sparatore secondo il racconto dell’Alletto-, era venuta meno in grado di appello, introducendo la novità della "scia di

antimonio"; e aveva finito, da ultimo, per valorizzare dati probatori acquisiti in sede di rinnovazione del dibattimento di appello che non hanno superato la soglia della compatibilità.

Alla vigilia dell’udienza di trattazione dei ricorso, la difesa di Ferraro ha depositato presso la cancelleria di questa sezione un’ulteriore memoria, ribadendo che il processo di appello aveva fatto registrare un consistente sgretolamento delle risultanze probatorie poste a carico dei suo assistito, con specifico riferimento alla prova generica balistica e chimico-esplosivistica, che si era rivelata nella sostanza una "prova dei l’incertezza", a carattere aleatorio e passibile di molteplici letture interpretative. Anche la verifica critica della prova specifica si era rivelata carente, soprattutto per quanto si riferiva alla ricostruzione degli spostamenti dell’Alletto dall’aula 6 alla sala fax, la presunta presenza in istituto dei Ferraro la mattina del 9 maggio, la singolarità dei modo coi quale erano state valutate le dichiarazioni "progressive" della Lipari, assurdità della scena dei delitto e della scelta di sparare, l’ambigua triangolazione" Alletto-Di Mauro e Di Mauro-inquirenti, lo scioglimento dei nodo probatorio relativo alla contrapposizione delle due versioni fornite alla Alletto, la sua completa indifferenza emotiva durante e dopo il "fatto" cui sosteneva di aver assistito, le sue confidenze ai colleghi circa le pressioni subite ad opera degli inquirenti, il ruolo svolto dai cognato ispettore di polizia e suo confidente, le testimonianze rese dai funzionari di polizia afferenti ad imbeccate, suggerimenti ed informazioni fatte alla Lipari e al Liparota. Omissioni motivazionali e sviste caratterizzavano inoltre - sempre secondo la difesa dei Ferraro - le determinazioni finali della sentenza in ordine alla condanna per i reati di detenzione e porto illegale di arma comune da sparo, il diniego delle circostanze attenuanti generiche, la mancata applicazione della continuazione nella fissazione della pena, la singolarità dell’interpretazione dell’art. 133 c.p.

Da ultimo è pervenuta a questa Code una lettera a firma dello Scattone, in cui si ripercorre l’intero iter della vicenda giudiziaria e vengono formulate in estrema sintesi le doglianze oggetto dei motivi di ricorso proposti dal suo difensore di fiducia.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I di Scattone e Ferraro sono fondati nella parte in cui denunciano un’erronea valutazione della prova specifica, sia pure in un’ottica diversa da quella proposta dai loro difensori.

Ed invero, fermo recando che la verifica (e l’interpretazione) critica delle dichiarazioni processualmente rilevanti da qualunque parte provengano costituisce indagine di merito che sfugge al sindacato dei giudice di legittimità, salvo l’eventuale vizio di motivazione originato dal superamento dei limite intrinseco posto alla libertà di convincimento dei giudice (che, nel caso in esame, non è dato rilevare), ritiene il Collegio che, nell’artico [azione dei quadro motivazionale e nell’apprezzamento delle singole risultanze di prova specifica, e, in definitiva, sul terreno strettamente metodologico dei confronto dei relativi contenuti, la Corte di merito abbia violato la regola di giudizio espressa dall’art. 192 comma 3 c.p.p., che indica il particolare criterio argomentativo che il giudice deve seguire nel portare avanti l’opera di valutazione delle dichiarazioni rese da determinati soggetti.

L’attività di ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento e il giudizio di valutazione di essi si pongono infatti come momenti distinti dei giudizio di merito, ma può accadere che il giudice di merito incorra - come si è verificato nel caso in esame - in errores in iudicando nel compimento dell’attività di accertamento e di apprezzamento dei dati probatori a sua disposizione, eludendo le regole issate dal legislatore sul meccanismo inferenziale che presiede alla valutazione di determinate fonti di prova.

Il codice di rito vigente infatti continua sì ad adottare il principio dei libero convincimento dei giudice inteso come libertà di valutare la forza persuasiva dei materiale probatorio con esclusione di qualsiasi precostituzione legale di regole che consentano di passare dal factum probans al factum probandum, ma l’adozione di questo principio non può costituire un fattore di scavalcamento di quei particolari, anzi specifici canoni valutativi, che il legislatore ha dettato per saggiare l’attendibilità di talune risultanze probatorie, in ossequio ad un principio di legalità della prova cui anche il giudice è tenuto ,ad obbedire, sia pure in una logica assai lontana e, per certi versi, opposta a quella di un sistema di prove legali nel senso tradizionale dell’espressione.

Ai fini della valutazione probatoria delle dichiarazioni di un soggetto, non si può invero prescindere dalla qualifica formale ovverosia dallo "status" al medesimo attribuibile nel processo in cui sono state rese.

La valutazione delle dichiarazioni dei chiamante in correità (o reità) regolata dai commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p. assume infatti connotazioni particolari, atteso che, ai sensi della norma citata, mentre rispetto alle dichiarazioni accusatorie rese da chi non ha mai acquistato la veste formale di imputato (o indagato) dei medesimo reato o di un reato connesso o collegato, il giudice deve porsi solo il problema dell’attendibilità dei teste, se disinteressato o no, nel caso invece in cui una persona imputata (o indagata) muova un’accusa all’indirizzo di un terzo, il discorso giustificativo della decisione, pur allargandosi nei contenuti, deve canalizzarsi metodologicamente verso la corretta formazione di quella dichiarazione accusatoria.

Secondo le prescrizioni dei commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p., la chiamata in correità (o in reità) - intendendosi per tale quella proveniente da uno dei soggetti menzionati nei predetti commi -, per poter dare un oggettivo supporto al libero convincimento del giudice, deve essere confortata da "altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità", cioè da elementi di riscontro estrinseci che, se anche non raggiungono, rispetto alla chiamata, la consistenza di prova autonoma e distinta della colpevolezza dei chiamato in correità (o in reità) [altrimenti sarebbero essi stessi sufficienti a provarne la colpevolezza, rendendo superflua la c.d. "testimonianza del chiamante" considerati e valutati complessivamente ("unitamente" recita in modo assai pregnante la norma), risultino compatibili con la chiamata in correità (o reità) e siano rafforzativi di questa (Cass., 7 dicembre 1997, Agreste, in C.E.D. Cass., n. 203375; Id., 29 novembre 1990,, Avitabile, in Rív. pen., 1992, 423; Id., Sez. 1, 29 ottobre 1 99Q Di Giseppl in Cass. pen. mass. ann., 1991, li, 869; Id~, Sez. Un., 3 febbraio 1990, Belli, M, 1990, li, 37, in cui vengono indicate per la prima volta le linee interpretative dell’intero art. 192 c.p.p., con specifico riferimento alla qualificazione giuridica della chiamata in correità e ai requisiti necessari per porla a fondamento di un’affermazione di responsabilità).

Le dichiarazioni accusatorie di un imputato (o indagato), insomma, in tanto sono destinate ad acquistare un’intrinseca forza rappresentativa - tanto da essere definite non mero indizio di verità, ma elemento di prova in sé veridico, secondo l’espresso dettato dell’art. 192 comma 3 c.p.p. - in quanto il significato degli altri elementi di conferma sia discusso e criticato nell’ambito di acquisizione di quelle dichiarazioni normativamente "sospette" o comunque considerate non esaustive. A conferma e riprova che la chiamata in correità (o in reità), proprio perché proveniente da un imputato dei medesimo reato ovvero di un reato connesso o interprobatoriamente collegato, presenta, per definizione, caratteristiche funzionali che impongono di sottoporla ad un vaglio argomentativo per così dire di secondo grado: se ne saggia prima l’intrinseca coerenza con la connessa affidabilità della fonte di provenienza per poi garantire l’assenza di un interesse alla delazione gratuita, dando al chiamante e ai suoi interlocutori l’opportunità di fornire spiegazioni - se le possiedono - su tutti gli altri elementi di prova che servano da riscontro.

Mediante la previsione di questo particolare metodo di valutazione delle dichiarazioni di parte sul fatto altrui non si stabilisce affatto una presunzione di inattendibilità di determinati soggetti condizionati dal diritto naturale di difendersi o dal loro coinvolgimento nella stessa vicenda, perché, se agli "altri elementi di prova" è affidata la funzione di confermare l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie dei chiamante, ciò vuoi dire che tale attendibilità non è negata a priori, ma solo che è priva di autonoma sufficienza e che spetta pertanto ai riscontri probatori esterni renderla piena. li principio dei necessario riscontro probatorio della chiamata di correo - o, ciò che è lo stesso, l’impegno dei giudice ad effettuare una valutazione "unitaria" della chiamata in correità (o in reità) con "altri elementi di prova" che ne corroborino l’attendibilità - trae origine dalla esigenza fortemente avvertita di circondare della massima cautela il ricorso a una prova di per sé suscettibile di avere le più variegate spiegazioni al di là dei contenuti - anche sotto il profilo motivazionale, come è quella proveniente da chi è coinvolto in misura diversa negli stessi fatti -per cui si procede.

Nella rilevata prospettiva dialogica, l’art. 192 comma 3 c.p.p. esplicita la regula probationis della chiamata in correità (o in reità) collegandola per un verso con quella più generale delle prove indiziarie e per un altro verso con l’altra delle prove rappresentative, inquadrando il relativo canone ermeneutico nello schema classificatorio che fa leva sulla distinzione tra materiale rappresentativo e materiale critico di giudizio.

L’affermazione non è di quelle che hanno un puro significato scolastico e meramente formale. Mentre, infatti, in ordine agli indizi si enuncia la regola che solo una loro pluralità organizzata in un quadro metodologicamente coerente ("gravi, precisi e concordanti") è in grado di fornire una ricostruzione sicura dei fatto (art. 192, comma 21 in relazione alle dichiarazioni dell’Imputato del medesimo reato o di reato connesso a norma dell’art. 12, oppure collegato ai sensi dell’art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., è stabilito che l’estensione dell’analisi ad altri elementi di prova serve solo a confermare l’attendibilità delle dichiarazioni dei chiamante. Di fronte a una chiamata in correità (o in reità), insomma, il ragionamento giudiziale deve essere attratto unicamente verso l’evocazione dell’accaduto operata dalla parte: cosicché,’ gli elementi da valutare "unitamente" ad essa hanno funzione di riscontro e non di allargamento dei risultati probatori del discorso intavolato con il dichiarante. Come dire che l’art. 192 comma 3 c.p.p. si insinua nei passaggi interni dell’iter motivazionale, nel senso di codificare e determinare nei suoi contorni essenziali la rilevanza probatoria delle dichiarazioni di un imputato sul fatto altrui, orientando il controllo giudiziario della loro attendibilità verso la ricerca polarizzata di "altri elementi dì prova convergenti".

E’ questa, una precisa opzione dei legislatore dei 1988, che, nel dettare la regola della chiamata in correità (o in reità) c.d. "vestita", non si è solo premurato di precisare il tipo di "abito" che la chiamata deve "indossare" per essere ammessa nel "club" delle prove, ma si è proposto di prefigurare nelle linee essenziali anche un nuovo modello di motivazione che rifletta un più stretto legame fra prova e decisione. E ciò in quanto, come bene è stato sottolineato dalla più attenta dottrina, esiste uno stretto legame tra le caratteristiche della motivazione e il tipo di processo adottato: mentre il rito inquisitorio è caratterizzato da una motivazione redatta con formule st9reotipe di stile curialesco, nel processo accusatorio la motivazione della sentenza è congegnata la chiave eminentemente garantista, confrontando le proposizioni probatorie con quelle di accertamento, quasi come un effetto correlato al modello dialettico che alimenta il giusto processo secondo le coordinate costituzionali.

Questa scelta sistematica di fondo è stata resa esplicita proprio dalla previsione normativa di un canone ermeneutico come quello indicato dal terzo comma dell’art. 192 c.p.p., introdotto proprio per saggiare l’attendibilità di taluni dati probatori, in modo che non sfugga al controllo di logicità e razionalità dei giudice la peculiarità di talune situazioni processuali non ritualmente e validamente impostate.

Attraverso l’imposizione di una motivazione secondo il cennato canone valutativo che ne amplia la struttura sia in direzione dell’estensione degli elementi probatori da valutare che in direzione dei l’approfondimento dei relativi argomenti giustificativi, si offre al giudice dell’impugnazione la possibilità concreta di eseguire un controllo endoprocessuale dei valore persuasivo da attribuire a determinate dichiarazioni suscettibili di subire l’effetto di potenziali fonti inquinanti originate da eventuali ragioni utilitaristiche, soprattutto là dove come nel caso in esame - non è stata possibile identificare una causale del delitto avente idoneità rappresentativa diretta ed autonoma del factum probandurn.

Nella sentenza impugnata le varie prove specifiche (in particolare, la testimonianza di Maria Chiara Lipari, le dichiarazioni accusatorie di Gabriella Alletto, quelle auto ed eteroaccusatorie di Francesco Liparota, e le testimonianze di Rosangela Villella e di Giuliana Olzai) nonché la loro concatenazione logica, vengono lette ed analizzate come pure esemplificazioni - e conferme - di una proposta di ricostruzione dell’evento delittuoso verificatosi, senza specificare la diversa valenza dimostrativa sottostante alle singole esperienze probatorie derivanti dalla particolare veste processuale assunta. La verifica delle attendibilità intrinseca di ciascun soggetto è stata infatti compiuta utilizzando gli stessi parametri di giudizio, come se i vari dichiaranti fossero da mettere tutti sullo stesso piano e non su piani ontologicamente distinti (cfr. p. 322: "l’analisi critica delle dichiarazioni rese da Gabriella Alletto sarà condotta con gli stessi criteri. seguiti in relazione alle deposizioni di Maria Chiara Lipari).

Se ne trae un’ulteriore conferma dallo stesso ordine di trattazione dei e singole prove specifiche. L’esame delle dichiarazioni della Lipari (pp. 279-321),cioè di una testimone (sia pure dei tutto particolare, anche per la loro ritenuta importanza, perché è stata proprio l’accertata presenza della Lipari nell’aula 6 pochi attimi dopo il ferimento della Russo - sin dall’inizio affermata recisamente dalla teste -ad innescare l’indagine sul preteso luogo di provenienza dello sparo, offrendo un primo parziale riscontro della versione accusatoria), preced’e quello delle dichiarazioni rese prima dall’imputata Alletto e poi dall’imputato Liparota (p.322 ss), che sono i due chiamanti in correità (e/o in reità) di Scattone e Ferraro.

Ma non basta.

Sul versante della valutazione della rispettiva affidabilità intrinseca, la Alletto è stata contrapposta alla Lipari (p. 323) non già sul piano che era logico attendersi di una naturale e logica differenziazione di valenza di credibilità tra testimone ed imputata (posta alla fine in condizioni di fare via via importanti ammissioni), ma su quello completamente diverso della positiva utilizzazione delle dichiarazioni di entrambe pur essendosi in presenza di soggetti dalla

Personalità antitetica (p. 322: "agli antípodi), dimenticando che le dichiarazioni della testimone Lipari, contrariamente ad altre fonti di conoscenza (gli imputati Alletto e Liparota), non avevano bisogno di riscontri esterni di alcun tipo. Se si è fatto ricorso ad essi, ciò è stato funzionale soltanto al vaglio di credibilità della testimone a causa dei suo lento faticoso e progressivo affiorare di ricordi e di dettagli (Cass., 1° febbraio 1994, Mauriello, in C.ED. Case, n. 1968621 ampiamente spiegati del resto nella decisione di merito anche in relazione all’innegabile clima di "omertà" subito creatosi in ordine al grave episodio.

Nel procedimento de quo l’Alletto ha assunto in crescendo la veste di persona informata sui fatti e quella di indagata prima e di imputata poi del reato di favoreggiamento personale. Nella veste di indagata ha reso la chiamata in reità di Scattone e Ferraro. Identica sequenza temporale ha avuto la posizione processuale dei Liparota, il quale ebbe a rendere le dichiarazioni accusatorie ed autoaccusatorie nei confronti dei due principali imputati e ’nei suoi stessi confronti allorché venne raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per concorso in omicidio e nei connessi reati di detenzione e porto illegale di arma comune da sparo.

A differenza dell’Alletto poi, che dopo la clamorosa svolta del 14 giugno 1997, ha mantenuto costantemente ferme le sue accuse contro Scattone e Ferraro, Liparota le ha ritrattate subito dopo essere uscito dal carcere per trincerarsi dietro un lungo silenzio che ha rotto solo il 10 febbraio 1999, quando il dibattimento di primo grado era ormai alle ultime battute, per ribadire, nella sua qualità di imputato di favoreggiamento personale, che non aveva mai vissuto la scena svoltasi nell’aula 6 e raccontata dall’Alletto; che aveva scritto la lettera-confessione su sollecitazione della polizia, e che si era inventato la storia delle minacce ricevute dal Ferraro; che aveva confermato al gip quanto riferito dalla Alletto solo perché preso dalla disperazione e dalla paura dei carcere; e che, da ultimo, la ritrattazione delle sue accuse era dettata dal rimorso di aver accusato degli innocenti.

Va da sé che anche qui non si intende fare un rilievo di ordine formale o meramente linguistico: non è la circostanza marginale e del tutto irrilevante che nell’apparato motivazionale si parli a volte impropriamente di "deposizione" (p. 334) o di "testimonianza" (p. 347) dell’Alletto a suscitare le perplessità della Corte sulla legittimità (e validità) dei metodo adottato nella valutazione del materiale probatorio. In altre parti della decisione il giudice di merito ha avuto cura di far corretto riferimento agli "interrogatori, esami e controesami" cui la donna è stata sottoposta (p. 363), dimostrando così di non aver perso di vista l’esatto ruolo da lei ricoperto in questa vicenda giudiziaria.

Ciò che si imputa alla Corte di assise di appello di Roma è di non aver tenuto conto nel percorso motivazionale della sentenza dei canone argomentativo enunciato dall’art. 192 comma 3 c.p.p., avendo il giudice di merito proceduto ad una valutazione globale ed indifferenziata delle chiamate in correità e di tutte le dichiarazioni testimoniali acquisite, senza prima chiarire gli eventuali dubbi che si addensavano sulle chiamate in sé e per sé considerate, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad esse (cfr., per un utile riferimento, Cass., Sez. Un., 21 ottobre 1992, Marino).

In presenza della duplice chiamata in correità (e/o reità) dell’Alletto e dei Liparota l’approccio logico-argomentativo da seguire nella valutazione critica delle risultanze processuali andava assolutamente ribaltato rispetto a quello seguito dalla Corte di merito, prendendo avvio dalle dichiarazioni accusatorie convergenti dei due indagati per saggiare se tali dichiarazioni, oltretutto provenienti da soggetti diversi, dopo l’ormai consueta successione di operazioni logiche tendenti a verificare giudizialmente la loro attendibilità sia

intrinseca che estrinseca, fossero in grado di riscontrarsi a vicenda, essendo stata acclarata la loro indipendenza da suggestioni o condizionamenti che potessero in qualche modo inficiare il valore sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere è fossero quindi sufficientemente individualizzanti con riferimento specifico agli imputati e al fatto delittuoso loro attribuito: tenendo conto, in particolare, che uno dei due dichiaranti, il Liparota, dopo la chiamata in correità di Scattone e Ferraro affidata prima ad un foglio di carta e poi ribadita davanti al gip, aveva scelto la via della ritrattazione facendola seguire da una condotta di per sé neutra come il silenzio, H che induceva (quanto meno a domandami se e in che misura il silenzio (e l’ancora più successiva - e tardiva - spiegazione della ritrattazione fatta all’udienza dei 10 febbraio 1999) potesse minare l’attendibilità della chiamata precedente: (cfr. sul punto Cass., Sez. Il, 26 marzo 1999, n. 9640, Palazzo, Cass. pen. Mass. Ann., 2000, n. 1861 p. 3385), ovvero se, essendo emersa la necessità di riscontri idonei ad avvicinare in modo causale e rappresentativo gli accusati all’omicidio o a un momento diverso dell’iter críminis, la consistenza probatoria intrinseca delle singole chiamate fosse destinata ad incidere sulla estensione concreta dei riscontri esterni, esigendo, se dei caso, verifiche più rigorose ed approfondite.

E’ pacifico che qui non si pone tanto (o soltanto) un problema di natura della chiamata (se in correità o in reità: su cui vedi Cass., Sez. V, 8 ottobre 1999, n. 14272, Cervellione, in Cass. pen. Mass. ann, 2001, n. 296, p. 590), quanto di valutazione dello spessore probatorio degli elementi di riscontro in relazione alla già segnalata necessità di canalizzare le chiamate che hanno avuto per oggetto la presenza di Scattone e Ferraro nell’aula 6 la mattina dei 9 maggio 1997 in coincidenza con l’ora dei ferimento di Marta Russo e la loro individuazione come persone coinvolte nell’esplosione dei colpo che attinse la povera studentessa.

Da questo angolo visuale, pertanto, il tema probatorio doveva essere concentrato non sul modo in cui le due chiamate si erano formate, specie quella estremamente sofferta dell’Alletto, perché nessuna concreta rilevanza può e deve essere attribuita a talune presunte falsità della donna in ordine al momento in cui la stessa sarebbe uscita dalla sala fax insieme con la Lipari né alla mancata acquisizione-utilizzazione dell’incontro videoregistrato dell’11 giugno 1997 relativo ai suoi colloqui con il cognato Dì Mauro. Si tratta di circostanze che attengono al periodo immediatamente precedente alla "risoluzione" del 14 giugno 1991 e, come tali, sono del tutto estranee alla genesi delle dichiarazioni accusatorie della donna, che, in rotta decisa e convinta con l’atteggiamento menzognero assunto fino a quel momento e mantenuto fermo anche in sede di confronto con la Lipari (non sono entrata nell’aula 6, tra le 11 e le 12 del 9 maggio), si era decisa alla fine a cambiare versione, raccontando quello che aveva visto mentre si trovava con Liparota nella sala assistenti. Continuare a rimarcare le due versioni radicalmente contrastanti fornite dall’Alletto prima e dopo la svolta dei 14 giugno 1997, sia pure al dichiarato fine di far emergere ì condizionamenti da lei subiti prima di quella data, nulla toglie o aggiunge al problema della sua attendibilità intrinseca, che va valutata alla stregua di parametri diversi dalla visione di immagini "video" peraltro note alla difesa degli imputati e la cui acquisizione ali atti dei fascicolo per il dibattimento, sotto qualsiasi profilo, non può aver rilievo se non a fini extraprocessuali ma non era e non è destinata ad incidere in alcun modo sulla sua valutazione e sui meccanismi sottesi al libero convincimento dei giudice.

Allo stesso modo deve considerarsi estraneo alla regola di giudizio dettata dall’art. 192 comma 3 c.p.p. la valutazione concernente l’accertamento della provenienza e della direzione dello sparo. Ed invero, sotto tale specifico profilo, eccettuati quelli desumibili nel corso dei primi accertamenti medico legali e delle risultanze autoptiche, aventi una loro peculiare obiettività, qualsiasi altro risultato suscettibile di far acquisire dati aventi il carattere di ragionevole certezza era da considerarsi non raggiungibile, stante, tra l’altro, il mancato reperimento dell’arma e dei bossolo e l’assenza di residui di sparo sulla finestra dell’aula 6 e su quella dei bagno disabili, senza trascurare che nulla autorizzava ad escludere che lo stato dei luoghi e delle cose non fosse rimasto sicuramente immutato.

La valutazione giudiziale della chiamata in correità (o in reità) proveniente dall’Alletto e dal Liparota doveva essere focalizzata "solo ed esclusivamente in direzione dell’identificazione dell’autore dello sparo o comunque dei soggetti ai quali lo sparo era in varia misura riconducibile. E’ in questo contesto (e solo in questo) che andavano e andranno valutate le dichiarazioni testimoniali della Lipari, della Villella, dell’Olzai, e delle varie persone presenti al momento dei ferimento della Russo (come la Ricci, il Marongiu, ecc.); così come è nella stessa direzione dialogica che andavano e dovranno essere verificati gli alibi, veri o falsi, provati o non provati, dei due principali imputati che hanno sempre negato recisamente di essere stati presenti nell’aula 6 la mattina dei 9 maggio e nell’ora coincidente dei delitto.

Seguendo questo iter valutativo, il solo consentito dei resto dà una corretta applicazione dell’art. 192 comma 3 c.p.p. e dalle cadenze investigative della vicenda (almeno a partire dal momento in cui, sia pure a seguito dell’erroneo convincimento dei consulente dei PIVI dott. Falso, l’aula 6 dell’istituto di Filosofia dei Diritto è entrata nel mirino delle indagini), il giudice di merito avrebbe evitato non solo di avventurarsi in discutibili affermazioni di principio sui rapporti tra prova generica e prova specifica (pp. 414-416), ma si sarebbe reso soprattutto conto dell’inutilità di disporre d’ufficio la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale perché venissero compiuti una serie di nuovi accertamenti peritali, ritenuti "assolutamente necessari" ai fini della decisione (arg. ex art. 603 comma 3 c.p.p.), ad onta dell’eufemistica giustificazione che il ritiro della Corte in camera di consiglio, dopo la chiusura della discussione finale, era dettato dall’esigenza di "valutare le risultanze probatorie, anche alla luce delle argomentazioni svolte dalle Parti" (p. 242). L’espresso richiamo dell’art. 523 comma 6 c.p.p. rende esplicito che la Corte ha erroneamente ritenuto l’"assoluta necessità" di disporre due nuove perizie, quella balistica e quella esplosivistica (cui è seguita in un secondo tempo e come diretta derivazione di quest’ultima la -terza perizia, quella nanotecnologica), perché riteneva - al di là di ogni comprensibile e ragionevole eccesso di scrupolo e di completezza dell’indagine istruttoria di primo grado - di non essere in grado di decidere in base alle prove già acquisite. La rinnovazione dell’Istruzione dibattimentale nel giudizio di appello è notoriamente un istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (cfr., tra le tante, Cass., Sez. 1, 28 giugno 1999, n. 9151, Capitani, in Cass. pen. mass. ann., 2000, n. 1293, p. 2302).

La non necessità della disposta rinnovazione - e, di conseguenza,- la sua assoluta irrilevanza probatoria nel caso di specie - si trae altresì da un’altra considerazione di fondo, e cioè che non si comprende come, a distanza di un periodo di tempo non indifferente dai fatti e stante la ragionevole previsione di non poter ottenere dalle disposte perizie tecniche (alcune delle quali, avveniristiche ed ultrasofisticate, eseguite utilizzando metodi d’indagine mai sperimentati prima) risultati scientificamente certi ma solo di mera probabilità e di significato quindi dichiaratamente neutro, la Corte di merito abbia ritenuto di poter ravvisare una "convergenza tra prova specifica ed elementi di prova generica" nella ricostruzione dei fatto omicidiario, impiegando le risultanze della prova generica (sulla traiettoria esterna dei proiettile, sul rinvenimento di una particella quaternaria all’interno della borsa di Ferraro) in chiave di conferma decisiva delle dichiarazioni accusatorie di Gabriella Alletto (fl. 476 479).

E’ quanto meno discutibile, a tacer d’altro, che, nella valutazione degli esiti dei l’accertamento peritale balistico affidato al prof. Compagnini la Corte abbia ritenuto di dare rilevanza alle sei particelle che intersecano solo la finestra dell’aula 6, pretermettendo di considerare le altre sei particelle compatibili esclusivamente con la finestra dei bagno disabili e soprattutto le altre quindici traiettorie che intersecano entrambe le finestre (fi. 470-471). Esiti incerti dai quali i è preteso di far scaturire una impossibile certezza e un’altrettanta impossibile conferma.

La verità è che la prova generica (sulla quale è appena il caso di rilevare che si è a lungo soffermato anche il Procuratore Generale presso questa Corte) non ha alcun valore decisivo in questo processo, che si impernia - si ripete ancora una volta - sulla chiamata in correità (e in reità) di due imputati ad opera di due soggetti, le cui dichiarazioni accusatorie impongono un tipo di verifica giudiziale normativamente diverso da quello compiuto nella sentenza impugnata, che deve essere dunque annullata, rinviando gli atti ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma per un nuovo giudizio, all’esito dei quale restano riservate anche le statuizioni civili.

Così correttamente delimitato l’ambito di indagine demandato al giudice di rinvio, questi sarà libero di determinarsi in ordine alla responsabilità o meno degli imputati (di tutti gli imputati, compreso il Liparota, stante l’evidente connessione probatoria della sua posizione processuale di imputato di favoreggiamento personale con quella degli altri due imputati) provvedendo a valutare le prove specifiche acquisite uniformandosi al principio di diritto enunciato da questa Suprema Corte, saldandole col filo dei criteri di valutazione guidata indicati dal legislatore nell’art. 192 comma 3 c.p.p.

Decidendo con gli stessi poteri che aveva il giudice della sentenza ora annullata, il giudice di rinvio sarà tenuto ìn particolare a riesaminare e valutare le prove secondo il suo personale apprezzamento, statuendo anche sulla utilizzabilità ed efficacia probatoria delle dichiarazioni rese da Rosangela Villella e sulla configurabilità, se dei caso, dei dolo eventuale, come richiesto sia pure per ragioni ovviamente diverse - dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Roma e dalla difesa dei Liparota.

Quest’ultima, peraltro, ha ipotizzato nei motivi di ricorso una giustificata ed arbitraria contraddittorietà tra la prima e la seconda sentenza merito in ordine all’avvenuta formatone dei giudicato sulla posizione dell’Alletto, assolta in primo grado come il Liparota dal reato di favoreggiamento personale. A differenza dell’assoluzione di Liparota, che è stata oggetto di impugnazione da parte del Procuratore della Repubblica di Roma, questi non si è doluto della decisione assolutoria dell’Alletto, nei confronti della quale opera quindi l’effetto preclusivo proprio della intangibilità del giudicato che sì ritiene di dover ribadire in questa sede di legittimità, nel senso che il giudice di rinvio dovrà trarne le necessarie conseguenze ai fini dell’ormai definita posizione processuale della stessa e sarà tenuto quindi ad attrarre nel suo potere decisorio solo la statuizione relativa alla condanna dei Liparota per il reato di favoreggiamento personale, pronunciata dalla sentenza qui impugnata ed annullata.

P. Q. M.

Visti gli artt. 606, 623 c.p.p.

annulla

la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della corte di assise di appello di Roma per nuovo giudizio.

Così deciso in Roma, il 6 dicembre 2001.